Irene Navarra, Davvero così, La corsa di Giovanni, Fotografia e Grafica, 2017. |
Giovanni correva da una vita.
Da una vita molto breve, ma comunque
da una vita. I suoi otto anni gli erano sfuggiti in uno sgambettare continuo
con il fiato corto, nell’attesa di una botta alla schiena. Era convinto di
avere dei calli duri sotto le scapole. Li chiamava Le radici delle ali,
da cui, in teoria, le sue ali stavano spuntando a frazioni infinitesimali.
Stimolate dall’esterno.
Anche di questo era convinto.
Gliel’aveva assicurato il
fratellastro, Pietro.
Una spinta e un micromillimetro in
più, una fiondata e un altro micromillimetro in più.
La crescita e la pena da sopportare
e da infliggere erano interdipendenti.
Si compenetravano come gemelle
siamesi.
Naturali per Giovanni (la vittima).
Necessarie per Pietro (l’aguzzino).
Uniti a doppio filo dalla Legge
dei conti che tornano.
Giacomo l’aveva definita la legge
generale di conservazione, sottolineandone il peso con l’incupirsi dello
sguardo. Pietro prima e Giovanni poi avevano capito da quale parte stava la
ragione. Era difficile il contrario. Si sentivano infatti ripetere costantemente
che Giacomo, oltre che il padre, era il padrone e aveva il santissimo diritto
di esercitare il controllo su cose e persone. In particolare sull’esuberanza di
loro due, scavezzacolli, perditempo, mangiapane a tradimento.
Con lui però, malgrado si rivolgesse
a entrambi, tornavano solo i conti di Pietro perché dei sospesi di Giovanni non
si parlava. Non importava se in eguale misura si comportassero talì o talà.
Importava LA DISCENDENZA LEGITTIMA ovvero: GIOVANNI.
Pietro era un bastardo.
Il prodotto di uno sbaglio,
germogliato come un qualsiasi grano dell’orto dietro casa. Non poteva vantare
privilegi di nessun tipo.
E non avesse pertanto neppure
sentimenti!
Gli sarebbero forse serviti?
Doveva sì essere
grato del vitto e dell’alloggio, dei panni concessi e dello sgabuzzino
soffocante che era la sua stanza da letto.
Dell’aria che respirava, insomma.
E non poteva aspettarsi di meglio!
Il padre pensava a lui, la madre invece…
La madre l’aveva partorito e deposto
sulle scale della casa di Giacomo, con il seguente messaggio appuntato sulla
camiciola:
Questo è tuo figlio. Gli ho dato il
nome di Pietro perché di pietra sarà la sua vita. Pietro è tuo figlio. E tu lo
sai. Anche il mio nome sai, ma dimenticalo, e non cercarmi. La tua radice la
estirpo ora. Curalo, questo figlio, curalo con amore. Potrebbe salvarti. In un
modo o nell’altro.
Si occupasse lui del bambino, seme
del suo seme. Lei non lo voleva, allo stesso modo in cui non aveva voluto il
padre. Mai aveva provato attrazione per Giacomo. Era un uomo tarchiato e
volgare, durante la stagione buona sempre a torso nudo: nel frutteto, tra i
covoni del fieno, o nella stalla a rinnovare le lettiere delle mucche. Provava
repulsione per lui, odiava l’odore rancido della sua pelle, l’alito fetido di vino, e lo schivava.
Sistematica.
Tranne quella volta a fine
primavera.
Quando non poté scansarlo.
E il destino prese una svolta che
Flora non avrebbe mai supposto.
Giornalmente, dal borgo vicino,
arrivava alla fattoria per guadagnarsi la vita. La sua famiglia, proprietaria
di un avaro appezzamento di terra, aveva scarse risorse. Non che il pane
mancasse! Ma i soldi erano pochi e lei alcune fantasie se le covava proprio.
Desiderava vestiti alla moda, scarpe da ragazza di città, sigarette, musica,
balli eleganti. Sarebbe stato meglio se se ne fosse andata dal paese, avrebbe
avuto occasioni migliori, ma non voleva. Lei amava alla follia il cielo sopra
la sua testa, il giallo-viola dei tramonti invernali, i ricami neri dei rami
contro le nubi di zucchero filato e lo smuoversi delle zolle solleticate dai
bucaneve. In effetti, rilevava con un’abbondante dose di autocompiacimento,
l’inverno era la degna cornice al biondo platino dei suoi capelli e agli occhi
d’acqua di lago montano. Almanaccava spesso sulle sue origini e si diceva
discendente di quei barbari calati, all’inizio dei tempi, nelle vallate al di
qua dell’Alpe per saccheggiare. D’altronde il carattere scontroso si conformava
ai primordi vagheggiati, e l’atteggiamento fiero, mantenuto nelle fatiche, era
segno di una schiatta dominante.
Aveva la favola nel cuore e perciò
sopportava anche qualche umiliazione, pur di restare nella solitudine degli
ampi spazi da percorrere cantando di contentezza. Avrebbe di sicuro incontrato
un uomo di pasta solida, sincera, con cui mettere su famiglia in una casa
presso il torrente, tra il profumo acre dei noci.
In quel pomeriggio di fine primavera
Flora, a cavalcioni di un ramo del ciliegio prediletto, ne mangiava i frutti
cullata da dolci pensieri. Lo sguardo si spostava spesso sul torrente, sugli
spruzzi dell’acqua in caduta precipitosa dai massi a monte. Aveva mani e vesti
chiazzate di rosso ma non se ne curava: il sapore frizzante delle ciliegie la
rendeva euforica. Flora le spiccava a manciate, leccandosi i polpastrelli e
chiedendosi se il loro succo potesse ubriacare.
Le mordeva e rideva.
Se le appoggiava a coppie sul naso,
sulle orecchie, le intrecciava alle dita e rideva.
Persa in un sogno gentile.
Persa in un sogno gentile finché non
sentì l’odore di Giacomo e due mani rozze che la tiravano giù dall’albero.
Giù dall’albero.
Tra l’erba innocente.
Mentre le cetonie dorate zigzagavano
nell’aria e il sole le baciava i capelli.
Dopo, molto dopo, Flora gridò.
Avvolta dal frusciare della brezza pomeridiana, si rotolò tra sassi e zolle per
togliersi il sangue dalle cosce.
Urlando con voce di lupa ferita.
Poi si lavò nel torrente e tornò a
casa.
Come se la cosa non fosse successa.
In seguito scomparve e nessuno ne
seppe più niente. Nessuno tranne Giacomo.
Lui, al tempo giusto, capì benissimo
il senso del biglietto e si tenne il figlio.
Pietro crebbe abbastanza tranquillo.
Fino ai tre anni con il padre e, quando Giacomo si ammogliò, con Serena. Lei
era tale di nome e di fatto e non lo importunò mai. Poiché capiva quanto gelo
ci fosse in lui, cercava di tenerselo vicino dispensandogli carezze e buffetti.
L’indole buona la aiutava a comprendere, a non giudicare.
Con la nascita di Giovanni il tacito
legame tra la donna e Pietro si spezzò.
Pietro era geloso.
Tormentato da un livore sordo, spiava
Giovanni con occhi torvi. Se nessuno lo vedeva, lo sollevava dalla culla e lo
sbatteva a sinistra e a destra, a destra e a sinistra, rabbioso, fino a fargli
venire le convulsioni dal gran piangere. Conclusa la crudele terapia lo
rimetteva giù, si sporgeva su di lui con un’espressione da volpe in agguato e
aspettava. Una mano sopra il petto minuscolo, come per ninnarlo.
Fino alla comparsa di Serena che se lo stringeva al seno ringraziando Pietro
delle premure con un ammiccare di palpebre.
Allora Pietro ammattiva.
Quell’usurpatore gli aveva portato
via l’unico amore mai conosciuto! Non c’era fine all’infelicità.
Era solo con se stesso.
E da solo se ne sarebbe occupato.
Li avrebbe fatti tornare lui, quei
maledetti conti!
Bastava avere pazienza.
Appena Giovanni imparò a camminare,
Pietro incominciò a strattonarlo, a urtarlo, a spintonarlo con le dita rigide
per fargli perdere l’equilibrio, accertandosi di sottecchi che non lo
cogliessero in flagranza di misfatto.
E Giovanni piangeva.
Piangeva tanto che i genitori lo
fecero visitare. Temevano un malanno grave. Fu loro assicurato che stava bene.
Non si preoccupassero, dunque. Era sano. Ma frignone. Il pianto sarebbe passato
con la crescita. Gli stessero vicino, gli badassero. Voleva attirare
l’attenzione.
Rassicurata dalla diagnosi, Serena
non si staccò più da lui, Giovanni smise di piangere e tutto si placò.
Almeno all’apparenza.
Almeno all’apparenza Pietro era
quello di sempre.
Obbediva muto.
Pallido, scavato nelle guance,
vigilava sul fratellastro attendendo il momento del riscatto. Di cui pregustava
il sapore di panna e cioccolato. Di mirtilli e crema alla vaniglia. Delle
colazioni pingui sciorinate su tovaglie candide a Natale. O nelle altre feste
comandate.
Il desiderio di rivalsa lo inondava
travolgendolo.
E Giovanni cresceva nella sua ombra
tossica.
Giovanni non arrivava con la testa
al tavolo della cucina, quando, per la prima volta, accompagnò Pietro nelle sue
scorribande. Tra sciocchi cicalecci a squarciagola si allontanarono lesti
dall’abitato e dai campi. Inoltratisi che furono nelle aree incolte, Pietro
incominciò a spingerlo con forza davanti a sé.
Corri! gli diceva. Corri! Devi
correre. Tu diventerai un campione di corsa. Forza, allenati! E lo incalzava a
urti sotto le scapole con le mani a cuneo.
Guarda! Una gazza! aggiungeva.
Prendila! Corri! E Giovanni ubbidiva, convinto di dover correre per imparare la
propulsione indispensabile a spiccare il volo come un uccello. Perciò
sopportava con coraggio gragnole di colpi a raffica sulla sua povera schiena.
Né si lamentava mai. Avrebbero potuto obbligarlo a casa, diviso da Pietro che
girava sciolto per posti solitari, oppure andava al torrente a pesca di
gamberi.
Forse era davvero predestinato a
correre per volare. Ebbene, l’avrebbe fatto! Le radici delle ali si stavano
irrobustendo. Ne sarebbero sbocciate le ali vere. E lui avrebbe gareggiato in
virate, in avvitamenti acrobatici con le dispettose gazze, con le cince
chiacchierone: le preferite tra le creature del cielo. Non vedeva l’ora.
L’insistente Corri Giovanni! gli
aveva annientato la volontà. Ridotto a una marionetta scattante al comando di
un burattinaio bravo a tirare il filo giusto, si preparava con coscienza per
un’impresa eccezionale: un volo degno di un essere dell’aria. Un volo destinato
a stupire il fratellastro perennemente scettico sulle sue qualità, pronto a
chiedergli un ulteriore esercizio per esibirle meglio.
Così, Pietro seguitava a pungolarlo,
canzonandolo per la debolezza cronica. Se Giovanni ciondolava dopo un disumano
addestramento, Pietro lo stuzzicava, ferendolo nell’amor proprio con
apocalittiche profezie di perdita delle ali già sviluppate. Si insinuava
persino nei suoi vaneggiamenti notturni in cui balbettava di voli, cieli, gazze
e cince. Ne annotava le parole sconnesse e la mattina gli chiedeva di quanto
fossero cresciute le ali e giudicava insufficienti i progressi. Gli estorceva
anche i deliri insomma, per piegarli al proprio scopo.
E questo finché seppe di esserci,
alla meta.
Il piano si poteva attuare.
In febbraio – un paio di giorni
prima del nono compleanno di Giovanni che cadeva il 19 – incominciò a imbastire
la farsa finale.
Era arrivato il tempo della
rivincita.
Il senso prepotente di rappresaglia
contro la vita stava per dare i risultati attesi. Una furia inflessibile lo
sosteneva. Inflessibile e tanto ben dissimulata che nessuno notò nulla. Non
c’era tempo per le bazzecole! si organizzava la festa per l’erede di quel ben
di Dio: pascoli, vigneti, bestiame e rustici
sparsi nel vastissimo podere.
Pietro assisteva ai preparativi come assente.
Nello stesso periodo fu visto
confabulare di frequente con Giovanni. Pietro parlava intento, Giovanni annuiva
estatico, uscivano di furia e ritornavano parecchio dopo. Pietro stanco, ma
Giovanni stremato in tale maniera da non resistere in piedi.
La mattina del compleanno i due
ragazzi sgusciarono di soppiatto fuori di casa. Il fiato si rapprendeva in
vapore ghiacciato e il freddo scottava la gola, ma non se ne accorsero.
Accomunati da un ardore urgente, si diressero risoluti verso il sole in ascesa.
Entro breve l’avrebbero coronato, il
loro progetto.
Al Salto del Diavolo - una sporgenza
dirupata a picco sulla pianura - ci arrivarono filando come saette, l’uno
avanti e l’altro dietro a colpire lì, alle radici delle ali. Non una gazza né
una cincia attorno.
In prossimità dello strapiombo,
mentre Giovanni si spogliava, Pietro, traviato da un’eccitazione malsana, prese
a urlare: Dai che ci sei! Va’, Giovanni. Ce la puoi fare!
Giovanni, ormai dissennato, tentava
di librarsi con goffi scatti.
Pietro gridava frasi come
sventagliate di falce: Corri, Giovanni, corri! Hai imparato alla grande! Ora
puoi volare con le gazze e con le cince. Ti aspettano oltre il costone. Non le
vedi, ma ci sono. Eccole le tue ali, eccole! Si aprono. Oh, Dio! Sono
imponenti, poderose! Sbattile con forza, e salta. Salta, Giovanni, senza paura!
E Giovanni saltò.
Con un sorriso sulle labbra.
Nell’aria ferita dal gracchiare dei
corvi.
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