Andrea del Sarto, La Madonna delle Arpie, 1517, Uffizi - Firenze. |
La cassetta della posta straripava. Alcune buste erano cadute a terra e portavano l'impronta sporca di varie scarpe. Nessuno dei coinquilini le aveva raccolte. Anzi! Chiara riusciva senza sforzo a immaginarne le facce schifate. Si vedeva la signora Cusmani biascicare tra sé e sé: Lettere per terra? Saranno senz'altro della pazza dell'attico. Uhm..., insozziamole per benino.
Fanculo! mugugnò Chiara.
Raccattò carte imbrattate e carte immacolate, le ficcò nella borsa e incominciò a salire le scale, rimuginando sui motivi di quell’atteggiamento. Eh sì, doveva ammetterlo: non ritirava la posta con regolarità. Se ne dimenticava per giorni. Dipendeva dagli impegni, dalle storie in cui era coinvolta. Il rapporto con Matteo l’aveva assorbita molto.
Ma faceva del male forse?
Rari rientri a tarda notte, un paio di piroette per sgranchirsi le gambe dopo ore e ore di lavoro a tavolino o al cavalletto, quattro cene tra amici…, doveva respirare, insomma! Se volevano la guerra, gliel’avrebbe dichiarata ben volentieri a quei rompicoglioni! Figuriamoci se avessero dovuto sorbirsi qualcuna delle sue scapigliate mattane! Allora sì, che avrebbero avuto ragione di lagnarsi.
Là, comunque, non era mai capitato.
Eppure ci abitava da un po’.
Erano in verità già passati sette mesi da quando il padre l’aveva trascinata a quell’appartamento in vendita in Via degli Olmi. Sapeva del desiderio di Chiara di vivere da sola e l’aveva accettato. Sembrava proprio la casa giusta per lei: un locale mansardato pieno di luce per due ampi lucernari e grandi vetrate sul parco della neoclassica Villa Ritter. Uno studio d’artista, non un alloggio tradizionale. Adatto a lei. Questo si comunicarono con un’occhiata eloquente al termine della visita.
Poco dopo Chiara si era trasferita in Via degli Olmi con l’ingombrante bagaglio da pittrice e il minimo indispensabile di elementi d’arredo.
Delimitata la zona notte con paraventi in midollino e bacchette di sambuco, srotolati sul pavimento dei tatami di paglia di riso e un futon, aveva affrescato il soffitto spiovente in diverse nuance di azzurro. A linee curve, come di flutti in corsa verso un sottile orizzonte turchese.
Quel mare astratto era il fantastico spazio in cui rifugiarsi nei momenti di disagio o di stanchezza.
Lasciando filtrare tra le ciglia il suo speciale cielo-mare, si librava leggera.
Chiara entrò in casa davvero stizzita. Si sbarazzò subito delle scarpe e della borsa con un lancio alla cieca e si coricò sul futon – le lettere, le fatture, gli inviti sparsi a terra –. Intrecciò le mani sotto la testa, socchiuse gli occhi, si fece di cielo e di mare.
Cielo e mare sopra di lei.
Onde mutevoli sfumano in giochi languidi.
Chiara segue il loro snodarsi.
Nella caverna buia del sonno si accendono delle parvenze. A tratti spessi di sostanza alabastrina. Sono occhi quei baleni, sono guizzi di mani e di piedi minuscoli. Lampeggiano e spariscono. Finché la sensazione di dita sul viso la trae a forza dall’incoscienza, le guance calde per un’inspiegabile emozione.
Aveva sognato un bimbo.
Era il bimbo visto agli Uffizi neanche un mese prima. Da allora si sentiva diversa.
Rammentava di essersi incantata davanti alla Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto. Le era parso singolare quel titolo inciso sulla targhetta d’ottone accanto al dipinto, che non era un ricordo di Liceo o di Accademia. Ne era sicura. Da quando la faccia del Cristo infante in braccio alla Madre aveva polarizzato la sua attenzione, in lei si era guastato qualcosa. Le si era inceppato l’ingranaggio della serenità. E i dettagli ritornavano con precisione millimetrica. La veste policroma di Maria, il corpo seminudo del figlio, l’oscurità smaltata della nicchia, i Santi e gli Angeli sullo sfondo, i volti, il concentrarsi dei gesti in fulcri prospettici, ogni particolare le riappariva.
E il bambino la perseguitava con lo splendore sovrumano degli occhi e il candido incarnato.
La perseguitava notte dopo notte.
Adesso però sapeva!
Era il Bambinello delle Arpie, l’esserino del sogno. Poteva cercare di capirne il senso, decise Chiara passandosi una mano sul volto. Volle alzarsi ma la stanza le vorticò attorno. Ricadde e chiuse gli occhi sul mondo oscillante.
Un sopore greve la invase.
Al risveglio, nello sfolgorio del tardo mattino, Chiara balzò subito in piedi e si mise al lavoro, tentando di ignorare una persistente nausea. Esaminò i bozzetti di una serie di acquerelli paesaggistici commissionati dalla Galleria Corsini, li giudicò buoni e decise che era giunto il momento di iniziarne la realizzazione sui grandi fogli di carta di seta preparati per accoglierli.
Questo nelle intenzioni.
In realtà, invece, prese il blocco degli schizzi e iniziò a tracciarvi disegni astrusi con la matita sanguigna. Non di cespugli, fiori, rovine, laghetti tra ortensie e azalee, muri scrostati ed edere, finestre spalancate su cascate di petunie, ma di mani gracili e adunche, braccia ossute, schiene distorte, costati scheletrici, spallucce aguzze, guance smunte, occhiaie enormi.
Occhiaie come voragini che la inghiottivano.
Lasciò cadere la matita.
Cosa significava quell’impotenza?
Aveva già organizzato tutto.
Sul tavolo aspettavano i bicchieri per l’acqua, le vaschette di ceramica, i pennelli vecchi e nuovi, i godet selezionati per tinte. Il progetto era sotto i suoi occhi. In bella vista su un leggio antico, dono della madre.
1° acquerello: Villa Ritter e il parco.
Colori da usare: rosso indiano, garanza rosa d’alizarina, garanza bruna d’alizarina, terra di Siena naturale e bruciata, verde vescica, blu cobalto, grigio di Payne, ocra gialla, giallo di cadmio.
Un sistema pedante ma collaudato. Se l’era imposto per darsi un ordine. Salvo poi derogarvi sul filo di un estro fulmineo. Perché l’arte, spiegava Chiara, nasce se con un sussulto, travalica i confini di una pignoleria smodata. Sta nel sollievo dell’ispirazione che si libera.
La commissione firmata da Corsini: … dodici acquerelli a soggetto paesaggistico…, era da qualche parte sotto scatole e oggetti disparati, rassicurante e vera. L’occasione della vita, non se la sarebbe sciupata. Il grande gallerista, non la vorrà una seconda volta. Lo conosceva: o ci sei lì per lì, o ti trovi escluso.
E allora, cosa le capitava? Come mai era capace di creare solo mostruose alterazioni del Bambinello celeste? Dove si era eclissata la sua spensieratezza? E l’energia che l’aveva salvata dallo sconforto nelle situazioni più critiche?
Si chiude la testa tra le mani e incomincia a piangere. Un dolore acuto le migra dal petto verso il ventre, vi si annida. Pulsazioni intense la fanno piegare su se stessa. Le gambe non la reggono. Crolla sulle ginocchia e si raggomitola, le mani incuneate nel ventre, a scavarlo.
Poi scivola nel nulla.
Il ritorno alla coscienza è nel livore al neon di una camera d’ospedale. Accanto a lei, il padre. Lo interroga con un cenno. Hai avuto un aborto spontaneo, le racconta piano. Ti ho trovata stamattina, verso le undici. Per un presentimento mi ero precipitato a casa tua. Ho bussato e ribussato alla porta senza ricevere risposta. Dieci minuti di panico. Dovevi esserci, me l’avevi assicurato, non saresti uscita. Eri carica di lavoro. Spaventato dal silenzio, ho pregato il custode di aprire con la sua chiave. Siamo arrivati appena in tempo. I medici hanno bloccato l’emorragia. Riposa adesso, tesoro.
Chiara ha l’impressione di contrarsi in un nodo. Infetto. Sotto la sferza della disperazione mugola e lo colpisce, quel nodo nel grembo sfiorito.
E l’intelligenza di quanto è stato si fa delirio. Suo figlio aveva reclamato la vita e lei gliel’aveva rifiutata. Matteo era fuggito. Inseguiva le sue, di chimere, lui. Oltreoceano, con numeri e cifre, master in economia e stage in prestigiose aziende.
Traguardi magnifici!
Ma non per lei.
Lei voleva una famiglia, dei figli, amare ed essere amata. Confessandolo a Matteo, aveva compreso subito l’errore. Terreo, indurito nella voce, le aveva detto di non molestarlo. Lui aveva altro per la testa. Cose molto importanti. Il futuro. Senza di lei.
Lo afferrava?
Senza di te! aveva urlato.
L’ultimo colloquio con Matteo.
Circa un mese e mezzo fa, realizza Chiara.
Lo aveva terrorizzato.
E costretto a scappare.
Quanto male si era fatta nei giorni successivi passati a macerarsi! Tanto da uccidere suo figlio. Da negargli la vita appena abbozzata.
Chiusa in stupide banalità, non si accorgeva di essere al centro di un prodigio. E suo figlio, un tenero germoglio sano, era morto di ottusa indifferenza.
Di ottusa indifferenza.
Impossibile ricorrere al riparo ormai inospitale del cuore. Pareva pompare acido al posto del sangue.
Che senso aveva respirare ancora?
Doveva morire.
Di una morte in dedica alla creatura che l’aveva chiamata da distanze incommensurabili.
Forte di quella scelta, si volge al padre.
Rari rientri a tarda notte, un paio di piroette per sgranchirsi le gambe dopo ore e ore di lavoro a tavolino o al cavalletto, quattro cene tra amici…, doveva respirare, insomma! Se volevano la guerra, gliel’avrebbe dichiarata ben volentieri a quei rompicoglioni! Figuriamoci se avessero dovuto sorbirsi qualcuna delle sue scapigliate mattane! Allora sì, che avrebbero avuto ragione di lagnarsi.
Là, comunque, non era mai capitato.
Eppure ci abitava da un po’.
Erano in verità già passati sette mesi da quando il padre l’aveva trascinata a quell’appartamento in vendita in Via degli Olmi. Sapeva del desiderio di Chiara di vivere da sola e l’aveva accettato. Sembrava proprio la casa giusta per lei: un locale mansardato pieno di luce per due ampi lucernari e grandi vetrate sul parco della neoclassica Villa Ritter. Uno studio d’artista, non un alloggio tradizionale. Adatto a lei. Questo si comunicarono con un’occhiata eloquente al termine della visita.
Poco dopo Chiara si era trasferita in Via degli Olmi con l’ingombrante bagaglio da pittrice e il minimo indispensabile di elementi d’arredo.
Delimitata la zona notte con paraventi in midollino e bacchette di sambuco, srotolati sul pavimento dei tatami di paglia di riso e un futon, aveva affrescato il soffitto spiovente in diverse nuance di azzurro. A linee curve, come di flutti in corsa verso un sottile orizzonte turchese.
Quel mare astratto era il fantastico spazio in cui rifugiarsi nei momenti di disagio o di stanchezza.
Lasciando filtrare tra le ciglia il suo speciale cielo-mare, si librava leggera.
Chiara entrò in casa davvero stizzita. Si sbarazzò subito delle scarpe e della borsa con un lancio alla cieca e si coricò sul futon – le lettere, le fatture, gli inviti sparsi a terra –. Intrecciò le mani sotto la testa, socchiuse gli occhi, si fece di cielo e di mare.
Cielo e mare sopra di lei.
Onde mutevoli sfumano in giochi languidi.
Chiara segue il loro snodarsi.
Nella caverna buia del sonno si accendono delle parvenze. A tratti spessi di sostanza alabastrina. Sono occhi quei baleni, sono guizzi di mani e di piedi minuscoli. Lampeggiano e spariscono. Finché la sensazione di dita sul viso la trae a forza dall’incoscienza, le guance calde per un’inspiegabile emozione.
Aveva sognato un bimbo.
Era il bimbo visto agli Uffizi neanche un mese prima. Da allora si sentiva diversa.
Rammentava di essersi incantata davanti alla Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto. Le era parso singolare quel titolo inciso sulla targhetta d’ottone accanto al dipinto, che non era un ricordo di Liceo o di Accademia. Ne era sicura. Da quando la faccia del Cristo infante in braccio alla Madre aveva polarizzato la sua attenzione, in lei si era guastato qualcosa. Le si era inceppato l’ingranaggio della serenità. E i dettagli ritornavano con precisione millimetrica. La veste policroma di Maria, il corpo seminudo del figlio, l’oscurità smaltata della nicchia, i Santi e gli Angeli sullo sfondo, i volti, il concentrarsi dei gesti in fulcri prospettici, ogni particolare le riappariva.
E il bambino la perseguitava con lo splendore sovrumano degli occhi e il candido incarnato.
La perseguitava notte dopo notte.
Adesso però sapeva!
Era il Bambinello delle Arpie, l’esserino del sogno. Poteva cercare di capirne il senso, decise Chiara passandosi una mano sul volto. Volle alzarsi ma la stanza le vorticò attorno. Ricadde e chiuse gli occhi sul mondo oscillante.
Un sopore greve la invase.
Al risveglio, nello sfolgorio del tardo mattino, Chiara balzò subito in piedi e si mise al lavoro, tentando di ignorare una persistente nausea. Esaminò i bozzetti di una serie di acquerelli paesaggistici commissionati dalla Galleria Corsini, li giudicò buoni e decise che era giunto il momento di iniziarne la realizzazione sui grandi fogli di carta di seta preparati per accoglierli.
Questo nelle intenzioni.
In realtà, invece, prese il blocco degli schizzi e iniziò a tracciarvi disegni astrusi con la matita sanguigna. Non di cespugli, fiori, rovine, laghetti tra ortensie e azalee, muri scrostati ed edere, finestre spalancate su cascate di petunie, ma di mani gracili e adunche, braccia ossute, schiene distorte, costati scheletrici, spallucce aguzze, guance smunte, occhiaie enormi.
Occhiaie come voragini che la inghiottivano.
Lasciò cadere la matita.
Cosa significava quell’impotenza?
Aveva già organizzato tutto.
Sul tavolo aspettavano i bicchieri per l’acqua, le vaschette di ceramica, i pennelli vecchi e nuovi, i godet selezionati per tinte. Il progetto era sotto i suoi occhi. In bella vista su un leggio antico, dono della madre.
1° acquerello: Villa Ritter e il parco.
Colori da usare: rosso indiano, garanza rosa d’alizarina, garanza bruna d’alizarina, terra di Siena naturale e bruciata, verde vescica, blu cobalto, grigio di Payne, ocra gialla, giallo di cadmio.
Un sistema pedante ma collaudato. Se l’era imposto per darsi un ordine. Salvo poi derogarvi sul filo di un estro fulmineo. Perché l’arte, spiegava Chiara, nasce se con un sussulto, travalica i confini di una pignoleria smodata. Sta nel sollievo dell’ispirazione che si libera.
La commissione firmata da Corsini: … dodici acquerelli a soggetto paesaggistico…, era da qualche parte sotto scatole e oggetti disparati, rassicurante e vera. L’occasione della vita, non se la sarebbe sciupata. Il grande gallerista, non la vorrà una seconda volta. Lo conosceva: o ci sei lì per lì, o ti trovi escluso.
E allora, cosa le capitava? Come mai era capace di creare solo mostruose alterazioni del Bambinello celeste? Dove si era eclissata la sua spensieratezza? E l’energia che l’aveva salvata dallo sconforto nelle situazioni più critiche?
Si chiude la testa tra le mani e incomincia a piangere. Un dolore acuto le migra dal petto verso il ventre, vi si annida. Pulsazioni intense la fanno piegare su se stessa. Le gambe non la reggono. Crolla sulle ginocchia e si raggomitola, le mani incuneate nel ventre, a scavarlo.
Poi scivola nel nulla.
Il ritorno alla coscienza è nel livore al neon di una camera d’ospedale. Accanto a lei, il padre. Lo interroga con un cenno. Hai avuto un aborto spontaneo, le racconta piano. Ti ho trovata stamattina, verso le undici. Per un presentimento mi ero precipitato a casa tua. Ho bussato e ribussato alla porta senza ricevere risposta. Dieci minuti di panico. Dovevi esserci, me l’avevi assicurato, non saresti uscita. Eri carica di lavoro. Spaventato dal silenzio, ho pregato il custode di aprire con la sua chiave. Siamo arrivati appena in tempo. I medici hanno bloccato l’emorragia. Riposa adesso, tesoro.
Chiara ha l’impressione di contrarsi in un nodo. Infetto. Sotto la sferza della disperazione mugola e lo colpisce, quel nodo nel grembo sfiorito.
E l’intelligenza di quanto è stato si fa delirio. Suo figlio aveva reclamato la vita e lei gliel’aveva rifiutata. Matteo era fuggito. Inseguiva le sue, di chimere, lui. Oltreoceano, con numeri e cifre, master in economia e stage in prestigiose aziende.
Traguardi magnifici!
Ma non per lei.
Lei voleva una famiglia, dei figli, amare ed essere amata. Confessandolo a Matteo, aveva compreso subito l’errore. Terreo, indurito nella voce, le aveva detto di non molestarlo. Lui aveva altro per la testa. Cose molto importanti. Il futuro. Senza di lei.
Lo afferrava?
Senza di te! aveva urlato.
L’ultimo colloquio con Matteo.
Circa un mese e mezzo fa, realizza Chiara.
Lo aveva terrorizzato.
E costretto a scappare.
Quanto male si era fatta nei giorni successivi passati a macerarsi! Tanto da uccidere suo figlio. Da negargli la vita appena abbozzata.
Chiusa in stupide banalità, non si accorgeva di essere al centro di un prodigio. E suo figlio, un tenero germoglio sano, era morto di ottusa indifferenza.
Di ottusa indifferenza.
Impossibile ricorrere al riparo ormai inospitale del cuore. Pareva pompare acido al posto del sangue.
Che senso aveva respirare ancora?
Doveva morire.
Di una morte in dedica alla creatura che l’aveva chiamata da distanze incommensurabili.
Forte di quella scelta, si volge al padre.
E vede la pena degli occhi un tempo cerulei, sbiancati laghi di ghiacciaio adesso. Considera la sua tristezza dalla scomparsa della mamma, ma contenuta per non turbare lei, Chiara, unico affetto rimastogli. In lui parla l’Amore. Malgrado le ferite. Mai un’espressione indocile. Solo le mani, spesso premute giù nelle tasche o chiuse a pugno dietro la schiena, denunciano un’inquietudine rodente.
Può ignorarlo come ha ignorato suo figlio?
Può ignorarlo come ha ignorato suo figlio?
Tocca a lei sciogliere il cappio di quel patire.
Così, si legò alla speranza del padre, la inalò per cercarne il profumo, se la fece rotolare dentro con i colori della sua tavolozza, diede forma a un sorriso e disse:
Così, si legò alla speranza del padre, la inalò per cercarne il profumo, se la fece rotolare dentro con i colori della sua tavolozza, diede forma a un sorriso e disse:
Non avere paura, papà, continuerò a vivere.
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