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martedì 11 aprile 2023

Prosa / Racconto: Presunzioni e Leggerezze (da "Davvero così").


Foto di Tom da Pixabay.



    Livia (e Loris)    


    Eccolo là quel…! esclamò Livia con un tono a metà tra l’ironico e lo stizzito, senza completare la frase e lasciando cadere la tenda di pizzo impercettibilmente scostata per guardare fuori nella limpida mattina di maggio.
    Carlo, aiutami a chiudere le persiane! ordinò perentoria al marito che cercava di estraniarsi dalla farsa in atto. E aggiunse beffarda: Abbiamo i servizi segreti in ricognizione. Ci spiano!
    In effetti, la veloce sbirciata al viale di castagni su cui si affacciava la villa le aveva permesso di cogliere un particolare in dissonanza totale con l’armoniosa geometria degli alberi. Un individuo grottesco appariva e scompariva tra i tronchi delle piante, procedendo a balzi dall’una all’altra nel tentativo di passare inosservato.
    Livia sapeva chi fosse l’esasperante seccatore insinuatosi nella loro vita: di nome faceva Loris, ed era stato il compagno di sua figlia, Linda. L’aveva definito in uno attacco d’ira: bubbone succhialinfa e verme immondo, spiacevole macchia nell’immacolata esistenza del sangue del mio sangue.
    Dette così le cose, si potrebbe giudicare Loris un tipo sconcertante. Un tipo con dei venerdì in meno e delle ossessioni maniacali da soddisfare a danno del prossimo. Dette così le cose, lo si potrebbe credere.
    Invece, no.
    Loris era un padre presunto, e Livia e Carlo erano i nonni della presunta figlia di Loris.
    Alle parole della moglie Carlo, sprofondato serafico in poltrona a leggere, sollevò gli occhi dal Sole 24 Ore, aggrottò le sopracciglia, sbuffò, appoggiò il giornale sul bracciolo di destra, si alzò e obbedì.
Scocciatissimo.
    Segregati un’altra volta tra quattro muri, prigionieri in casa propria. Coprifuoco, coprifuoco! andava borbottando mentre sprangava serramenti in faccia al sole, tirava pesanti cortinaggi, accendeva abat-jour inutili in pieno giorno. Ma quando finirà questa tortura? si lagnava acido. Imbecilli noi a sopportarla. È una persecuzione.
    Si sfogava con una sequela infinita di mugugni, ma non faceva nient’altro: un po’ per pigrizia, un po’ per carattere, un po’ per non ingrossare i guai, al presente già sproporzionati.
Intanto, sul folto tappeto del salotto una morettina di un anno e mezzo – Alexa detta Ale, ovvero la presunta figlia di Loris – ignara dell’affaccendarsi isterico interno ed esterno, giocava con un’enorme scatola rossa. Ci si era seduta dentro e pretendeva vi entrasse anche Livia. La chiamava con una vocina dispotica, modulando NOONNAAA! in gamme dallo stridulo al soave. E Livia sorrideva alle sue smorfie, o almeno cercava di farlo come se nulla fosse, per non allarmarla. Sorrideva e ricacciava in gola le lacrime, indispettita da quel parassita al di là della strada che, con il suo andirivieni, la costringeva a un’odiosa reclusione. La sua casa era come uno zoo a rovescio, congegnato per esiliarvi l’umanità esponendola agli sgarbi degli animali.
    Tre mesi fa eravamo liberi…, sibilava Livia a fior di labbra trascinando per la stanza Ale nella scatola colorata sotto gli occhi stupefatti delle lampade e quelli arcistufi del marito.
    Tre mesi fa la mia casa era piena di luce e il giardino potevamo godercelo senza paura di sguardi indiscreti, biascicava astiosa.
    In verità la casa era diventata una roccaforte vera e propria. Questo, per evitare le imboscate e le sorprese dell’innominabile, beccato mesi prima davanti alla finestra della cucina con una macchina fotografica in mano. Il suo scopo era di documentare la presenza (eventuale) della figlia, parcheggiata (lo asseriva lui) presso la nonna mentre Linda si trovava chissà dove, pur essendone l’unica affidataria. Come da sentenza del Tribunale dei minori.
    Nell’occasione Livia aveva chiamato i carabinieri. E Loris era scaturito in escandescenze proprio davanti a loro, fornendo una testimonianza di pericoloso squilibrio. Lo aveva denunciato, dunque. Di conseguenza era stato diffidato e, a Dio piacendo, una stramberia del genere non la fece più. Se la legò al dito però, la traversia della denuncia, e gliela giurò a morte, a Livia.
Grazie a tutti i Santi del Paradiso Alexa non si trovava qui! Meno male, Gesummaria! scongiurava sollevata Livia subito dopo lo spiacevole episodio. Una buona stella l’aveva voluta con Linda. Lei infatti, al contrario del solito, se l’era tenuta in albergo obbedendo a uno di quegli oscuri presentimenti di pericolo imminente che si avvertono, sembrano improbabili, da ultimo si ascoltano, e finiscono col risultare attendibili alla prova dei fatti.
    Per fortuna! esclamava Livia, tergendosi la fronte da un fantomatico sudore ancora un’ora dopo l’incursione di Loris. E non finiva di benedire il Signore per la lontananza della deliziosa cucciola, che era tanto affezionata al loro grande giardino da chiedere di starci addirittura con la pioggia, e da piangere le rare volte in cui non le si concedeva di scorrazzarvi a piacere. Divieto, questo, imposto a necessaria cautela per la determinazione dell’insensato sedicente padre a fotografare Ale là dove, secondo lui, non si sarebbe dovuta trovare. E non bisognava prestare il fianco dandogli un’opportunità, perché le fotografie potevano rappresentare per l’infame un chiaro documento della trasgressione, e la scappatoia legale per rubarsi Alexa, vista l’incapacità della madre di accudire la figlia con sollecitudine e considerato l’affidamento arbitrario alla nonna. Secondo quanto recitava l’indegna accusa depositata nell’Ufficio del Giudice tutelare di S*****, incaricato del caso.
    Se Loris l’avesse dimostrato, si sarebbe trafugato quel pulcino indifeso. D’altro canto, poteva forse la piccina vivere nell’hotel che Linda dirigeva? E lei, Linda, poteva forse occuparsene, oberata com’era di lavoro? L’egoista fannullone senz’arte né parte doveva aver progettato a tavolino quella tattica di stalking, contando su un’immancabile capitolazione. Da stress naturalmente. Perché – il maledetto lo sapeva – madre e manager erano ruoli incompatibili.
    Crucci simili affliggevano Livia in qualsiasi attimo delle sue giornate, rese laboriose dallo sforzo di nascondere al padre in caccia la vicinanza di Ale. Lui, però, per quanto eluso in mille modi, stornato, dirottato ad altre mete, con fiuto da predatore seguiva la scia delle tenere carni infantili, ne avvertiva il profumo di talco Roberts e crema Nivea.
    Voleva possederle.
    Questo si fingeva Livia, rabbrividendo, macerandosi in dubbi sul modo di salvare l’incolpevole da un futuro di stenti, ignoranza e tribolazioni. Una sorta di via crucis annunciata, se si esaminava lo ristrettezza intellettiva di quello spaccone sicuro di averle dato la vita. Pfui, concludeva con estremo ribrezzo Livia, gesticolando in modo scalmanato per rimuovere l’idea, molesta alla pari di un insetto ronzante in una stanza chiusa. Erano spuntate perciò, dall’oggi al domani, delle reti di delimitazione del giardino dietro alla casa.
    Neppure dieci centimetri di più a destra o a sinistra, dietro la casa e basta! sbraitava Livia agli operai che eseguivano sbigottiti.
    Del cielo non si preoccupava. Da lì non potevano arrivare minacce – tipo riprese aeree – a causa delle zoppicanti condizioni finanziarie dell’inqualificabile omuncolo dai mezzi manco bastevoli alla più rudimentale sopravvivenza.
    A fine lavoro Livia si sentì sicura, quantunque in gabbia. Ale, la sua gaia cinciallegra, circolava ad agio nel giardino rimpicciolito senza il pericolo di prove testimoniali che in tribunale avrebbero usato per portargliela via, strappandole il cuore di colpo.
    Poteva respirare.
    Le siepi di recinzione laterale – allori alti e fittissimi – fungevano da seconda barriera. I vicini, inoltre, erano amici cari e mai avrebbero tollerato sortite di chicchessia nelle loro proprietà. Tantomeno di Loris.
    Superata infine la tempesta, tutelato con dei correttivi il suo diritto di nonna, raggirati i giudici, si sarebbe concessa una tregua nell’attesa di altre inevitabili battaglie.

    Tra tali apprensioni si sperperavano i giorni di Carlo e Livia. Linda non ci speculava per l’incapacità congenita di proiettarsi nel futuro oltre il limite di un giorno. Il gufo-oracolo di famiglia era Livia. Già all’ospedale, appena nata Alexa, si era premurata di prevedere guai calamitosi e aveva messo in guardia la figlia dalle mene della famiglia Cravi, dicendole e ridicendole: Loris non deve riconoscere la bambina. Alexa è tua! Se non vuoi sposarlo, non glielo devi permettere. Mandalo al diavolo, l’imbecille buono a nulla. Sta con te per spillarti dei soldi e per fare la bella vita a sbafo. Lui se la spassa e tu sfacchini per costruirti un avvenire.

    Si sa, però: i figli se ne infischiano dei consigli dei genitori. E così Loris l’aveva riconosciuta, si era installato in albergo con Linda e aveva staccato Livia da Ale perché c’era Grazia, sua madre, disponibile a fare da tata. Siccome era vedova, se ne sarebbe occupata a tempo pieno. Grazia in verità, avendo messo al mondo e allevato cinque figli, poteva tirarla su in modo ottimale. Per una nipote avrebbe di sicuro dato il meglio di sé.
    Con erbe da fattucchiera e filtri da strega! sbottava Livia gelosa perché separata a forza dal suo angelo, che amava con la stessa intensità con cui aveva amato Linda. Piangeva, poi, lacrime rabbiose e aggiungeva: Per non parlare di Elena, la disgraziata sorella di Loris morta di anoressia, e nessuno se n’è accorto. Secondo lei faceva la dieta! È morta a vent’anni e trentatré chili! Grazia ha le mani avvelenate. Ci contagerà Ale. Linda, insisti a non capire? Ti stanno usando! Loris vuole sistemare la famiglia senza strapazzarsi. Ma guardati! Sei distrutta. Hai le guance incavate, il colorito smorto. Dammi retta, caccialo alle spicce.
    Queste cose, le sosteneva nei rari momenti in cui riusciva a incontrare la figlia, le sussurrava al telefono (ché il marito non sentisse!) appena poteva, le scriveva in lettere prolisse, zeppe di petulanti variazioni sullo stesso concetto: Ale è tua. Da leggersi: Ale è mia. Livia era tenace e suadente. Lo sapevano in molti. Non desisteva con facilità. Quei molti ne avevano fatto esperienza diretta. Non riuscirai a scipparmela! ruminava tra sé e sé, rivolta virtualmente al compagno della figlia, esplodendo poi in una giaculatoria di epiteti davvero pittoreschi. I successi del passato parlavano Erano esempi espliciti di una forza diabolica. L’avrebbe avuta vinta. Senza ombra di dubbio. Come ogni volta che ce la metteva tutta. Come l’aveva avuta vinta con Carlo quando, a forza di sensati discorsi sul prestigio familiare, l’aveva indotto a lasciare l’insegnamento per dedicarsi alla professione di commercialista. Oh, quanto remunerativa! constatava lei, orgogliosa della prosperità in aumento. Come l’aveva avuta vinta con Linda quando lei, in un periodo di riottosità adolescenziale (verso i quindici anni, le pareva di ricordare), si era incaponita a voler cambiare nell’aspetto e nelle scelte. Perché non si accorgeva di esserle somigliantissima, di non avere nulla di cui imbarazzarsi.
    Le stesse persone, Livia e Linda. Madre e figlia? Ma no, sorelle piuttosto. Due gocce d’acqua. E allora, perché peggiorarsi? Livia era bella, Linda era bella. Identicamente snob e affascinanti: l’una nello smalto di una maturità distinta e rilassata, l’altra nel trionfo della giovinezza. Per quale ragione volere altro? Il cammino era stato fatto, il modello plasmato da una natura amica. Proprio da quelle prerogative intrinseche doveva partire Linda per rifinire la sua già splendida femminilità dal marchio esclusivo.
    E Livia era riuscita nell’intento.
    Con pazienza certosina aveva passato e ripassato le mani di esperta vasaia sulla creta malleabile di Linda. Aveva tolto un’impurità qua e una stortura là, lisciando l’argilla fino a raggiungere quella che lei riteneva l’insuperabile pregevolezza del prodotto finito a sua maniera. E, senza ulteriori deviazioni di percorso, le loro esistenze erano scivolate via.
    Nel burro fresco della soddisfazione di Livia.
    Nel miele rappreso della rassegnata accettazione di Linda, ridiventata la docile adolescente bella e dolce: il ritratto della madre. Aveva vinto una volta, avrebbe vinto pure la seconda, si riprometteva Livia.
    Spazzava, spolverava, sprimacciava i cuscini, cucinava, curava i bonsai della serra, sarchiava le aiole delle azalee, e pensava. In una concentrazione tale da avere sempre l’emicrania. E ciò per un convincimento categorico: il pensiero getta ponti di contatto all’occorrenza molto utili. Inginocchiata a piantare, arrampicata sulla scala a pioli a potare, seduta a sferruzzare per Ale strabilianti maglioncini con il davantino guarnito da alberi di mele, arance e fichi, pensava. Aleggiando come un ectoplasma per scrutare la vita dei suoi Amori lontani, per esorcizzare le influenze subdole di Loris e Grazia.
Durante i primi mesi di Ale, sentendosi tradita nelle aspettative costruite di pezzetti limati a incastro, saggiando un greve disincanto, aveva reagito con un tremolio nel cuore, ma senza sgomentarsi, malgrado quei tasselli di vita traballassero e alcuni schizzassero impazziti via dal supporto.
Lei era abbastanza energica da correre ai ripari e riappropriarsi del maltolto: Linda e Ale. Nella fiducia che la pasta costitutiva di Linda fosse straordinaria (era sua figlia!) e il recupero questione di tempo.
Sì, il recupero non poteva essere altro che una stupidissima questione di tempo.


    Linda (e Loris)


    La giornata tanto fastidiosa per l’impressione dell’onnipresenza di Loris è ormai finita. Ale dorme nella stanza di Livia e Linda, ritornata a casa per il fine settimana, seduta a gambe incrociate sul suo letto di ragazza, lo sguardo sulla finestra violacea nella sera quasi piena, si mordicchia le unghie. Vizio, questo, incontenibile, se è tesa. Cerca di riflettere, con molto disagio in verità, trottolando con le dita nell’imponente chioma crespa aureolata attorno al viso.
    Si è sorbita un’altra tiritera di sua madre.
    Garbatissima e spietata. 
    Della precisione di un’operazione chirurgica.
    Senza anestesia.
    Come al solito. E come al solito Linda subisce e recrimina.
    Questa volta, però, la cosa riguarda Alexa.
    Deve capire.
    Lo può fare solo riesumando il passato. Per coglierne il senso. Solo così si riprenderà la sua vita e potrà trattare a brutto muso chi le si oppone.

    Ma cosa ne sa la mamma della mia situazione? Non si è mai accorta di quanto mangiavo e di quanto vomitavo. Eh già! Perché perderci del tempo con me? Ero perfetta. Sua proiezione, frutto del suo grembo. Non avevo bisogno di aggiustamenti, io. Solo gli altri suscitavano interesse. Sottoposti alla sua logica, diventavano pretesto di sterili disquisizioni tra compagne del club di bricolage. Io invece…, ma perché doveva preoccuparsi per me? Se me ne stavo buona buona nel guscio, ricoperta della sua placenta salvaguai, non mi sarebbe potuto accadere nulla. E non c’era mica motivo di liberarmene. Si libera forse la pioggia dell’acqua? Il chiaro di luna, può privarsi della luna? Il sale, del mare? No! Sono elementi diversi di un’intima totalità, dogmatizzava lei. Un ritornello discutibile, la rimbeccavo io con rancore. L’acqua non è sempre pioggia, il chiaro non è sempre chiaro di luna, il sale non è sempre sale marino. Come farle intendere l’assurdità dell’identificazione di noi in noi? Il suo esigermi combaciante? Il concetto di indipendenza applicato a me le risultava ostico. Nessuno sarebbe riuscito a smontargliela, quella convinzione della nostra omogeneità assoluta. Io meno di altri, neppure ricorrendo alle cabale di Shopenhauer e compagnia che sciorinavo da filosofa fallita qual ero, illudendomi servissero. Due individui fanno la stessa cosa? Questa non sarà mai la stessa. Due gemelle monozigoti si presentano come replicanti vicendevoli? Sì, la scienza lo sostiene, eppure non saranno mai equivalenti. Lapalissiano per me e il resto del mondo. Non per lei. Io le risultavo il riscontro biologico del mio esserle lampantemente medesima. E basta! Una sua puntuale copia fisica: la pelle, gli occhi, le mani, i capelli, addirittura i denti…, tutto uguale.
    Insomma: io, Linda, ero Livia.
    Niente da discutere o da indagare.
    La conoscenza di me derivava dalle sue stesse viscere.
    Quindi, sostanziale. Quindi, vera.
    E le mie insicurezze patologiche? Come fargliele ammettere? Lo intuivo che non era possibile. Lei giurava di saper leggere a occhi chiusi le mie pagine. Non doveva neppure toccarmi per sentire una grana nota al micromillimetro fin dalla nascita. Incarnate l’una nell’altra (diceva lei), incastrate (dicevo io), dovevamo bastare a noi stesse. E gli stratagemmi per farne una madre normale? Una che urla, vieta, assesta dei gagliardi ceffoni? Qualsiasi trucco almanaccassi, non c’era verso. Livia che muove un dito contro di me, cioè contro se stessa? Un’ipotesi marziana.

    Linda ha smesso di tormentarsi i capelli, di mordicchiarsi le unghie. Il volto sofferente, le labbra contratte, seduta adesso sul bordo del letto, le mani a pugno tra le cosce, dondola con il busto. Avanti e indietro. Ricorda la ribellione dei quindici anni, il tentativo per scollarsi dalla madre. E finirla con quella semivita da mostruoso embrione uscito dall’utero cui nessuno ha reciso il cordone ombelicale.
    Un taglio impossibile.
    Poiché Livia aveva una dote speciale di divinazione per qualunque tentativo di distacco. Persino solo vagheggiato. L’esito era uno scontatissimo rientro nei ranghi grazie alla tecnica collaudata delle occhiatacce gelide, del mutismo minaccioso. Insomma, pietra su pietra, Livia metteva argini a ogni spreco di fusione. E il recupero dopo la cura portava a una compiutezza maggiore. A suo dire, invero, Il sole senza l’ombra non risalta. L’ombra è la coscienza della luce.
    L’ombra: l’ammutinamento di Linda.
    Il sole: lei, Livia. Se unita a Linda.
    Insomma: comprensione cristiana dell’errore come perno di un’inconfutabile pedagogia materna di mano di ferro in guanto di ferro per la riconquista della degenere e per ricomporre la globalità portentosa di Livia più Linda. Così da collimare senza impaccio.
    Da questo principio era sortita la massima dell’ombra e del sole oramai nella tradizione di famiglia. Un ricamo di fili gialli su seta grigia con cornice d’oro composero il quadruccio che fu appeso sopra il letto di Linda a garanzia della stabilità riguadagnata.
    E come monito a non deragliare.
    Un ricatto continuo di allusioni a colpe innominabili. Da dannazione eterna. Una solfa monocorde mentre fa a striscioline con le forbici camicette, maglie, pantaloni, gonne non confacenti al loro identico stile, brucia giornali, libri, rompe CD, butta scarpe. Riscatta l’ordine originario legando di nuovo Linda – la sua gemma meglio tagliata – nel castone sfolgorante del suo stesso fulgore.
    In nome del buongusto e dell’equilibrio.
    Con il sorriso sulle labbra e senza alzare la voce.

    Con il sorriso sulle labbra e senza alzare la voce tirava i miei fili, a corti strappi o facendoseli scorrere tra le dita per dare l’illusione della libertà, fino a un blocco imperioso. Con le trazioni adatte imbrigliava e regolava. Vegliando su una concordia di facciata. Indifferente a me, che boccheggiavo ormai al limite della linea di galleggiamento della vita, attaccata alla speranza di diventare fluida e scivolare sotto la porta e a cascatella dalle scale giù verso l’entrata e fuori sulla strada lungo i marciapiedi per evaporare al sole, o via dentro gli scoli urbani per sparire.
    Quanti errori nel cercare una via di scampo tra i riflettori da circo puntati sulla mia fragilità.
    Quanta frustrazione.
    Poi, il lavoro in un’altra città. Con i soliti pesi.
    E ancora cibo e vomito, cibo e vomito.
    Finché so di essere incinta.
    Da cui: la volontà di correggermi, le sedute nello studio di uno psichiatra, l’amore di Loris persuaso di essere il padre del nascituro, il decalogo buttato giù di getto sull’agenda e decorato da cuoricini benauguranti:

    - Continuare a frequentare lo studio del dottor Tavros.
    - Mangiare secondo tabella e orario.
    - Non lavorare più di 8 ore al giorno.
    - Convincersi che il Bambino sia di Loris.
    - Amare Loris.
    - Sposare Loris.
    - Mettere al mondo il Bambino.
    - Sbattere in faccia alla mamma la mia bulimia.
    - Pregarla di volermi bene da lontano.
    - Volermi (io) bene.

    Una tabella rigorosa e incoraggiante!
    Me la guardavo e riguardavo, fiera dei miei propositi. Un foglio di carta con dei segni semplificava i problemi? Non risolveva di sicuro i guai del mondo ma per i miei, forse, era sufficiente la grafia a inchiostro rosso sull’agenda. Importante…, molto importante quel passo… Per la prima volta mi spingevo ben più in là del mio ristretto orizzonte. E tutto era andato secondo i programmi per un buon pezzo. Cos’era successo, dunque, di tanto grave da far crollare il mio castello di carta?
    Certo, sì, la ragione di sempre.
    Io, proprio io, ero la nota stonata dell’impostura costruita con crismi di pretestuosa dignità, io con la mia coscienza-aquilone in balia del vento.

    Linda lo sa cos’è successo. In cuor suo conosce il motivo del patatrac. Si è riadattata alle fobie di Livia. Ha detto a Loris che non lo ama. Di conseguenza non vuole stare con lui, avere tra i piedi parenti pasticcioni e madri sfruttatrici. Deve, comunque, completare l’annuncio. Per far finire la sceneggiata delle fotografie. Deve dirgli: Tu non sei il padre di Ale. Toglitela dalla testa. Ale è figlia di un altro. Stavo con lui e con te nello stesso tempo. Ale è figlia sua. Inoltre io amavo lui non te. Lo amavo e lo amo purtroppo, malgrado sia un vigliacco, fuggito a gambe levate di fronte alla responsabilità di una vita in boccio. Tu sei stato per me la salvezza del momento. C’eri quando temevo di non potercela fare e pensavo al diritto di ogni neonato di avere un padre. Vedi, Loris, ci siamo lasciati fuorviare troppo dalle nostre presunzioni. Adesso basta.
    Linda ha deciso. 
    Loris capirà. 
    E se non vorrà capire, dovrà sventolargli sotto il naso l’esito dell’esame del DNA. Ce l’ha in mano da giorni e non ha avuto il coraggio di esibirlo. Lo chiamerà, lui verrà di corsa, usciranno e, in macchina, senza perdere tempo gli spiegherà: Ale non ha il tuo sangue. Il referto è chiaro. Devi smetterla di importunare i miei con ridicoli agguati per provare che sono una madre degenere, non curo mia figlia e l’ho abbandonata nelle loro mani. Cerchi di ottenerne l’affidamento? Non negarlo! Ale non è tua, quindi non ci riuscirai! E ficcatelo in testa: non sono mai stata innamorata di te. Avevo solo bisogno del sostegno di qualcuno. E tu eri là, all’ospedale, premuroso e disponibile. Perciò ho permesso che ti illudessi di aver avuto una creatura da me.
    Una creatura da me…, ripete Linda con un senso di nausea alla bocca dello stomaco, tutti vogliono qualcosa da me. Tempo e denaro, passi! Ora, però, vogliono mia figlia. Per appropriarsene mi mangiano a morsi, brandello dopo brandello. E con me divorano anche lei.

    Linda ha confessato. L’incontro con Loris è avvenuto. La vicenda sembra conclusa. Via le reti, via i lucchetti, si potranno rispalancare le persiane, il sole irromperà nelle stanze a fiotti, il giardino recupererà la sua florida ampiezza.
    Il mattino di maggio è smagliante, il glicine sulla recinzione ha grappoli fastosi, uno sciame di api attirato dal loro nettare concerta ronzando attorno alla finestra del salotto dove Linda, la fronte corrugata, cerca di dormire senza riuscirci, malgrado la robusta dose di Valium ingurgitata.
    Un altro errore le pesa sulla coscienza. Il volto di Loris isterilito da un dolore muto, la mano di Loris che lascia la sua, Loris che se ne va sono immagini che porterà impresse nella memoria. Non vi si sottrarrà mai. Ora le franano addosso a sequenze implacabili di flash brucianti.

    Cos’è questo casino? farfuglia Linda cavandosi da quella specie di apatia vigile che la intorpidisce.     Ci sono le gazzelle dei carabinieri? Mi pare di aver sentito delle sirene. Mamma, dove sei, cosa succede?
    Livia e Carlo entrano in silenzio.
    Non ti affacciare alla finestra! bisbigliano all’unisono. È successa una disgrazia. Loris… E non riescono proprio a finire la frase. Le voci si spezzano.
    Linda vuole sapere.
    Si avvicina alla finestra. Intrufolandosi tra le tende si sporge sul davanzale e guarda.
    Al di là del viale una figura goffa penzola da un grosso ramo del castagno di fronte al salotto.
    La testa è reclinata sulla spalla.
    Sembra un pupazzo di legno.
    Un pupazzo dall’elastico allentato.
    Linda vuole sapere con più sicurezza. Esce, attraversa la strada, si accosta al corpo esanime.
    A lato dei piedi scalzi, tesi ad arco, nota uno sgabello capovolto, di quelli che i bimbi trascinano vicino agli adulti quando vogliono farsi narrare una fiaba. È tutto un fiore dipinto: margherite, primule, viole, nontiscordardimé, gigli selvatici, papaveri e lillà vi si intrecciano a ghirlanda.

    Linda esplora con gli occhi
    quelle spoglie irrigidite.
    Riconosce
    i jeans lisi,
    il maglione azzurro
    con i bordi sfilacciati,
    vede,
    sfaldandosi in schianti
    crescenti di pena,
    vede,
    fissata con uno spillo da balia
    all’altezza del cuore,
    la fotografia sorridente di
    Ale, da un anno e mezzo
    presunta, amatissima figlia.

    (Che è quanto sta scritto a lettere sgorbiate
in calce all’istantanea.)

 Irene Navarra


Qui di seguito gli altri racconti pubblicati:

Il Bambinello delle Arpie;

Il ritorno;

Tra le labbra livide della notte;

Le rose rosse;





 

mercoledì 5 aprile 2023

Prosa / Racconto: Davide ha pagato (da "Davvero così").

 

Fotografia di Pexels da Pixabay.


     Era il più bello del gruppo.
     Zazzera castano dorato perennemente scomposta, grandi occhi verde giada, risata generosa, corporatura snella ma forte.
     Lo si guardava incantati.
     Gli avresti offerto tua sorella pur di essere suo amico.
     Quando Davide era nei paraggi non esisteva nessun altro e nient’altro, dicevano le ragazze che gli si strusciavano addosso come gatte in calore. Smaniose di toccarlo, e di essere invitate sulla Golden Argosy: la barca a vela di famiglia dove viveva d’abitudine.
     Solo in quel ketch di quindici metri attrezzato per la navigazione in solitario – ci fosse un caldo infernale, pioggia, vento furioso o freddo polare – assaporava il fluire dei giorni. E a chi cercava di convincerlo ad allontanarsene per un qualsiasi motivo sciorinava il suo mantra di benessere psicofisico zeppo di precisazioni atmosferiche, aggiungendo categorico: Qui sto bene.
     Qui sto bene, l’aveva addirittura scritto su una striscia di stoffa che aveva appeso all’albero di maestra. Un drappo bianco dai caratteri neri in cui stava comoda la sua adolescenza viziata. Del resto, lui, in barca ci era quasi nato. La madre, infatti, vi si era trattenuta fino a poco prima di darlo alla luce. Voleva godersi lo sciabordio del mare sulle fiancate della Golden Argosy. Giova al bambino! rispondeva risoluta al marito, meno temerario, che la esortava alla prudenza. A lui piace questa musica, lo culla, lo fa addormentare, così dormo anch’io e lo sogno come un delfino che cavalca i flutti.
     E si assopivano beati, lei e il delfino nuotante nel suo privatissimo mare amniotico.
     Nell’ultimo mese di gravidanza non lasciò mai la barca. E c’era un motivo, sospettavano i parenti: si sarebbe sgravata in mare, tra le onde che lambivano la spiaggia su cui aveva giocato da piccolissima. In effetti, a dieci giorni dalla data fatidica, ammise le sue intenzioni. In mare! imperversò. Nascerà in mare. Voglio sentire il suoprimo vagito in mare.
     Gli amici la definivano matta ma simpatica, solare. Il nome di Allegra, poi, le si addiceva proprio, e quelli colti chiosavano: Nomen omen. Ovvero: il carattere sta già nel nome. Specie se, come lei usava, era gridato ai quattro venti con un’intonazione tale da scuotere le pietre. E per quel costitutivo pizzico di follia che le inibiva ogni senso di responsabilità, l’avevano obbligata ad andare in ospedale. Se fosse successo qualcosa alla creatura, se la sarebbe vista brutta, minacciava il marito.
     Quando le doglie si erano presentate, Allegra, messa sotto pressione, aveva accettato. Per non dover sopportare ulteriori tiritere lagnose. Ne aveva sentite troppe da gestante.
     Malinconica durante il travaglio, affranta nel parto, si era rianimata in un baleno con il suo maschietto tra le braccia. E si capiva al volo quanto le frullava per la testa: Davide, futuro compagno di capriole marine, sarebbe cresciuto con lei sulla barca e non in una casa.

     Fino ai sei anni Davide non aveva conosciuto la sensazione della stabilità sotto i piedi. Se la casa non rollava e beccheggiava, non era una casa. Perciò: feste di compleanno, Natale con miniabete adorno di gingilli di vetro, Pasqua con ricerca di conigli e uova di cioccolato, la cena di San Silvestro…, tutto in barca. Si era abituato, insomma, a tenersi in equilibrio su un mondo mobile mentre la madre gli aleggiava attorno, protettiva e innamorata persa di lui, Bello come un angelo.
     Allegra era cieca. Il sentimento morboso che la legava a Davide le impediva di vedere quanto il figlio si stesse deteriorando sotto la patina perfetta, per la sua eccessiva dedizione. Non era malvagio, era egoista.
     E al massimo.
     Davide era un campione di egoismo. Lo sostenevano i coetanei senza le fette di prosciutto sugli occhi.
     Il primo dolore? La scuola.
     Per la scuola furono costretti a ritornare nel loro appartamento di città, all’attico di una palazzina vecchiotta ed elegante, immersa nel verde ma, purtroppo, lontana dal mare. Là, durante la settimana, madre e figlio potevano semmai fantasticare. Appoggiati alla balaustra del balcone, tramutavano le chiome degli alberi in onde azzurre, indaco, blu con iridescenze d’oro, viola o argento, a seconda delle giornate. Tenevano duro. Fino al venerdì pomeriggio quando, raccolti gli effetti personali, si dirigevano alla darsena dove avrebbero respirato a pieni polmoni negli aromi salsi della Golden Argosy. Il padre, Andrea, li raggiungeva la domenica e se ne ripartiva presto, per i mille oneri di lavoro e di politica. Ingegnere, assessore ai lavori pubblici nella giunta regionale, viveva la sua vita. Come Davide e Allegra d’altronde, pur nel rispetto reciproco. Suppergiù la normalità, questa, per le famiglie dello stesso livello sociale. Anzi, Allegra e Andrea apparivano una coppia affiatata, almeno agli occhi dei conoscenti separati da poco; o degli altri, assai numerosi, che erano divorziati da un pezzo; oppure di chi trascinava il matrimonio tra sotterfugi e tradimenti. Nessuno squilibrio nella loro confortevole routine. Niente fratture nei rapporti sempre cortesi. Allegra, Andrea e Davide si amavano in una maniera molto, molto individualista, con qualche nube e troppa frivolezza.

     Diciamo al punto corrente della storia che ci vuole una coscienza, un’evoluzione che sia di preferenza un dramma, un epilogo che sia magari frutto di una catastrofe.
     Io sono Damiano: diciassette anni, compagno di classe di Davide. Invidioso marcio di lui. In questo caso sono la coscienza, l’intelligenza del dramma, sono il motore dell’evoluzione, e l’epilogo.
     Io sono l’epilogo di Davide.
     Devo spiegare.
     Dico sono perché mi piace ipotizzare una trama già ordita. Ergo, rettifico: io sarò l’epilogo di Davide.
     Per ora rimango il suo migliore amico.
     Sì, sin dall’infanzia.
     Ricordo della prima elementare (interpretato con il senno di adesso): dopo un paio di mesi di malumore Davide si accorge di me. Il tedio che lo affligge, evidente negli angoli della bocca all’ingiù, cede il posto alla…, mi piacerebbe dire gioia però non posso. È più azzeccata la parola eccitazione. Ossia: scopre in me (Damiano, il ragazzo così pallido da sembrare uno del sottosuolo) delle qualità ehm... lodevoli.
     Perciò mi sceglie.
     Sceglie me!
     Io, Damiano il fantasma, ne divento lo zerbino e – racconto mentendo per far schiattare gli altri – il confidente, il consolatore. Ruoli, questi, che lui non mi prospetta nemmeno.
     Lui è un Dio e io sono uno schiavo naturale.
     Sguscio in silenzio dappertutto e mi comporto in modo da non far notare la mia presenza.
     Sono grigio.
     O meglio: sono stinto.
     Come i miei jeans e le mie magliette straccione.
     Non esisto, in definitiva.
     Per questo gli piaccio.
     Lo scatto senza scia è la mia specialità. Negli anni del liceo mi riduco a diventare anche il suo filippino, purché mi inviti sulla Golden.
     Io mi accontento.
     I compagni hanno smesso di domandarmi i motivi della mia assoluta dipendenza. Credono di averlo capito. L’ho trovato scritto sulla parete di destra del bagno dei maschi, a lettere enormi:
     DAMIANO AMA DAVIDE.
     E sotto:
     DAMIANO È UNA CHECCA.
     Che lo credano!
     A me non me ne importa un fico secco.
     Mi considerano una checca? Me ne impipo, me ne frego, me ne sbatto.
     Per me è preferibile essere una checca che niente.
     Una checca perspicace, comunque.
     Si strafoghino pure con la lercia denuncia della mia frocitudine. Io nel frattempo mi preparo, studio l’ambaradàn generale e sto vicino ad Allegra che sembra un’attrice del cinema. Chic e falsa magra, gentile con me perché (lo dice lei) adoro Davide.
     Di frequente dormo in barca.
     Se Allegra preferisce rimanere a casa – ormai il delfino è cresciuto, l’autonomia gli giova al carattere! – si baccana proprio là tra ragazzi. Poi, a fine baldoria, io raccolgo le scorie, ripulisco la scena da reperti compromettenti e mi fiondo in cuccetta. Vicino a lui che ronfa già da un pezzo per cause artificiali.
     Allegra non lo sa e non lo deve sapere. Davide si fa di brutto.
     Le prime dosi gliele ho procurate io.
     Io non mi faccio.
     Io spaccio.
     Esclusivamente a lui.

     Sabato.
     Stasera, festa sulla Golden Argosy. La solita festa con gli apparati giusti.
     Io non ci sarò.
     Dico a Davide: Mio padre è ammalato grave, la mamma copre il turno di notte al cotonificio, i fratelli sono per i cavolacci loro, io devo sacrificarmi e assistere il vecchio.
     Lui frigna: Chi si occuperà dei rifiuti? Chi…?
     Gli ficco in mano le cartine ripiegate in quattro.
     Siamo sotto le scritte DAMIANO AMA DAVIDE, DAMIANO È UNA CHECCA. Se le caccia furtivamente nel taschino della sua magnifica giacca biker Saint Laurent di nappa nera, mi passa il denaro pattuito per la merce ma non l’abituale aggiunta. Si gira e se ne va senza un saluto.
     Offeso a morte.
     Ok! Sono sollevato.
     Saltello avanti e indietro per il corridoio del bagno fingendo di strimpellare un’immaginaria chitarra.
     Strimpello e canticchio Ozzy Osbourne:
     Your time is coming / Your soul is burning / Your future’s fading / I can’t save you.
     Eh, sì! Non posso salvarti.

     Le tre di domenica mattina.
     Il gruppo – tranne Davide – si è trascinato fuori mezz’ora fa in uno sballo totale. Esco da sotto il telone di copertura della barca accanto alla Golden, guadagno il molo con un salto. Ho protezioni di lattice sulle mani e sui piedi. Le scarpe da ginnastica le ho infilate nello zaino. Due passi felpati lungo la passerella della Golden e sono nel pozzetto. Mi intrufolo sottocoperta e dalla dinette nella cabina di Davide. È disteso di schiena, come un pupazzo floscio, il braccio destro sul ventre, l’altro lungo il fianco, la luna gli illumina il profilo filtrando di sghembo da uno degli oblò. Ispeziono in giro: c’è un caotico ingombro di bottiglie lattine piatti sporchi, abbondano le tracce di spinelli e polvere bianca. Mi concentro soddisfatto su Davide. Levo dalla tasca dei jeans una lametta, la scarto e getto l’involucro a caso dopo avervi impresso le sue impronte digitali, gli prendo il polso destro, lo ruoto dalla parte interna, incido di netto le vene, lo sistemo sul petto. Il sangue impregna rapido la polo chiara. Sollevo il sinistro, lo incido secondo un’angolatura calibrata al millimetro in prove e controprove, lo faccio scendere con cautela verso il basso. Personalizzo la lametta stringendola tra i polpastrelli di Davide e la poso sotto il filo rosso che cola regolare in una chiazza vischiosa.
     Un’ultima occhiata a quel ritaglio ormai insignificante della mia vita, e via. Ombra torbida nella foschia dell’alba mi affretto verso il letto di mio padre con la bronchite e una buona dose di sonnifero in corpo. Mi gusterò il riscatto ascoltandolo russare.

     L’indomani a scuola.
     Damiano, hai letto il giornale? Nella pagina della cronaca c’è la foto di Davide! L’hanno trovato morto, con i polsi tagliati. Si è suicidato! Perché? Aveva tutto!
     Abbasso la testa, stroncato, le lacrime sgorgano copiose, butto fuori parole monche, tra singhiozzi irrefrenabili: Oh Dio, cos’ha fatto? E io, cos’ho fatto io…! Aveva tutto ma non aveva me…!
     La sorpresa raggela i compagni.
     Faccio una pausa, li scruto di sottecchi e ripeto, aumentando il tono: Aveva tutto, ma non aveva me…, mi amava, mi amava da pazzi, maledetto me…, l’ho respinto.

     Davide ha finalmente pagato.
     Ecco, adesso posso dire SONO: SONO l’intelligenza del dramma, SONO il motore dell’evoluzione, SONO l’epilogo di Davide.

Irene Navarra

sabato 1 aprile 2023

Prosa / Racconto: È solo questione di tempo (da "Davvero così").

 


Fotografia di Daniil Komov da Pixels.

      
     La decisione di Benedetto

     Da molto non parlava con nessuno. Intendiamoci però, non è che nessuno gli rivolgesse la parola, lo considerasse o cercasse di coinvolgerlo in discorsi di un tipo o di un altro, è che non era in grado di conversare, e per un motivo molto semplice: non udiva le voci di chi aveva davanti. Gli si era inceppato un ingranaggio, delle rotelle avevano smesso di girare. Al minimo approccio, al più sciocco dei convenevoli, Benedetto dava sulle prime un segno d’intelligenza giacché fissava le persone con interesse ma, all’istante, cadeva in un’atonia imperturbabile, agghiacciante per gli interlocutori. 
     Chiuso in un silenzio agro, osservava senza mai replicare.
     Per chiarire da subito: Benedetto non era diventato sordo. Benedetto non sentiva gli accenti umani, avvertiva invece benissimo quelli della natura. I fiumi, il vento, la pioggia, gli animali intessevano i loro messaggi alle sue intime commozioni. E lui li interpretava senza difficoltà, mescolando assensi segreti al linguaggio di ogni infinitesima goccia d’acqua gli accarezzasse il volto, di ogni alito di brezza gli scompigliasse i folti capelli bianchi tenuti alla selvaggia.
     La mattina, appena alzato, usciva nel portico e si accomodava su un seggiolone di quercia, ovattandosi in un’estasi straniata che si protraeva sempre a lungo. Ore, per dirla con una parola indicante parametri logici. Tempo dilatato talvolta, tempo puntiforme talaltra, per dirla in un modo vicino a quello di Benedetto, che lo captava rarefatto o condensato a seconda dell’umore e di quanto favoriva quella sua propensione. I fenomeni stagionali, per esempio. Alcuni lo assorbivano in malie a dir poco obliose. Il cadere delle foglie in autunno e la fragile danza dei fiocchi di neve gli inducevano addirittura una sorta di trance restia a dileguarsi.
     Nell’attimo in cui si installava su quel suo trono di legno iniziava un’esperienza salutare. Segni referenziali epurati via via del superfluo, vista e udito selezionavano quanto non era nuda memoria o espansione dell’anima, eliminandolo.
     Con i sovrasensi di recente sviluppo Benedetto si librava sul mondo delle macchine, delle ciminiere, delle case-alveare, degli uomini, delle loro bazzecole, e se ne svincolava. Per gravitare poi, più assennatamente lieve, nel nido del suo cuore.
     Dove pativa meno.
     Pativa meno cioè nell’urna di se stesso e durante le fortuite occasioni in cui riusciva a distinguere gli uni dagli altri: gli zirli dei merli in ansia per i pulcini, il canto del fringuello alla cerca di chicchi appetitosi, il colpo frequente e cupo del picchio rosso sul tronco del susino decrepito. Se riusciva a sorprendere il crescere dei fili d’erba, come diceva all’inizio della sua storia di autoemarginazione, quando si cimentava nello spiegare la scoperta ai pochissimi che s’illudeva capissero.


     La ricerca

     Benedetto era stato un uomo normale.
     Aveva avuto una moglie di nome Elena e una figlia di nome Arianna. Due stelle del cielo. O meglio: le sue costellazioni per l’orientamento. Il Nord, il Sud, l’Est e l’Ovest convergevano nei sorrisi, nelle reciproche premure, nel loro armonioso stare insieme.
     Finché non furono uccise.
     In un crepuscolo di primavera.
     Da un pazzo che guidava a mille, ubriaco fradicio.
     Lui, il mostro, era sopravvissuto. Ferito gravemente ma vivo, venne estratto dai rottami della sua Porsche rossa e se la cavò con dei mesi d’ospedale.
     Loro, nella Mini d’argento comperata da un mese, se ne andarono tenendosi per mano.
Elena a quarantadue anni, Arianna a sedici.
     Tutto finì, dunque.
     Anche per Benedetto.
     Che, comunque, nei primi mesi di solitudine, continuò a insegnare scienze nel liceo in cui era cresciuto e dove era ritornato fresco di laurea. Continuò a sembrare l’uomo di sempre. Troppo freddo però, a detta degli amici che gli rimasero accanto dopo la disgrazia; troppo indifferente, con una luce indecifrabile negli occhi asciutti, un’inflessione da automa nella voce, un che di meccanico nei gesti. Da preoccuparsene insomma, da azzardare degli inviti: una cena, un giro in bici, una scarpinata nel bosco per funghi.
     Benedetto permettendo.
     Ma lui non permise mai. Anzi, incominciò a non rispondere al telefono, a ignorare le scampanellate alla porta. Si chiuse al mondo. Si acconciò un bozzolo di nebbia che nascondesse quanto non voleva vedere, da sigillare o dissigillare a seconda delle urgenze emotive.
     In quel suo microcosmo Benedetto cercava un bene bastevole a sé, un bene conforme ai cicli naturali. Livellarsi in essi era, forse, una via percorribile per compensare la perdita prematura.
     Con una faticosa sperimentazione Benedetto si sforzava di uniformarsi al nucleo originario di ogni organismo, divenendo la schietta energia che ne dipana le forme e i colori. La strada intrapresa non necessitava di timbri umani. Questi lo riconsegnavano all’urlo di Elena e Arianna precedente la morte. Il loro grido gli inondava il cervello quando pensava all’omicida.
     Di urla si può impazzire.
     E lui, questo, non lo voleva.
     Doveva essere lucido.
     Per limarsi, assottigliarsi fino a scomparire.
     Rotolava Benedetto, verso il nulla. Riflettendo in continuazione. E ponendosi una domanda: Come raggiungere il tempo immobile di chi non è più, nel rispetto dell’ordine biologico?
     A ciò si applicava di lena scrutando il cielo, gli astri, e pregando. Un Dio senza nome, per cui il passato fosse in eterno presente.
In Lui le avrebbe ritrovate.
     Per esercitarsi, iniziò a sfocare i contorni delle cose, con metodo. Divenne tanto abile da riuscire a notare solo l’essenziale. Tutto in definitiva fu dissolto, tranne le fotografie di Elena e Arianna sul tavolino del salotto, e la carcassa della Mini, perché le aveva serbate nel passaggio alla morte. Le rose rampicanti piantate da Elena alla base delle colonne del portico, le considerava le custodi della sua astrazione. Simboleggiavano la forza del ricordo con il miraggio di polpastrelli sui tronchi ormai irrobustiti. Piante floride, ma destinate anch’esse a disgregarsi nel rattrappire della materia. Un’unica passeggiata si concedeva dall’incidente: il pellegrinaggio al deposito dove la vettura giaceva sotto sequestro. Appoggiava due mazzolini di anemoni variopinti nell’abitacolo semidistrutto e ritornava veloce a casa. Del processo istruito contro chi gli aveva oscurato le sue stelle non gliene importava. Poteva forse ridargliele? Aveva senso, quindi, parteciparvi?
     Retorica la risposta.
     Insita nel vuoto che lo abitava.
     Così, da un giorno all’altro, al lavoro non ci andò più. Si era ritirato in un guscio introverso e si contentava di quasi nulla.

     A due anni di distanza dalla disgrazia, Benedetto aveva la consapevolezza di procedere ormai speditamente verso la soluzione. 
     Se lo sentiva nella pelle: stava per arrivarci, avendo risolto la questione del tempo.
     Il presente doveva diventare passato a velocità vertiginosa per ricongiungerlo a Elena e Arianna proprio là imprigionate.
     Il futuro era l’attesa che non voleva.
     Costringendo il suo corpo a una consunzione graduale avrebbe percorso una sorta di itinerario all’indietro e raggiunto l’inspiegabile di cui era fatta la sua anima, di cui erano fatte Elena e Arianna. Non si trattava di suicidio per intenderci, no di certo! Il problema non si poneva in tali termini. Sapeva di non poter riconquistare la felicità perduta nella violenza di una morte autoinflitta. Doveva familiarizzare con lei fino a carpirle il sapore.
     Centellinandola.
     Se ne sarebbe andato nell’innocenza assoluta, come un albero privo di nutrimento.


     La gazza

     Quella mattina il sole sembrava una pesca succosa e impregnava il giardino della sua resina infuocata. Le prugne mature – si era ad agosto – si gonfiavano di linfa e facevano scricchiolare i rami appesantiti, le lisette cremisi delle bordure frusciavano per trafugare un rimasuglio d’umidità all’atmosfera già cocente, i merli schiamazzavano, le cince berciavano, uno scoiattolo dal muso di fauno faceva capolino tra le foglie del vecchio ciliegio, le vespe ronzavano attorno al favo appeso sotto la grondaia del portico. Vicino allo stagno i ghirigori aerei di alcune libellule Agrion – le elitre vibranti di violetti e verdi – contrastavano con la fatica di una splendida Anax che arrancava sulle zampe, non fatte per camminare ma per attaccarsi ai rami delle postazioni di sosta.
     Inconsueto comportamento per una libellula predatrice dell’aria!
     Benedetto, però, lo sapeva il perché.
     Se l’avesse presa prudentemente con le dita e rigirata ad addome in su, il motivo sarebbe apparso manifesto. Uno squarcio, un’orrenda mozzatura degli organi vitali, ecco la spiegazione! Violata da un’insignificante formica terragnola brancolava ancora sul terreno, forte del motore muscolare intatto e degli enormi occhi complessi volti a mete irraggiungibili.

     Benedetto conosce il vuoto della libellula.
     Divorato di sorpresa, costretto a terra, si muove per residui di conduzione nelle guaine neurali.
     Il cuore gli è stato reciso e portato via.
     Lui e la libellula hanno subito la stessa sorte.
     Seduto sul seggiolone di quercia, assiste immobile alle frenesie dell’alba estiva e ne archivia mentalmente le varianti. Si accorge di una gazza piuttosto eccentrica che raspa tra le tegole del tetto della rimessa, scoccandogli furtive sbirciatine.

     Il bellissimo animale dai magnifici riflessi blu elettrico sulle ali e sulla coda si aggirava nei paraggi da un po’. Compariva all’arrivo di Benedetto in giardino e lo fissava, negli occhi uno sbrilluccichio di zaffiro, confidenziale e garbato.
     Controvoglia Benedetto lo ammetteva: era di compagnia e rallegrava. Cose, queste, da evitare, rifletteva perplesso. Non erano parte del programma e non lo aiutavano nel disegno ineccepibile architettato a tavolino.
     Cosa sarà mai una gazza! si ripeteva quando gli zampettava vicino emettendo versi flautati, dissimili dai tipici della specie. E l’esclamazione interna, una volta espressa, la ricusava istintivamente per permettersi di sogguardarla ancora, quella gazza leggiadra, attirato dalla levità delle movenze e dal grazioso volgere del capo, se lui si scostava.
     Stravagante uccello! Diverso dagli altri.
     Offriva…, che cosa? Offriva ristoro.
     Formulata la risposta, Benedetto se ne vergognò di colpo, ma non la scacciò.
     Capì in breve di non poterne controllare l’eccezionalità. L’avrebbe accettata, studiata con la prudenza con cui aveva indagato le fasi degli astri. Le cose non potevano cambiare, aveva imboccato la strada giusta, non avrebbe deviato per una gazza dagli occhi di zaffiro. Si obbligò a crederla una fuggevole distrazione, cercò anzi di non darle troppo peso, non voleva affezioni di nessun genere, intoppi di sentimenti che fermassero il presente in un tenero corpo piumato, nell’eleganza di ali aperte in volo. Urgeva ridimensionarla a elemento del paesaggio, insomma. Era come gli alberi, i fiumi, i tramonti. Da registrare con i sensi e da vivere con inerzia. La studiava sicuro di un fatto: la sua labilità ben più accentuata di quella dell’uomo. Un giorno non lontano l’avrebbe vista in bocca a uno dei tanti gatti randagi del quartiere. Allora, si sarebbe voltato dall’altra parte senza scomporsi. Ma, al solo abbozzare la congettura, rabbrividiva involontariamente. E si spaventava e interrogava.
Rabbrividire d’orrore per l’eventuale morte di una gazza? Com’era possibile?
La fiducia nella scelta fatta all’inizio, immediatamente dopo la disgrazia, vacillò. Si sentì perduto. Occorreva provvedere con una contromossa. 
     Chiudendosi in casa.
     Lei fuori, lui dentro.
     Per quanto possibile avrebbe imitato un Tomiside, ovvero uno dei numerosi ragni-granchio del giardino abili a nascondersi nei fiori delle ombrellifere con secreti cromatici mimetizzanti. L’estremo tentativo di specializzazione per sottrarsi all’assedio timido della gazza implicava una sola alternativa: l’isolamento ulteriore, senza titubanze. Per quanto possibile.
     La natura, da quel momento, l’avrebbe semplicemente immaginata. Sarebbe diventato cieco.
     Un cieco particolare.
     Com’era sordo in modo particolare.

     
     Silvina

     Il campanello di casa squilla aggressivo, Benedetto è sul divano informe del salotto, informe egli stesso. Si stancheranno, ansima abulico, determinato a non alzarsi, a non fare la fatica di quei pochi metri, a non aprire per nessun motivo.
     I trilli elettrici gli perforano il cervello. Deve escogitare un modo per levarseli di torno assieme agli altri disturbi sonori. La periferia cittadina si sta estendendo con nuovi cantieri a danno della campagna e il chiasso in crescita mette a dura prova il suo laborioso addestramento. Teme di non poter cogliere l’attimo in cui le voci amate gli sospireranno la formula a lungo cercata. Deve decidere qualcosa. Di definitivo. Non vuole cedere dopo tanto impegno.
     Dormirà durante il giorno.
Del sonno penoso e interrotto che non ti fa riposare e ti rompe le ossa, ma serve perché educa all’addio. Separandoti dalle sollecitazioni del mondo.
     Di notte, invece: la veglia.
     Nel silenzio, l’ascolto.
     Pressoché senza interferenze tranne: una macchina in corsa, la stridula frenata, sirene. Suggestioni acustiche, queste, di cui non può disfarsi perché hanno la scorza coriacea della tragedia e si ripresentano spontanee, condizionate dal subconscio ed evocate da un fulcro di puro dolore. Indipendenti dall’opera dell’uomo. Forse il cenno asettico di quel Dio senza nome che, per abituarci al commiato, toglie la quiete non risparmiando nemmeno la lente pastello dell’alba. L’alba: meravigliosa per chi, non ancora toccato dalla sofferenza, aspetta il riaccendersi del giorno come un dono; ciarlatana da quattro soldi per chi, schiacciato da drammi insopportabili, ne avverte l’inganno da soap opera e smaschera la lusinga del rigenerarsi.
     Il campanello si fa arrogante. Ripete un driiiiin ostinato. Benedetto si accartoccia, le mani sulle orecchie. Abnormi risonanze forano le pareti, graffiano il suo torpore. Un batacchio gli percuote le tempie. Nell’aria torrida, con la lentezza di un bradipo, si disviluppa, si alza, va alla porta.
     Schiude uno spiraglio.
     Ci infila la testa.
     Piano.
     È Silvina.

     La conosce da abbastanza tempo. Quanto? Non lo sa con precisione. Silvina ha… (che età può avere?), neppure questo Benedetto sa con precisione. Sottile, un visino dall’ovale nitido, gli occhi di un nero giaietto singolare. Fuggita con la famiglia dallo sconfinato territorio cinese. Un’odissea coronata dal successo, la loro. Il padre lavora in una fabbrica di macchine agricole, la madre cuce a casa. Hanno quanto basta alle loro esigenze.
     Lei ama girovagare. Taciturna e osservatrice, va alla scoperta del mondo circostante, nel cuore la bellezza dei grandi spazi dove è nata. E la sontuosità dell’acqua: abbondante acqua di fiume dalle anse placide che ricorda con chiarezza, sebbene il viaggio verso la vita l’abbia fatto ancora piccina.
     Benedetto se l’è trovata in giardino una mattina d’inverno fredda e tersa. Ginocchia sull’erba irrigidita dal gelo, le braccia esili a mo’ di puntelli, sporgeva pericolosamente il busto sopra lo stagno, in precario equilibrio.
     Vederla e acciuffarla al volo fu tutt’uno. Tenerla davanti al volto (leggera come una gattina!) fu inevitabile. Incrociarne lo sguardo, una delizia.
     Storia presente, quelle pupille dense di presagi.
     Storia che si trasmette di giorno in giorno con delle regole salde.
     L’ha chiamata Silvina.
     Silvina, perché non riesce a pronunciarne il nome cinese. Gliel’ha proposto scarabocchiandolo su un pezzetto di carta azzurra. Lei ha annuito, senza emettere un fiato.
Così, si sono dettati le clausole di relazione: lei avrà libero accesso al giardino passando attraverso un buco della rete che lo divide dai campi incolti. Non gli si deve avvicinare, però, più dell’indispensabile. Potrà coltivare loto e ninfee nello stagno, e allevarvi una coppia di germani, in cambio delle compere giornaliere da depositare davanti alla porta. Di lei non vuole sapere null’altro oltre alle quattro informazioni vergate con una grafia a svolazzi sulle pagine di un quadernino che porta appeso al collo in bizzarro ciondolo. Né baderà a quanto gli dicono i suoi occhi, raramente mesti e molto, molto affascinati da lui.
In breve la sua presenza è accettata e il giardino si ingentilisce per i fiori polposi sulla superficie dello stagno e per i due animali che donano cangianti tremolii all’acqua con le loro livree.
     Da quando c’è Silvina il giardino si è vestito a festa.

     Un triangolo di luce si allarga sul parquet. Silvina spinge con una mano sporca di terra il battente: chiede di entrare. Benedetto accenna di no, lei però insiste e varca la soglia. Attraversa la stanza e gli impone di seguirla verso il portico con un movimento del capo. Spalanca la portafinestra, le imposte, esce nel sole che abbaglia. Lui accondiscende frastornato, la guarda avanzare verso i cespugli di rose rampicanti, fermarsi, la sente modulare un fischio verso l’intrico di rami, foglie, fiori.
     Davanti alle rose, la mano destra chiusa a pugno tra le pieghe del vestito chiaro, Silvina fischia un’altra volta, gli occhi affondati a tratti in quelli di Benedetto.
     Nell’aria c’è il profumo del sole.
     D’improvviso, con un brillare bianco-nero-blu si mostra la gazza, a fianco di Silvina, gli occhi tondi di zaffiro affondati anch’essi in quelli di Benedetto.
     Ora Silvina ha allentato la stretta delle dita, mostra qualcosa. Sul palmo luccica un anello.
     «Credo sia per te» dice con voce limpida. «L’ho trovato sepolto tra le radici della rosa gialla. Dentro c’è un nome: Elena. Mi ci ha portato lei» aggiunge indicando la gazza. «Io la chiamo Cielo.»

     Benedetto piange, folgorato dal presente che gli scoppia nel cuore di rabdomante solitario.
     Sublime, imperscrutabile presente!
     È in noi il tempo immobile di chi non vive più. La vita è la chiave per coglierlo e capire. Lei ci spalanca il suo arcano. Persino dove pare negata sta in allerta, pronta a catturarci.
     Le guance gli ardono per il sale delle lacrime.
     Così, Benedetto dice, cercando accordi antichi:
     «Sì, il suo nome è Cielo».

     E lei, Cielo la gazza, ricama in volo cantilene d’oro.

Irene Navarra

Qui di seguito gli altri racconti pubblicati:

Il Bambinello delle Arpie;

Il ritorno;

Tra le labbra livide della notte;

Le rose rosse;






mercoledì 16 novembre 2022

lunedì 14 novembre 2022

Prosa / il gran finale (da "Davvero così").

Amo moltissimo questo racconto  perché mi rappresenza appieno.


Irene Navarra, Il gran finale, Disegno grafico. 2022.

    Prima parte

    Il cielo notturno sfavilla di luminescenze vivaci. Fontane magenta, ditate bronzee, guglie turchine frammiste a enormi crisantemi di un arancio sfacciato, rose purpuree, iris dai pistilli giallo zafferano, sontuose dalie lilla-oro, meteoriti di zolfo e smeraldo, torce di rubini, dardi di topazi si incalzano a scrosci e girandole.
    La notte sembra adirarsi, accecata dalla luce, nemica del suo segreto. La linea dell’orizzonte ora si confonde con l’indaco cupo del mare, ora deflagra in scintille che sfidano le tenebre.
    E poi…, il drago. Eccolo il drago.
    Nell’acqua rischiarata da miriadi di fiaccole affiora il manto delle ali aperte, la cresta arcobaleno. A fauci spalancate nel liquido bollore, inarcando la groppa, dimenando coda e zampe, rovesciando la testa, attende la battaglia.
    Turbinio di colori, crepitii, boati, il sibilo di spade sguainate, la caccia, il cavallo nero e il Cavaliere Morte in carrellata sullo schermo del cielo, nella distesa marina. Per qualche istante sospeso. Finché…

    Un clic fortissimo le esplose nel cervello.
    Il Ferragosto finisce qui! si impose Veronica ammirando i fuochi d’artificio, belli da togliere il fiato. Quest’anno il drago non può morire, rimarcò in tono sostenuto controllando a destra e a sinistra se qualcuno la scrutasse con sospetto per il suo sproloquiare solitario.
    Scarse persone presso il faro, eccelso sopra i tetti della città. Nessuno distolse gli occhi dall’incanto del mare.
    Meglio perdere parte dello spettacolo che veder morire il drago. Clic dunque! decise Veronica. Fine della morte del drago, fine della favola cruenta, fine dei fuochi.
    Un flessuoso movimento dei fianchi, una piroetta, e si allontanò nella notte scarlatta per fugaci fiamme fatue.

    La storia della morte del drago continuava a stregarla. La visione era un simbolo, lo sapeva bene. Aveva contenuto il suo destino sin da quando, a cinque anni, l’aveva suscitata contemplando in visibilio i primi bengala, botti, castagnole, bombe della sua vita – mano nella mano del papà – dal terrazzo della loro nuova casa. Meraviglioso e vero era il drago pronto a combattere il Cavaliere Morte nel mare iridescente. Tanto vero da costringerla a gridare: Lo ammazzano! Non voglio!
    Chi ammazzano, chi? aveva chiesto il padre con un graffio di apprensione nella voce.
Ma il drago, papà! Stanno per ammazzarlo. Corriamo, dai, salviamolo!
    La cosa era stata presa come doveva: fantasia troppo fertile…, una preghierina alla Madonna l’avrebbe aiutata..., la camomilla alla sera l’avrebbe calmata.
    È un soggetto ipersensibile, crede alle favole, nulla di grave, diagnosticò un amico psicologo dopo aver chiacchierato con lei.
    È sana ma impressionabile. Tenetela lontana da quanto potrebbe turbarla: leggende e disegni inquietanti, persone strambe, sentenziò il medico di famiglia che l’aveva visitata dopo l’invenzione di Ferragosto. E dicendo ciò accennava con il capo ad Amelina, la tata, che la segnava con la croce e le infilava l’aglio e l’immaginetta di Gesù dal cuore ardente nella taschina del pigiama.
Veronica, peraltro, da quella sera aveva incominciato a smaniare nel sonno, a blaterare parole sconnesse, a scuotersi come se stesse vivendo esperienze tremende. La mattina, interrogata, raccontava che le ammazzavano il drago e lei lottava perché non succedesse.
Le ammazzavano il drago.
    Ma il drago non è un animale vero! ribatteva perplesso il padre.
    Il drago è come un cane, come un gatto, come una balena, ma più antico. Per timidezza se ne sta rincantucciato nel mare. Solamente i fuochi lo fanno uscire perché gli piacciono. E il Cavaliere Morte ne approfitta e lo uccide, rispondeva sicura Veronica.
    Il padre era piuttosto sgomento. Il cavaliere Morte scaturiva infatti pari pari dall’Apocalisse di Giovanni. Qualcuno doveva avergliene parlato e Veronica con la sua inventiva aveva fatto il resto. Incominciò a indagare. Le chiese se avesse sfogliato dei libri, quali e, senza aspettare un no o un sì di replica, con maldestra noncuranza le buttò là: Ti ha regalato qualcosa Amelina?
    La piccina lo aveva scrutato imbarazzata. Cosa doveva averle mai regalato Amelina, l’amata, anziana, grassoccia e simpatica Amelina che le faceva baciare i piedi piagati del Gesù crocifisso appeso sopra il lettino? che le recitava orazioni strampalate e divertenti all’ora della nanna? Scosse il caschetto castano senza proferire sillaba e il padre si rasserenò. Il drago era una creazione di Veronica, niente di più! Bisognava sdrammatizzare, ignorare, distrarla. Le portò un gattino, un trovatello macilento, leggero come una piuma: il primo (e Primo di nome) di una serie di cani e gatti, merli zoppi e ricci sopravvissuti con qualche acciacco alle traversate di carreggiata.
    Il drago sembrò andarsene, e a lui subentrarono schiere di derelitti in carne e ossa con accompagnamento di uggiolati, miagolii e trilli. La casa, il giardino, la rimessa si riempirono di scatole, recinti, cucce, gabbie senza la minima lagnanza da parte di nessuno.
    Purché non tornasse il drago. 
    Che invece tornava di notte, all’insaputa dei genitori, invadendo i sogni di Veronica, senza però causarle le ansie e i batticuori di una volta, data la netta, festosa vittoria sul Cavaliere Morte. Una sferzata di coda e l’assassino recidivo veniva sbalzato di sella, scagliato ai confini del cielo ed esiliato in un castello d’acciaio, mentre il cavallo, convinto a un pacifico dietrofront, era rispedito, con un’affettuosa pacca d’ala di drago sulle natiche color della pece, ai lucenti pascoli delle nubi, in una profusione di glicine e giallo croco. Con appagamento di Veronica che ridormiva il sonno del sasso.
    A sei anni, la notte di Ferragosto, come le era già successo – per davvero insomma, da sveglia – lei rivide il drago, il Cavaliere, il cavallo, la battaglia e rivisse il dolore della sconfitta, ma si tenne la notizia per sé. A sette anni fu la medesima cosa, identica a otto, a nove…, e avanti uguale: fantasmagorie di giochi pirotecnici nel cielo, un ribollio nel mare, clap clap di zoccoli, una spada traslucida sulla testa dalle squame policrome, la lotta, la morte del drago e la voglia di dormire per ritrovare le sequenze positive del drago vittorioso, tra squilli di trombe annuncianti il suo trionfo e la liberazione del cavallo.

    E questo perdura nel presente di Veronica, ormai ventiseienne, lo stesso caschetto castano, lo stesso piglio volitivo di quand’era bambina. Il fisico modellato con grazia naufraga in maglioni larghissimi e tute di jeans dalle tasche capaci. Cucite sulla stoffa in quantità incredibile, servono da mezzo di trasporto per cuccioli di qualsiasi specie. Così, fino a casa possono stare a loro agio e avere un po’ di ristoro dal suo amorevole corpo.
    Nulla era cambiato dall’infanzia. Tranne un fatto: ora lei salvava veramente il drago, ovvero gli esseri infelici del mondo animale, spendendo ogni sua energia nella clinica veterinaria dell’Università cittadina, dove si era diplomata a pieni voti e dove, giorno dopo giorno, il drago l’accompagnava da amico devoto, soffiandole nell’orecchio il consiglio giusto per aiutare quei figli di un dio minore. Là Veronica portava avanti una guerra santa, con passione inesauribile e il tocco taumaturgico della sua mano, o dell’ala del drago, come preferiva definirla se ripuliva una ferita, oppure riduceva una frattura causata dall’uomo, malvagio e ingrato con i suoi compagni di vita.
    Il drago era il Salvatore, di nome e di fatto: per Veronica che lo seguiva con fiducia illimitata, vista la vocazione di cui era stato messaggero, e per i protetti della giovane che lui sorvegliava bubbolando dalle narici enormi in disparati angoli della clinica. Ovunque ci fosse bisogno di lui, diceva Veronica ai colleghi che sapevano la storia del drago e pensavano scherzasse. Anzi, per celia, sull’architrave delle sale chirurgiche avevano appeso il seguente cartello:
Irene Navarra, Drago 1,
Grafica, 2022.
    CASA DI SALVATORE. Con entusiasmo di Veronica.
    E con soddisfazione di Salvatore.
    Il lavoro in clinica era duro e continuava a coinvolgerla in modo drammatico, malgrado sperasse nell’avverarsi delle parole dei maestri: Alla lunga ci si abitua! Parole, queste, improbabili o, per dire meglio, inattuabili. La zampa del drago, invero, la strattonava per un gomito quando, davanti ai soliti casi atroci, cercava di girare lo sguardo dall’altra parte.
    La richiamava all’ordine.
    E lei si adeguava.
    Di buon grado, se il cuore reggeva. 
    Talvolta però non ne poteva più, e allora scappava dalla città, verso le montagne che la circondavano con la loro cintura a ricami bianco-verdi. Si rifugiava nelle terre del Rio Fortunato, tale perché evitato dall’uomo. Troppo ripide le sponde, troppo impetuose le acque, niente bar e aziende agrituristiche raffazzonate alla bell’e meglio: soltanto natura e canto degli uccelli. Lande selvose indenni da cartacce, lattine, bottiglie di plastica, in cui vagabondava discorrendo tra sé e sé sommessamente per non disturbare le cince baccanone sugli alberi e i fringuelli in cerca di semi tra l’erba.
    Sussurrava al vento come le foglie e si muoveva con l’agilità felpata di un gatto selvatico.     La voce del bosco era la sua stessa voce.
    Là dimenticava brutture e afflizioni.

    Quel giorno, però, si discostò dall’acqua addentrandosi nel bosco per un confuso impulso.
Un confuso impulso.
    E il mattino di giugno pieno di promesse si adombrò mentre le franava addosso l’incubo    di ogni Ferragosto e il drago si inabissava in una palude limacciosa.
    Morendo indicava un punto rosso sangue pieno di dolore.

Il punto rosso sangue
è una creatura legata al palo,
lo sguardo spaurito,
il petto magro ansante per l’arsura.
Oltre il recinto decrepito,
davanti alla bicocca di lamiera e legno tarlato.


    Seconda parte

    Veronica liberò il cucciolo di cane dalle catene e si buttò nel bosco dirigendosi verso il corso d’acqua. Volava Veronica, incurante di sterpi e spine, le pupille dilatate fisse sul fardello che le penzolava tra le braccia.
    La fuga verso la salvezza ridarà forza al drago, salmodiava. Il drago può rinascere e parlare.
    E il drago parla davvero.
    In Veronica si dischiude una porta: ha cinque anni e guarda affascinata i fuochi d’artificio.
    La mano del padre l’ha lasciata, lei galleggia nell’aria. È pura luce. Entro breve lotterà contro il Cavaliere Morte in sella a un cavallo candido dai finimenti intessuti di stelle.
    I Sacri Testi avranno ragione.
    La Profezia, che le riecheggia dentro da tempo immemorabile, si compirà. Lo sa, ora. E va mormorandosela.

Aperto il settimo sigillo,
apparvero sette Angeli
con sette trombe
che si accinsero a suonare.
Il primo, il secondo, il terzo,
il quarto e il quinto Angelo
diedero fiato alle trombe
e ci fu grandine, fuoco, sangue.
Dal cielo cadde nei fiumi
e nel mare la stella Assenzio
e il mare e i fiumi furono amari.
Le locuste dalle code di scorpione
invasero la terra
salendo dal pozzo dell’abisso
per tormentare gli uomini
senza il segno di Dio sulla fronte.
Poi fu la volta del sesto Angelo.
Egli liberò i fratelli
sotto forma di cavalieri
dalle corazze fiammanti
in sella a cavalli dalle code di serpente,
e la terza parte degli uomini fu uccisa.

    Una litania di devozione per lei. Le dona vigore e l’aiuta a comprimere la rabbia in lucidi progetti di vendetta. Formule pronunciate all’unisono con la voce di Salvatore che, scrollando il dorso immane e stendendo le ali di smeraldo, riemerge incollerito dalla putredine del male.

    Veronica ritornava a casa con un altro derelitto. Sarebbe ridiventato un setter irlandese, se fosse riuscita a salvarlo.
    Ti chiamerò Salvo, gli disse aprendo il vano di carico della Uaz leopardata dalla ruggine e attrezzata con morbidi plaid. Povero tesoro, cosa ti hanno fatto! Guarda, Salvatore! È pelle e ossa, non riesce a reggere la testa da tanto è stremato. Maledetti umani! Potessi sbatterli all’inferno. Squartati, sbranati vorrei vederli! Altroché! Nessuna pietà per chi tortura gli animali. Occhio per occhio, dente per dente!
    Chi lega un cane alla catena, muoia di catena! aggiunse gesticolando all’aria, verso un grande olmo.
    Salvatore, accucciato sotto il grande olmo, era molto, molto torvo. La cosa appena scoperta lo faceva soffrire e meditava anche lui la vendetta. Sarebbe stata esemplare. Dovevano capirla gli umani la legge del più forte, o del più intelligente, oppure del più magico. La mettessero come volevano, un rimedio doveva pur esserci. Adesso però bisognava lasciare Veronica in pace. Concederle del tempo da dedicare al nuovo cencio striminzito. Ne era certo d’altronde, il cuore di Veronica poteva dare vita ai sogni, quelli che cambiano il mondo.
    Il loro destino era scritto nell’angolo del cielo riservato ai fratelli minori dell’uomo.
    Luogo che esisteva davvero.
    E lui lo sapeva perché arrivava da lì.

    Veronica versò alcune gocce d’acqua da una borraccia nella bocca della creatura spossata. Il cucciolo deglutì a fatica, la guardò e sorrise come i cani sanno fare, sollevando cioè le labbra verso le orecchie e allungando gli occhi a forma di mandorla. Lo baciò sul muso, lo depose in una cesta dai bordi alti su un suo vecchio maglione, gli rimboccò una coperta attorno per creargli un soffice giaciglio, bloccò il lettino di fortuna con altri contenitori perché non sballottasse troppo, andò alla guida e partì innestando la marcia con furia, in uno sfrigolare di metallo e di pneumatici sollecitati dall’abbrivio.
    Il viaggio di ritorno fu funestato da nuvole minacciose di propositi violenti. Un ritornello le martellava in testa. Non poteva permettere un simile martirio. Aveva l’obbligo di affrontare il male.
    La strada era un nastro plumbeo. L’unica realtà: il respiro affannoso di Salvo in aggiunta al suo, roco e lento. Doveva fermarsi. Si immise in una stradina secondaria e frenò sbandando. Le mani sul volante, la fronte sulle mani, le palpebre serrate, vedeva qualcosa.
    In se stessa questa volta.
    Non attraverso il drago.
    Un rotolo di pergamena antica, riallacciava fili interrotti di memorie che emergevano in messaggi terribili.

Il settimo Angelo diede fiato alla tromba
e si alzarono in cielo grandi voci.
Dicevano: il regno di questo mondo
è delle genti che si sono adirate.
È giunto il momento
di mandare in perdizione
chi manda in perdizione la terra.
Dal cielo aperto
verrà un guerriero
che si dirà giusto e fedele
e ucciderà la bestia
dalle sette teste e dalle dieci corna,
Poi chiamerà uccelli e lupi
a divorare le sue carni. 

    Dopo un tempo eterno Veronica iniziò a staccarsi dalla dimensione astratta in cui fioriva la rivalsa e trionfava la giustizia. Rialzò la testa, si toccò la fronte, gli occhi e, in un altalenare di sussulti percettivi, scivolò nel presente. Un rituale, questo, stracollaudato. All’inizio con paura, in seguito con agio. Senza che nessuno lo sapesse, pena le estenuanti sedute dallo psicologo amico o dal medico di famiglia, orientati a convincerla dell’assurdità della situazione con la boria di chi non sa, non vuol sapere e non capisce. Di conseguenza l’oro del silenzio aveva la meglio sull’argento della parola.
    E lei, Veronica, la strega-bambina, una volta divenuta donna aveva gongolato di ciò.
    Il silenzio è più forte di tutto, diceva agli alberi, al vento, agli amatissimi animali.
    Il silenzio contiene i suoni e le forme impossibili da descrivere. Li serberò per me, fingerò di non aver sentito e visto. Perché io posso raccontare alle pietre ma non a chi ha un buco al posto del cuore, recitava poi convinta tra sé e sé serrando le labbra per non emettere neanche una sillaba.
    Il motto preferito? L’anima tace sempre nelle mie parole. Se l’era inventato e giurato davanti allo specchio, incrociando le dita sulle labbra, dopo l’episodio del drago che aveva scatenato l’inchiesta su di lei. Se l’era rigiurato inoltre, di anno in anno, all’indomani del Ferragosto. Per non ricadere nella voglia di parlare con gli umani. I loro pregiudizi la irritavano. Era necessario sembrare “normali”. Purché non le togliessero le voci che le parlavano e le indicavano la direzione giusta.
    Quindi silenzi, quindi giuramenti a medi incrociati sugli indici, schiacciata contro lo specchio per non farsi udire, con il drago al fianco, affidabile garante della (tacitissima) parola data.
    Le voci e Salvatore erano i suoi ripari alle abiezioni del mondo. Da cui doveva strapparsi per ritornare alla Uaz, a Salvo e all’urgenza della corsa verso l’ambulatorio. All’oro del silenzio controllato.
    Denso di furore, tuttavia.

    Nei giorni seguenti fu occupatissima a curare Salvo che rifioriva e le sorrideva fiducioso, tentando, senza riuscirci, di tirare su le sue quattr’ossa per zampettarle incontro al rientro dal lavoro e dai consueti giri di salvataggio. A breve l’avrebbe fatto perché mangiava con appetito sostanziosi pezzetti di carne e lei, quando lo imboccava, appoggiava il dito sulla sua tenerissima lingua rosa di cucciolo, per farglielo ciucciare, in consolazione dei precoci patimenti.
    Però, mentre accudiva Salvo, lavorava in clinica, mentre sbrigava qualsiasi tipo di faccenda insomma, rifletteva con intensità. Se si interrogava sul da farsi, vedeva il sentiero dal Rio Fortunato al bosco come un nastro di dolore al cui capo c’era un altro essere infelice, ormai esausto. Si odiava perché avrebbe dovuto precipitarsi a liberarelo. Subito avrebbe dovuto farlo. Ma si voltava dall’altra parte sentendosi una vigliacca.
    E Salvatore non aveva il coraggio di strattonarla.
    Salvatore aspettava il suo turno.

    Domenica di fine luglio.
    Veronica andrà di nuovo là.
    L’antica pergamena le si sta srotolando dentro e la guida. Deve stanare e uccidere la bestia dalle sette teste e dalle dieci corna. Deciderà sul posto cosa fare, dopo aver guardato negli occhi la bestia‑aguzzina di Salvo.
    Con sommo disprezzo.
    Dopo averla guardata, lei e il drago la colpiranno.
    Com’è giusto.
    Ciò che avrebbe trovato, lo presentiva al millimetro. L’esperienza gliel’aveva insegnato: molti uomini seviziano i propri fratelli animali per il piacere di farlo. Non c’è un perché. È così e basta.
    Vuoi mettere il gusto di massacrare in modo calcolato una creatura in perfetta letizia e consonanza con le leggi naturali? Vuoi mettere la gioia dell’obbligare all’immobilità chi vive di corse, di balzi, tuffi, scarti, frenate e capriole? Del dare un metro di corda in cambio dell’amore profuso generosamente?
    Amore, sì! I nostri fratelli animali sanno cos’è l’Amore vero. La dedizione assoluta. Ciò di cui molti uomini non saranno mai capaci! rifletteva Veronica percorrendo il sentiero noto.
In prossimità del luogo si fece accorta. Temeva di trovarsi faccia a faccia con la bestia senza aver avuto il modo di studiarne di nascosto le fattezze, i gesti, di capire di che pasta fosse fatta. Per la prima volta da che frequentava il territorio del Rio Fortunato non sentiva il chiacchiericcio degli uccelli e il brusire degli alberi.
    Persino il fiume frenava l’impeto.

    L’incontro fu sconvolgente.
    La vide arrivando di soppiatto tra i cespugli fitti intorno alla bicocca.
    Era una donna bella e giovane. Una bestia-donna dai capelli ramati vestita di garze porporine. Una zingara dai numerosi gioielli tintinnanti al collo, ai polsi, alle caviglie. Si dimenava seguendo una musica interiore che le corrompeva il viso. I piedi nudi battevano il terreno. Le braccia volteggiavano come vele impazzite. In disparte, un meticcio grigio era riverso a terra, quasi strozzato dalla catena corta che lo teneva legato a un palo.
    Sembrava morto.
    E lei danzava ridendo, contro un fondale di lamiere ruggini e cumuli di spazzatura.
    Scoprirla donna fu uno schiaffo per Veronica. Non l’aveva previsto. Nelle sue fantasie c’erano stati e c’erano i malvagi, ma sempre maschi. Rudi, crudeli, sadici e maschi. Le donne no. Non torturavano gli inermi. Le donne portavano dentro il grembo i figli, li mettevano al mondo assistendosi a vicenda, soccorrevano gli animali femmine nel parto. Le donne sapevano amare con abnegazione. Fin dall’origine dei tempi. Gli uomini, invece, fanno le guerre, uccidono, stuprano, tormentano. Le donne no. Le donne subiscono.
    Eppure, davanti a lei, la bestia-donna danzava, indifferente a chi stava morendo.
    A un tratto l’esserino mosse la testa verso un piatto di latta contenente dell’acqua torbida.     Non l’aveva alla portata, non avrebbe mai potuto leccarne nemmeno una goccia, ma la bestia con un calcio la disperse e il silenzio annotò un rumore aggiunto alla sua risata: il frrr del liquido che alimentava l’aria di vapore. La risata sgangherata e il frrr con la sua eco contrappuntarono la riluttanza della natura.
    Al doppio rumore si aggiunse il battito del cuore di Veronica che si slacciò da lei crescendo nel sottobosco, nello spiazzo ingombro di rifiuti davanti al posto malaugurato.
    Creò un strepito di battaglia, tetro, tumultuante.
    Scostare con le mani l’intrico di rovi impenetrabili ferendosi senza badarci, anestetizzata dalla collera, irrompere sulla lurida radura e caricare impavida, incarnata nella Clorinda del mito – lancia in resta, corazza scintillante – fu simultaneo e luttuoso.

    Veronica è un grumo d’ira, è energia pronta a conflagrare, una macchina micidiale armata per colpire la bestia che la guarda piombarle addosso con occhi dilatati ma privi di timore, come se sapesse.
    La guarda come se sapesse.
    D’improvviso, nel cristallo del cielo avviene qualcosa di devastante e stupendo che vince i sensi di Veronica, trattenendone l’assalto.
    Le particelle d’acqua bevono i raggi luminosi del giorno pieno, li filtrano e riverberano all’istante con le scie opalescenti di un pianto cosmico. Lo stesso del mare per i fuochi pirotecnici di Ferragosto. Non ci sono i fiori giganteschi, le torce colossali, le corone di faville contro la volta: immenso scenario alla lotta esiziale per il drago. Quanto sta vivendo ha il sentore buono del sogno di ogni notte perché le lucciole di luce sembrano aggiungere al sole un altro sole, in presagio propizio.
    Veronica contempla le stille diamantate. Poi abbassa gli occhi. La bestia appare circonfusa da cateratte di grafite che ribollono artigliandola con dita rapaci, travolgendone la chioma fulva, la bocca sconcia. Per lei nascono e montano nubi burrascose, vortici sgroppano in impennate, crisalidi astrali rigurgitano magma incandescente.
    Veronica intuisce.
 
Irene Navarra, Drago 2,
Grafica 2022.
    È il momento.
    La condanna con sguardo d’ortica e di fiele.
    Infine
    lentissima
    si scosta lasciando che arrivi il drago.

    E mentre Veronica raccoglieva la creatura esanime,
il drago si avventava sulla preda
dai monili d’oro e perle.


    Poi gli uccelli e i lupi fecero il resto.