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lunedì 17 ottobre 2022

Critica / Per Carlo Michelstaedter: Dalla Morte alla Vita.


Oggi, 17 Ottobre 2022, ricorre l'anniversario della morte di Carlo Michelstaedter.
Lo ricordo con un articolo, scritto nel lontano 2010, che continua a essermi caro
per le suggestioni evocate alla rilettura.
Tutte perfettamente ancora intatte.

Irene Navarra, Cimitero ebraico di Valdirose, La tomba di Carlo Michelstaedter, Fotografia, 2010.

La foto fu fortunosamente scattata alcuni giorni prima della feroce ripulitura cui furono sottoposti la pietra del cippo funebre e gli altri resti sparsi attorno.

Il mio ennesimo ritorno a Carlo Michelstaedter questa volta inizia non dalla casa di nascita, al n.4 di Piazza Grande, non dal fiume Isonzo che conobbe il suo corpo, né da Grado, da Pirano che videro il procedere dei suoi giovani anni e ne portano ancora i segni incancellabili. Questa volta a chiamarmi è la sua tomba sterile, nel cimitero di Valdirose, abbracciata quasi da quella corrosa del fratello Gino. Dalla Morte alla Vita, mi dico mentre pongo due piccoli sassi rituali su un altro più largo e piatto che sembra un altare. Lo sollevo per tentare di capire la sostanza del ricordo. L’erba sotto ancora verde testimonia un omaggio recente. Aggiungo due pratoline, un ranuncolo, un po’ di Occhi della Madonna e rifletto: la forma sferica dei ciottoli, il bianco, il giallo e l’azzurro dei fiori compongono un sincretismo religioso che forse gli sarebbe piaciuto. Piccoli gesti, semplici liturgie che simboleggiano la durata affettiva di quanti, come me, affidano a Carlo Michelstaedter i loro pensieri.

Il  cimitero ebraico di Valdirose è selvaggiamente bello, con un che di celtico  dato dall’erba rigogliosa e incolta, dalle pietre chiazzate di licheni  grigio-ocra, affioranti dal suolo o divelte, frantumate o intatte, svettanti  talvolta in cuspidi. Un frammento di verde tra nastri di strade e guardrail  come una coreografia astratta dove lo sguardo naufraga senza punti di  riferimento. Sculture ambientali con qualche installazione ossidata degna di  David Smith. Il suono dei motori delle macchine - sfreccianti per un secondo e  già lontane - rende aliena la pace schiva del posto. Circondata dal frastuono  di un progresso sbilenco, pare difficile chiudersi nella propria mente per  travalicare barriere di senso e cercare un contatto. La domanda inevitabile è:  può un luogo sacro essere incastonato in materiale vile come la lamiera e  l’asfalto può essere il nucleo di icone che nulla hanno di cultuale e parlano  solo di civiltà retorica? Evidentemente sì. Dalla vegetazione intatta dei Primi  del Novecento al tracollo attuale di ogni riguardo. Scelgo l’inevitabile  adattamento con una punta di malinconia, scacciata subito dalla consapevolezza  dell’attimo senza uguali.
L’ultimo rifugio di Carlo Michelstaedter non è più protetto dai due cipressi di specie  rara piantati il giorno delle esequie, e cresciuti in modo scomposto,  irriverente. Li ha annichiliti un taglio quasi radicale. I tronchi mutili,  apparentemente privi di dignità, mimano dei sedili. Mi guardo bene dal  toccarli. Gli alberi hanno un’anima da rispettare. Capto ancora la loro  energia. Mi siedo a terra, tenendo gli occhi fissi sul muro di cinta proprio  perché limita la vista fisica. Dischiudo quella interiore. Così, d’istinto, e  per balzi percettivi molto naturali. Dal finito all’infinito, insegna Giacomo  Leopardi. Oltre la sua siepe “interminati  spazi […], e sovrumani silenzi, e  profondissima quiete”. Il muro può ben sostituire una siepe. Luoghi e tempi scaturiscono dagli strati  della memoria profonda. Al di là del misero orizzonte si condensano idee,  individuali evocazioni. Il riflesso della luce del sole che mi riverbera alle  spalle e si smorza nelle crepe delle steli solitarie ha la vastità,  l’estensione di un piacere speciale. Nulla di trascendente. Piuttosto  un’impressione di matrice sensista che non chiede assolutezze. Mi riapproprio  del frutto del suo genio: le Poesie, Il  dialogo della salute, acquerelli, disegni, La persuasione e la rettorica, le  lettere, gli appunti, le note. Mi  scorre nella mente un film virtuale che porta significazioni e tratti. Immagini  incalzano: Carlo, Rico (Mreule), Nino (Paternolli) nello splendore della  giovinezza, le loro corse sfrenate lungo gli ampi viali della nostra città, lo  Staatsgymnasium in Via delle Scuole, le gite e i bagni al fiume, le fughe al  San Valentin, le notti sul San Valentin, Carlo a teatro, Carlo al mare, il  nuoto, il tennis, la scherma, Sofocle, Ibsen, Beethoven, Schopenhauer, la  sorella Paula, Firenze, Nadia Baraden, Jolanda De Blasi, Argia Cassini, la  soffitta di Nino, la pistola di Rico. Una ridda di fotogrammi come flash  improvvisi mi si affolta dentro. Dietro ogni nome e oggetto altre fisionomie e  dettagli. Differenti, eppure parte dello stesso tutto. Il volto di Carlo emerge  dall’indistinto, ora radioso ora cupo, in un alternare repentino. È un volto “mezzo tra bello e terribile”, come quello della Natura in dialogo con l’Islandese nell’omonima Operetta morale di Giacomo Leopardi.  Suggestioni, queste, giochi d’abbandono corrivo in cui voglio scivolare.

  Come  sempre quando penso a Carlo Michelstaedter avviene un fatto strano: il tempo  scarta e si riavvolge. A livello di coscienza, per intermittenze non uniformi o  incatenate in un prima e un dopo, ma sciolte come la parabola dell’iride in un  prisma cristallino dalle facce sempre fulgide, se lo vai ruotando. Facce  diverse, un unico cuore vibrante. Il passato ritorna, dunque. Così reale da inalare  odore di ceri e deglutire salso di lacrime, tra singhiozzi e salmodie. Riarrotolo  ancora un poco il filo del recupero, lascio la morte e torno alla vita di  Carlo: la sua voce sillaba gli ultimi versi della lirica del 2 agosto 1910, [Alla sorella Paula]: “Lasciami andare, Paula,  nella notte / a crearmi la luce da me stesso, / lasciami andar oltre il  deserto, al mare / perch’io ti porti il dono luminoso / … molto più che non  credi mi sei cara.”.

  Nel  mio qui e ora niente orizzonti metafisici, solo la pietra del cippo funerario  davanti a me. Liscia dov’è incisa la scritta con il suo nome. Calda.

Irene Navarra, in Speciale Cultura di Voce Isontina del 29 maggio 2010.

(Dall'apparato critico propedeutico allo spettacolo multimediale Omaggio a Carlo Michelstaedter / Di soglia in soglia la Percezione dell'Assoluto,  rappresentato al Teatro Incontrodi Gorizia il 4 giugno 2010, per il centenario della morte.) 


sabato 15 ottobre 2022

Critica e Arte / Per Carlo Michelstaedter - Di Soglia in Soglia la Percezione dell'Assoluto.

In ricordo di Carlo Michelstaedter e dell'evento a lui dedicato per il centenario della sua morte, avvenuta per suicidio il 17 Ottobre 1910. Tratto da uno Studio critico che mi ha impegnata per un anno intero.
Mente, cuore, sensi sempre in Lui.

Sul n. 4 della Rivista TRIESTE Arte & Cultura (maggio/giugno 2010) Tassilo Del Franco ha recensito l’ Omaggio a Carlo Michelstaedter / Di soglia in soglia la Percezione dell’Assoluto che Irene Navarra ha tratto da un suo studio come performance di riflessione sulle componenti Di Tenebre e di Luce della personalità del giovane intellettuale. Importante partecipazione creativa e critica all’evento da parte di Alessandra Rea che ha indagato le Tracce esistenziali del filosofo goriziano al di là della sua città, di Alessandra Marc in veste di interprete delle sue liriche, della musicista Michela Cuschie con suggestivi pezzi al pianoforte, di Giulia Rivetti e Giuseppe Mennillo nella personificazione coreografica della Bella Morte e di Carlo stesso.

 Carlo Michelstaedter: la Percezione dell’Assoluto

Quasi un secolo fa, il 17 ottobre 1910, moriva Carlo Michelstaedter. La sua figura di filosofo, poeta, artista, studioso, anche senza considerarne la giovanissima età, fu la più straordinaria che le nostre terre espressero prima delle guerre mondiali. Il fascino che tuttora emana da questo ragazzo unico nel suo genio lo rende sempre vivo, a confrontarsi col nostro mondo, solo apparentemente lontano. La causa profonda di questa sconcertante presenza tra noi sta in quella volontà di essere fino in fondo, che egli ebbe, essere qui e adesso, come chi coglie pienamente la vita nella sua dimensione totale, affatto distratto da tutto ciò che attenua il lacerante dolore della sua piena consapevolezza. Vita e morte (e la vita sulla soglia della morte) sono, per ciò stesso, tematiche ineludibili, vitalmente e tragicamente necessarie al pensiero del Michelstaedter:

Vita, morte
la vita nella morte
morte vita
la morte nella vita.
Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte filammo a questa morte

Il 4 giugno, “a centoventitré anni, un giorno e qualche ora dalla nascita, il 3 giugno 1887”, nella bella sala “Incontro” della Parrocchia di S. Rocco a Gorizia, si è tenuto un memorabile evento a ricordo del giovane goriziano. In esso non si è voluto certo approfondire, e nemmeno affrontare, le varie tematiche legate a Carlo Michelstaedter e alla sua produzione, ma suggerire riflessioni su di lui, farne apprezzare aspetti poco esplorati della complessa e delicata personalità, e della vita: un bel modo di far conoscere e forse amare la figura dell’uomo. L’ “Omaggio a Carlo Michelsaedter / Di soglia in soglia la Percezionedell’Assoluto”, che nasce da uno studio di Irene Navarra, poetessa goriziana e appassionata della vita e dell’opera del poeta-filosofo, ha coinvolto anche la scrittrice Alessandra Rea, la musicista Michela Cuschie e la lettrice Alessandra Marc. Nel corso della serata, che ha visto riempirsi rapidamente la sala per l’affluenza del pubblico, i quadri a olio e gli acquerelli del maestro goriziano Roberto Faganel e i “Pensieri in danza” di Giulia Rivetti e Giuseppe Mennillo hanno illustrato visivamente le parole lette sul palcoscenico. Musica, arte grafica e coreografie legate alla parola, hanno fortemente evocato la presenza del giovane goriziano, mostrandone l’attualità dopo un secolo. Nella tensione insostenibile del suo essere rivolto alla verità senza tramiti, per l’abbandono di sistemi filosofici, di contemplazioni metafisiche, di metodici artifici retorici, rimaneva al suo spirito la volontà di sublimarsi nell’espressione poetica dell’irraggiungibile. Al ragazzo goriziano si aprivano così  le vastità di una dimensione inesplorata dell’essere cosciente: far emergere l’inesprimibile, abbandonando la ricerca vana nei modi della retorica è mezzo per raggiungere, quasi senza cercarla, la verità profonda della persuasione. Quest’ultima dimensione l’avrebbe avvicinato, forse solo per un attimo, all’assoluto. Raggiunta la persuasione, nulla, se non il silenzio, è adatto alla sua definizione: essa, infatti, è contigua alla morte. Ma come toccare la persuasione, se non attraverso la poesia, il disegno, il volo della fantasia? Tutto nella vita è vanità, come nel Qohèlet, alla fine tutto è inutile orpello, per Carlo, al di fuori della persuasione nella pura coscienza.

Al mio sole, al mio mar per queste strade
della terra o del mar mi volgo invano,
vana è la pena e vana la speranza,tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.

Eppure il giovane Michelstaedter che vive con intensità la sua età e fa anche l’esperienza dei tormenti d’amore, non abbandona mai la dolorosa coscienza della realtà dell’esistere:

A che mi guardi fanciulla con gli occhi pieni di luce,
con gli occhi azzurri profondi ed al volto ti sale una fiamma?
Non ha sole la mia giovinezza, non conta gli anni il mio core
l’anima mia dolorosa non sa le primavere.
Fanciulla perché ti soffermi? perché t’avvicini al mio core?
perché o fanciulla l’avvolgi nel fuoco tuo giovanile?
Fanciulla è freddo il mio core, è freddo il mio core e lontano,
non sente l’alito ardente della tua giovane vita.

Sul colpo della pistola lasciatagli dall’amico Rico Mreule, che ha messo fine alla sua vita, si sono dette e scritte molte cose (nervosismo, suicidio metafisico, depressione...). Irene Navarra propone un’ottica interessante: “Come sempre quando penso a Carlo Michelstaedter avviene un fatto strano: il tempo scarta e si riavvolge. A livello di coscienza, per intermittenze non uniformi o incatenate in un prima e un dopo, ma sciolte come la parabola dell’iride in un prisma cristallino dalle facce sempre fulgide, se lo vai ruotando. Facce diverse, un unico cuore vibrante. Il passato ritorna, dunque. Così reale da inalare odore di ceri e deglutire salso di lacrime, tra singhiozzi e salmodie. Riarrotolo ancora un poco il filo del recupero, lascio la morte e torno alla vita di Carlo: la sua voce sillaba gli ultimi versi della lirica del 2 agosto 1910, [Alla sorella Paula]":

Lasciami andare, Paula, nella notte
a crearmi la luce da me stesso,
lasciami andar oltre il deserto, al mare
perch’io ti porti il dono luminoso
… molto più che non credi mi sei cara.

Una morte, dunque, per amore della vita, rincorrendo“il dono luminoso” della “pienezza dell’essere”?

Amico io guardo ancora all’orizzonte
dove il cielo ed il mare
la vita fondon infinitamente.
Guardo e chiedo la vita
la vita della mia forza selvaggia
perch’io plasmi il mio mondo e perché il sole
di me possa narrar l’ombra e le luci
la vita che mi dia pace sicura nella pienezza dell’essere.

Ecco Carlo Michelstaedter apparire illuminato dalla stessa malattia del vivere sulla soglia tra la vita e la morte. Eccolo sospeso nel “disadattamento per cause insite nello stesso esistere”. “Malattia come un filo con a un capo la vita, all’altro la morte. Che si sovrappongono se, con un atto di volontà determinata lo recidi, rendendo la vita morte".

Cade la pioggia triste e senza posa
a stilla a stilla
e si dissolve. Trema
la luce d’ogni cosa. Ed ogni cosa
sembra che debba
nell’ombra densa dileguare e quasi
nebbia bianchiccia perdersi e morire
mentre filtri voluttüosamente
oltre i diafani fili di pioggia
come lame d’acciaio vibranti.
Così l’anima mia si discolora
e si dissolve indefinitamente
che fra le tenui spire l’universo
volle abbracciare. 

Ahi! che svanita come nebbia bianca
nell’ombra folta della notte eterna
è la natura e l’anima smarrita
palpita e soffre orribilmente sol
sola e cerca l’oblio.

Tassilo Del Franco, in "TRIESTE Arte & Cultura" (maggio/giugno 2010)

mercoledì 16 agosto 2017

Critica letteraria / Le "Lezioni americane" di Italo Calvino per il nuovo millennio - Persistenze valoriali (4).



Irene Navarra, Italo Calvino, Pastello a olio e Grafica, 2011.
La Visibilità. “L’immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere” (ibidem, p. 102). È una delle definizioni della ricerca di Calvino. Quella in cui si riconosce pienamente. Ancora: lo spiritus phantasticus di Giordano Bruno, foriero di traslati in modificazione evolutiva. Possibile e impossibile che si riversano l’uno nell’altro, con spontaneità d’estro o con dipendenza culturale. Il risultato può essere interessante specie se sottratto alla civiltà delle immagini preconfezionate, veri e propri virus dell’autentica fantasia fatta di malie esperienziali, e di balzi al di là di esse. Dante che ci porta al Paradiso, ce lo spiega e dispiega con quanto la memoria ha potuto trattenere del suo viaggio. Folgorazioni di fuoco, gemme preziose. La metafisica della luce trionfa in ogni aspetto del regno di Dio e riverbera nel sorriso di Beatrice. L’Alighieri pensa tramite visioni, offre, da grande scenografo, vastissimi quadri che paradossalmente esprimono una verità inconfutabile: più astratto è il concetto da dimostrare più materico deve esserne lo specchio espositivo. Perché la facoltà immaginativa, nella condizione dell’excessus mentis, che trascende gli schemi della capacità sensibile, non è in grado di esercitare il suo compito di raccolta/elaborazione dei dati fenomenici. Si perde pertanto la vista fisica e si apre l’oltrefisica. Lo scrittore diventa veggente e ruba il fuoco prometeicoAllora, basterebbe rileggerlo con mente chiara, il sommo poeta fiorentino, per saperne di più sulla Visibilità. A metà tra la conoscenza mistica del cosmo e la ricognizione minuziosa dei fatti.
Formula calviniana risolutiva del problema: tendenza all’infinito dell’immaginazione + tendenza all’infinito della contingenza esperibile + tendenza all’infinito delle possibilità linguistiche della scrittura = prodotto letterario. Per dirla in termini di semplice operazione sommatoria integrata con l’aiuto beffardo della techne: lo scrittore prima si volge all’intensività e poi, inevitabilmente, all’estensività. Quasi un Dio dunque. Quasi, dato che per Dio questa e quella coincidono.
(continua)

Dallo Speciale Cultura di Voce Isontina dell'11 febbraio 2011

sabato 29 luglio 2017

Critica letteraria / Le "Lezioni americane" di Italo Calvino per il nuovo millennio - Persistenze valoriali (3).



Irene Navarra, Italo Calvino, Pastello a olio e Grafica, 2011
L’Esattezza. L’autore concentra il concetto in tre focus: “1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili […]; 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione” (Lezioni americane, Oscar Mondadori, 2002, pp. 65 – 66). Poi, a giustificazione degli assunti, pone egli stesso un quesito che gli potrebbe essere mosso sul perché senta il bisogno di difendere dei valori che a molti potranno sembrare ovvi, quesito che immediatamente spiega ponendosi come epicentro di un fenomeno spontaneo di ripulsa per il generico spesso sconveniente. Continua infatti: “mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo o casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa veramente quello che dovrebbe essere” (ibidem, p. 66). Che aggiungere d’altro se non l’esempio di noti maestri quali il già ricordato Leopardi che si dichiarava per l’indeterminato e il vago - apparentemente antitetico in ciò all’esattezza - con un’attenzione meticolosa per la composizione delle immagini, la cura dei dettagli, la scelta dei soggetti, l’uso luministico delle atmosfere. Un vago dunque, il suo, che si connotava di sensibilità dischiusa al fisico e al metafisico. O meglio: trascolorante dal fisico al metafisico e viceversa. La lettura attenta dello Zibaldone e dei Canti lo conferma al cento per cento e, soprattutto, ce ne determina la veste filosofica ben al di là del sensismo, in quel rapportare la relativa cognizione empirica del giorno dopo giorno all’immensità spazio-temporale assoluta. Come dire: la ricerca del determinato che si completa solo di indeterminato. La composizione degli opposti insomma. Il microcosmo circoscritto, in uno con il macrocosmo smisurato. Il centro perfetto per un arciere viziato d’infinito.
Ed è in questo amalgama sapiente che trova status l’ispirazione di scrittori come Dino Buzzati e Tommaso Landolfi. Lo dico con sincero dispiacere per altri. Un esempio? John Fante, che ha vissuto ultimamente qualche sussulto di notorietà, ed è, anche nel suo migliore romanzo Chiedi alla polvere, lontano da quella sfumata linea d’orizzonte tra la terra e il cielo che fonde dimensioni e dà l’altrove. Con sollievo degli amanti della sua “compressione” espressiva, suppongo. Volutamente piana in quanto l’unica adattabile alla vita comune, come dicono. La vita comune degli inconvenienti quotidiani, comprese le termiti che divorano la casa sotto i piedi al protagonista di Full of life. Senza alcunché di ironico. Gioverebbero loro: La Parte buia del giorno di Alison Smith, Nel paese delle ultime cose di Paul Auster, L’anguilla di Montale, l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, i tarocchi e la tartaruga di Achille ovvero il paradosso di Zenone (soltanto come spunti), le biblioteche di Babele e le lotterie babilonesi di Borges, il tutto corrispondente al punto in T con 0 proprio di Calvino.
In sostanza - e infine - mi ancoro sull’Esattezza  con un’immagine: la goccia scava la pietra dall’alto al basso e dall’esterno all’interno. Sonda strati primordiali arrivando a delle Colonne d’Ercole di continuo mobili. Microfrazione temporale dopo microfrazione temporale. Mentre plasma cattedrali fantasmagoriche.
(continua)

Dallo Speciale Cultura di Voce Isontina dell'8 febbraio 2011.

martedì 18 luglio 2017

Critica letteraria / Le "Lezioni americane" di Italo Calvino per il nuovo millennio - Persistenze valoriali (2).





Irene Navarra, Italo Calvino, Pastello a olio e Grafica, 2011.
    La Rapidità. Una concisa brevitas può nel ritmo narrativo generare suggestione? Un’istintiva stringatezza è fonte di piacere? Boccaccio ci insegna quanto sia preziosa questa dote. Con una novella del suo Decamerone, la prima della sesta giornata, icastica nel messaggio. La morale è: chi non sa raccontare e pur si ostina, rende la storia un cavallo bolso. Offende il ritmo che è velocità mentale, proprietà stilistica, agilità di espressione. Così le parole tralignano, perdono la strada e il destriero-racconto si impantana irrimediabilmente. Destinato a morire è il giudizio irrevocabile. Di Boccaccio e di Calvino. Concordo e mi lamento. Non tutto ciò che appare e si ode ai giorni nostri è oro colato. Gli educati al contegno desidererebbero spesso la sordità. Gli occhi stravolti dalle frequenti aggressioni all’arte sognano Borges e le sue Ficciones così sorprendentemente autogenerative di scorci inesauribili senza sovrapposizioni e congestione alcuna.
E non si tratta solo di short story o di folktale. Ovvero: con Rapidità non si intende indicare la lunghezza moderata di un testo. Anche un romanzo corposo può essere buon portatore di essa. Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki, che ho letto, amato, donato più volte perché sia divulgatore di movenze letterarie fulminee in concreto e in astratto, mi conforta sul destino della scrittura e sulle illimitate gamme delle analogie intellettive che collegano i cervelli illuminati del pianeta. D’altronde non è detto che per creare qualcosa come frutto di una salutare Rapidità bastino pochi secondi. L’ispirazione è un fatto, l’esecuzione un altro. Riporta Calvino: Chuang-Tzu, famosissimo pittore cinese, al suo imperatore che gli aveva commissionato il disegno di un granchio chiese cinque anni di tempo, una villa e dodici servitori, Dopo il primo lustro ne chiese un secondo con i medesimi agi, senza nemmeno aver iniziato il lavoro. Allo scadere del periodo prese il pennello e dipinse con un solo gesto il granchio più perfetto che si fosse mai visto. In un attimo.
Eccola la short story giusta per illustrare contenente e contenuto. Calvino e la saggezza orientale continuano a insegnare. Con buona pace di quanti si scoprono scrittori da un giorno all’altro.
(Continua)

Dallo Speciale Cultura di Voce Isontina dell'8 febbraio 2011.

Critica letteraria / Le "Lezioni americane" di Italo Calvino per il nuovo millennio - Persistenze valoriali (1).



    
  La Leggerezza. Il contrario del peso. Togliere. Nessuna fissazione da storiche vicende, collettive o individuali. La guerra? La lotta partigiana? Conosciamole attraverso gli occhi di un bambino, lo straordinario Pin de Il sentiero dei nidi di ragno. Volare con i sandali alati di Perseo e vincere così la terribile Gorgone. Trasformare. In leggende gentili anche l’orrore. Intrecciare fili: fisici, metafisici, evenemenziali, immaginifici. Capire l’insostenibile leggerezza dell’essere di kunderiana memoria, ridimensionare in essa l’affanno del vivere, vista la trascurabilità di qualsiasi scelta obbligatoriamente relativa all’unicum del nostro particolare. Se pertanto l’esistenza è opprimente, la scrittura deve riscattarne i limiti. Sconfinando magari nella scienza. Quella a esempio del De rerum natura di Lucrezio che, per raccontare la materia, parla degli atomi infinitesimi, le sottrae concretezza quindi per innalzare in cambio l’uomo allo stupore universale attraverso la riflessione. E regalare così “poesia” a piene mani. Con Guido Cavalcanti, William Shakespeare, Jonathan Swift, Henry James. E con Leopardi. Con Leopardi e i suoi Notturni in cui le parole sono tanto sottili da sembrare luce di luna. Uno sciamano dunque lo scrittore, che coniuga antropologia, etnologia, mitologia per liberare l’immaginazione da qualsiasi condizionamento. Questa è forse la “razionalità” speciale che può traghettare la letteratura nell’avvenire, dove tuttavia troveremo non più di ciò che porteremo.

Irene Navarra, Italo Calvino, Grafica, 2011.






Ben conscia, di fronte a tanta levità, anche del peso come ipotetico pregio, ma solo di contrasto, respiro con Charles Wright e i suoi Diari (del prato, della notte, del silenzio, dei tre quesiti, di maggio, dei fiumi del sud, ultimo), mi faccio d’aria e cammino “verso l’umida bocca del futuro / dove nuovi denti / ammiccano come stelle novelle attorno a noi, / e i venti che ci pizzicano e ci tormentano le orecchie, / suonano curiosamente come vecchie canzoni” (da Diario del prato in Diari di zona e Xionia).

(Continua)

Dallo Speciale Cultura di Voce Isontina dell'8 febbraio 2011.






Critica letteraria / Le "Lezioni americane" di Italo Calvino per il nuovo millennio - Persistenze valoriali.


Nel 1984 Italo Clavino si accinse a preparare un ciclo di sei conferenze (Charles Eliot Norton Poetry Lectures) che avrebbe tenuto all’Università di Harvard nell’anno accademico 1985 – 1986. Il lavoro di stesura fu intenso, divenne addirittura ossessivo. Nacquero così le Lezioni americane – Sei proposte per il prossimo millennio, in numero di cinque, però, perché la sesta l’avrebbe scritta ad Harvard riferendosi a Bartleby di Herman Melville. La morte lo colse nel settembre del 1985, mentre stava per partire. I testi, raccolti ordinatamente in una cartella grigia e pronti per essere messi tra gli effetti personali nel bagaglio, restarono così sulla sua scrivania e ci furono poi tramandati per cura della moglie Esther con la pubblicazione presso Garzanti nel 1988.

Irene Navarra, Italo Calvino, Pastello a olio e Grafica, 2011.

   Sono passati undici anni di quel nuovo millennio a cui Calvino dedicò profezie valoriali, individuando qualità della letteratura da inserire in prospettive future auspicabili. Ebbene, in questo mondo ormai globalizzato, così imbarazzante per la diffusa pochezza formativa dei molti che parlano, scrivono, agiscono in nome della cultura, in questo mondo che vede proliferare festival, reading, kermesse itineranti, celebrazioni di nuovi straordinari poeti nell’Olimpo di circuiti improbabili, premi letterari con nulla di letterario se non la dicitura stessa pompata e ripompata in siti, rassegne stampa, fasi progressive, selezioni in tempo reale, giurie popolari e rose di finalisti pronti all’Empireo della gloria autogestita, in questo quotidiano zeppo di associazioni create a protezione/ricordo di qualcuno o qualcosa e spesso sovvenzionate da Enti di vario calibro, in questa realtà commemorante le proprie icone festaiole colme di clientelismi utilitaristici, di “figli di”, di “amici di” un po’ qua e un po’ là, di sé dicenti direttori artistici, resta da vedere la fattibile efficacia e la persistenza di quanto indicato dal grande ligure. Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità sono i titoli delle cinque lezioni completate. Proveremo a ripercorrerle, possibilmente con la stessa fiducia che Calvino vi ripose.
(Continua)

Dallo Speciale Cultura di Voce Isontina dell'8 febbraio 2011.