martedì 16 marzo 2021

Prosa / La corsa di Giovanni (da "Davvero così").

 

Irene Navarra, Davvero così, La corsa di Giovanni, Fotografia e Grafica, 2017.
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Giovanni correva da una vita.
Da una vita molto breve, ma comunque da una vita. I suoi otto anni gli erano sfuggiti in uno sgambettare continuo con il fiato corto, nell’attesa di una botta alla schiena. Era convinto di avere dei calli duri sotto le scapole. Li chiamava Le radici delle ali, da cui, in teoria, le sue ali stavano spuntando a frazioni infinitesimali.
Stimolate dall’esterno.
Anche di questo era convinto.
Gliel’aveva assicurato il fratellastro, Pietro.
Una spinta e un micromillimetro in più, una fiondata e un altro micromillimetro in più.
La crescita e la pena da sopportare e da infliggere erano interdipendenti.
Si compenetravano come gemelle siamesi.
Naturali per Giovanni (la vittima).
Necessarie per Pietro (l’aguzzino).
Uniti a doppio filo dalla Legge dei conti che tornano.
Giacomo l’aveva definita la legge generale di conservazione, sottolineandone il peso con l’incupirsi dello sguardo. Pietro prima e Giovanni poi avevano capito da quale parte stava la ragione. Era difficile il contrario. Si sentivano infatti ripetere costantemente che Giacomo, oltre che il padre, era il padrone e aveva il santissimo diritto di esercitare il controllo su cose e persone. In particolare sull’esuberanza di loro due, scavezzacolli, perditempo, mangiapane a tradimento.
Con lui però, malgrado si rivolgesse a entrambi, tornavano solo i conti di Pietro perché dei sospesi di Giovanni non si parlava. Non importava se in eguale misura si comportassero talì o talà. Importava LA DISCENDENZA LEGITTIMA ovvero: GIOVANNI.
Pietro era un bastardo.
Il prodotto di uno sbaglio, germogliato come un qualsiasi grano dell’orto dietro casa. Non poteva vantare privilegi di nessun tipo.
E non avesse pertanto neppure sentimenti!
Gli sarebbero forse serviti?
Doveva sì essere grato del vitto e dell’alloggio, dei panni concessi e dello sgabuzzino soffocante che era la sua stanza da letto.
Dell’aria che respirava, insomma.
E non poteva aspettarsi di meglio! Il padre pensava a lui, la madre invece…
La madre l’aveva partorito e deposto sulle scale della casa di Giacomo, con il seguente messaggio appuntato sulla camiciola:
Questo è tuo figlio. Gli ho dato il nome di Pietro perché di pietra sarà la sua vita. Pietro è tuo figlio. E tu lo sai. Anche il mio nome sai, ma dimenticalo, e non cercarmi. La tua radice la estirpo ora. Curalo, questo figlio, curalo con amore. Potrebbe salvarti. In un modo o nell’altro.
Si occupasse lui del bambino, seme del suo seme. Lei non lo voleva, allo stesso modo in cui non aveva voluto il padre. Mai aveva provato attrazione per Giacomo. Era un uomo tarchiato e volgare, durante la stagione buona sempre a torso nudo: nel frutteto, tra i covoni del fieno, o nella stalla a rinnovare le lettiere delle mucche. Provava repulsione per lui, odiava l’odore rancido della sua pelle, l’alito fetido di vino, e lo schivava.
Sistematica.
Tranne quella volta a fine primavera.
Quando non poté scansarlo.
E il destino prese una svolta che Flora non avrebbe mai supposto.
 
Giornalmente, dal borgo vicino, arrivava alla fattoria per guadagnarsi la vita. La sua famiglia, proprietaria di un avaro appezzamento di terra, aveva scarse risorse. Non che il pane mancasse! Ma i soldi erano pochi e lei alcune fantasie se le covava proprio. Desiderava vestiti alla moda, scarpe da ragazza di città, sigarette, musica, balli eleganti. Sarebbe stato meglio se se ne fosse andata dal paese, avrebbe avuto occasioni migliori, ma non voleva. Lei amava alla follia il cielo sopra la sua testa, il giallo-viola dei tramonti invernali, i ricami neri dei rami contro le nubi di zucchero filato e lo smuoversi delle zolle solleticate dai bucaneve. In effetti, rilevava con un’abbondante dose di autocompiacimento, l’inverno era la degna cornice al biondo platino dei suoi capelli e agli occhi d’acqua di lago montano. Almanaccava spesso sulle sue origini e si diceva discendente di quei barbari calati, all’inizio dei tempi, nelle vallate al di qua dell’Alpe per saccheggiare. D’altronde il carattere scontroso si conformava ai primordi vagheggiati, e l’atteggiamento fiero, mantenuto nelle fatiche, era segno di una schiatta dominante.
Aveva la favola nel cuore e perciò sopportava anche qualche umiliazione, pur di restare nella solitudine degli ampi spazi da percorrere cantando di contentezza. Avrebbe di sicuro incontrato un uomo di pasta solida, sincera, con cui mettere su famiglia in una casa presso il torrente, tra il profumo acre dei noci.
 
In quel pomeriggio di fine primavera Flora, a cavalcioni di un ramo del ciliegio prediletto, ne mangiava i frutti cullata da dolci pensieri. Lo sguardo si spostava spesso sul torrente, sugli spruzzi dell’acqua in caduta precipitosa dai massi a monte. Aveva mani e vesti chiazzate di rosso ma non se ne curava: il sapore frizzante delle ciliegie la rendeva euforica. Flora le spiccava a manciate, leccandosi i polpastrelli e chiedendosi se il loro succo potesse ubriacare.
Le mordeva e rideva.
Se le appoggiava a coppie sul naso, sulle orecchie, le intrecciava alle dita e rideva.
Persa in un sogno gentile.
Persa in un sogno gentile finché non sentì l’odore di Giacomo e due mani rozze che la tiravano giù dall’albero.
Giù dall’albero.
Tra l’erba innocente.
Mentre le cetonie dorate zigzagavano nell’aria e il sole le baciava i capelli.
 
Dopo, molto dopo, Flora gridò. Avvolta dal frusciare della brezza pomeridiana, si rotolò tra sassi e zolle per togliersi il sangue dalle cosce.
Urlando con voce di lupa ferita.
Poi si lavò nel torrente e tornò a casa.
Come se la cosa non fosse successa.
 
In seguito scomparve e nessuno ne seppe più niente. Nessuno tranne Giacomo.
Lui, al tempo giusto, capì benissimo il senso del biglietto e si tenne il figlio.
Pietro crebbe abbastanza tranquillo. Fino ai tre anni con il padre e, quando Giacomo si ammogliò, con Serena. Lei era tale di nome e di fatto e non lo importunò mai. Poiché capiva quanto gelo ci fosse in lui, cercava di tenerselo vicino dispensandogli carezze e buffetti. L’indole buona la aiutava a comprendere, a non giudicare.
Con la nascita di Giovanni il tacito legame tra la donna e Pietro si spezzò.
Pietro era geloso.
Tormentato da un livore sordo, spiava Giovanni con occhi torvi. Se nessuno lo vedeva, lo sollevava dalla culla e lo sbatteva a sinistra e a destra, a destra e a sinistra, rabbioso, fino a fargli venire le convulsioni dal gran piangere. Conclusa la crudele terapia lo rimetteva giù, si sporgeva su di lui con un’espressione da volpe in agguato e aspettava. Una mano sopra il petto minuscolo, come per ninnarlo. Fino alla comparsa di Serena che se lo stringeva al seno ringraziando Pietro delle premure con un ammiccare di palpebre.
Allora Pietro ammattiva.
Quell’usurpatore gli aveva portato via l’unico amore mai conosciuto! Non c’era fine all’infelicità.
Era solo con se stesso.
E da solo se ne sarebbe occupato.
Li avrebbe fatti tornare lui, quei maledetti conti!
Bastava avere pazienza.
 
Appena Giovanni imparò a camminare, Pietro incominciò a strattonarlo, a urtarlo, a spintonarlo con le dita rigide per fargli perdere l’equilibrio, accertandosi di sottecchi che non lo cogliessero in flagranza di misfatto.
E Giovanni piangeva.
Piangeva tanto che i genitori lo fecero visitare. Temevano un malanno grave. Fu loro assicurato che stava bene. Non si preoccupassero, dunque. Era sano. Ma frignone. Il pianto sarebbe passato con la crescita. Gli stessero vicino, gli badassero. Voleva attirare l’attenzione.
Rassicurata dalla diagnosi, Serena non si staccò più da lui, Giovanni smise di piangere e tutto si placò.
Almeno all’apparenza.
Almeno all’apparenza Pietro era quello di sempre.
Obbediva muto.
Pallido, scavato nelle guance, vigilava sul fratellastro attendendo il momento del riscatto. Di cui pregustava il sapore di panna e cioccolato. Di mirtilli e crema alla vaniglia. Delle colazioni pingui sciorinate su tovaglie candide a Natale. O nelle altre feste comandate.
Il desiderio di rivalsa lo inondava travolgendolo.
E Giovanni cresceva nella sua ombra tossica.
 
Giovanni non arrivava con la testa al tavolo della cucina, quando, per la prima volta, accompagnò Pietro nelle sue scorribande. Tra sciocchi cicalecci a squarciagola si allontanarono lesti dall’abitato e dai campi. Inoltratisi che furono nelle aree incolte, Pietro incominciò a spingerlo con forza davanti a sé.
Corri! gli diceva. Corri! Devi correre. Tu diventerai un campione di corsa. Forza, allenati! E lo incalzava a urti sotto le scapole con le mani a cuneo.
Guarda! Una gazza! aggiungeva. Prendila! Corri! E Giovanni ubbidiva, convinto di dover correre per imparare la propulsione indispensabile a spiccare il volo come un uccello. Perciò sopportava con coraggio gragnole di colpi a raffica sulla sua povera schiena. Né si lamentava mai. Avrebbero potuto obbligarlo a casa, diviso da Pietro che girava sciolto per posti solitari, oppure andava al torrente a pesca di gamberi.
Forse era davvero predestinato a correre per volare. Ebbene, l’avrebbe fatto! Le radici delle ali si stavano irrobustendo. Ne sarebbero sbocciate le ali vere. E lui avrebbe gareggiato in virate, in avvitamenti acrobatici con le dispettose gazze, con le cince chiacchierone: le preferite tra le creature del cielo. Non vedeva l’ora.
L’insistente Corri Giovanni! gli aveva annientato la volontà. Ridotto a una marionetta scattante al comando di un burattinaio bravo a tirare il filo giusto, si preparava con coscienza per un’impresa eccezionale: un volo degno di un essere dell’aria. Un volo destinato a stupire il fratellastro perennemente scettico sulle sue qualità, pronto a chiedergli un ulteriore esercizio per esibirle meglio.
Così, Pietro seguitava a pungolarlo, canzonandolo per la debolezza cronica. Se Giovanni ciondolava dopo un disumano addestramento, Pietro lo stuzzicava, ferendolo nell’amor proprio con apocalittiche profezie di perdita delle ali già sviluppate. Si insinuava persino nei suoi vaneggiamenti notturni in cui balbettava di voli, cieli, gazze e cince. Ne annotava le parole sconnesse e la mattina gli chiedeva di quanto fossero cresciute le ali e giudicava insufficienti i progressi. Gli estorceva anche i deliri insomma, per piegarli al proprio scopo.
E questo finché seppe di esserci, alla meta.
Il piano si poteva attuare.
 
In febbraio – un paio di giorni prima del nono compleanno di Giovanni che cadeva il 19 – incominciò a imbastire la farsa finale.
Era arrivato il tempo della rivincita.
Il senso prepotente di rappresaglia contro la vita stava per dare i risultati attesi. Una furia inflessibile lo sosteneva. Inflessibile e tanto ben dissimulata che nessuno notò nulla. Non c’era tempo per le bazzecole! si organizzava la festa per l’erede di quel ben di Dio: pascoli, vigneti, bestiame e rustici sparsi nel vastissimo podere.
Pietro assisteva ai preparativi come assente.
Nello stesso periodo fu visto confabulare di frequente con Giovanni. Pietro parlava intento, Giovanni annuiva estatico, uscivano di furia e ritornavano parecchio dopo. Pietro stanco, ma Giovanni stremato in tale maniera da non resistere in piedi.
La mattina del compleanno i due ragazzi sgusciarono di soppiatto fuori di casa. Il fiato si rapprendeva in vapore ghiacciato e il freddo scottava la gola, ma non se ne accorsero. Accomunati da un ardore urgente, si diressero risoluti verso il sole in ascesa.
Entro breve l’avrebbero coronato, il loro progetto.
Al Salto del Diavolo - una sporgenza dirupata a picco sulla pianura - ci arrivarono filando come saette, l’uno avanti e l’altro dietro a colpire lì, alle radici delle ali. Non una gazza né una cincia attorno.
In prossimità dello strapiombo, mentre Giovanni si spogliava, Pietro, traviato da un’eccitazione malsana, prese a urlare: Dai che ci sei! Va’, Giovanni. Ce la puoi fare!
Giovanni, ormai dissennato, tentava di librarsi con goffi scatti.
Pietro gridava frasi come sventagliate di falce: Corri, Giovanni, corri! Hai imparato alla grande! Ora puoi volare con le gazze e con le cince. Ti aspettano oltre il costone. Non le vedi, ma ci sono. Eccole le tue ali, eccole! Si aprono. Oh, Dio! Sono imponenti, poderose! Sbattile con forza, e salta. Salta, Giovanni, senza paura!
 
E Giovanni saltò.
Con un sorriso sulle labbra.
Nell’aria ferita dal gracchiare dei corvi.


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