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mercoledì 5 aprile 2023

Prosa / Racconto: Davide ha pagato (da "Davvero così").

 

Fotografia di Pexels da Pixabay.


     Era il più bello del gruppo.
     Zazzera castano dorato perennemente scomposta, grandi occhi verde giada, risata generosa, corporatura snella ma forte.
     Lo si guardava incantati.
     Gli avresti offerto tua sorella pur di essere suo amico.
     Quando Davide era nei paraggi non esisteva nessun altro e nient’altro, dicevano le ragazze che gli si strusciavano addosso come gatte in calore. Smaniose di toccarlo, e di essere invitate sulla Golden Argosy: la barca a vela di famiglia dove viveva d’abitudine.
     Solo in quel ketch di quindici metri attrezzato per la navigazione in solitario – ci fosse un caldo infernale, pioggia, vento furioso o freddo polare – assaporava il fluire dei giorni. E a chi cercava di convincerlo ad allontanarsene per un qualsiasi motivo sciorinava il suo mantra di benessere psicofisico zeppo di precisazioni atmosferiche, aggiungendo categorico: Qui sto bene.
     Qui sto bene, l’aveva addirittura scritto su una striscia di stoffa che aveva appeso all’albero di maestra. Un drappo bianco dai caratteri neri in cui stava comoda la sua adolescenza viziata. Del resto, lui, in barca ci era quasi nato. La madre, infatti, vi si era trattenuta fino a poco prima di darlo alla luce. Voleva godersi lo sciabordio del mare sulle fiancate della Golden Argosy. Giova al bambino! rispondeva risoluta al marito, meno temerario, che la esortava alla prudenza. A lui piace questa musica, lo culla, lo fa addormentare, così dormo anch’io e lo sogno come un delfino che cavalca i flutti.
     E si assopivano beati, lei e il delfino nuotante nel suo privatissimo mare amniotico.
     Nell’ultimo mese di gravidanza non lasciò mai la barca. E c’era un motivo, sospettavano i parenti: si sarebbe sgravata in mare, tra le onde che lambivano la spiaggia su cui aveva giocato da piccolissima. In effetti, a dieci giorni dalla data fatidica, ammise le sue intenzioni. In mare! imperversò. Nascerà in mare. Voglio sentire il suoprimo vagito in mare.
     Gli amici la definivano matta ma simpatica, solare. Il nome di Allegra, poi, le si addiceva proprio, e quelli colti chiosavano: Nomen omen. Ovvero: il carattere sta già nel nome. Specie se, come lei usava, era gridato ai quattro venti con un’intonazione tale da scuotere le pietre. E per quel costitutivo pizzico di follia che le inibiva ogni senso di responsabilità, l’avevano obbligata ad andare in ospedale. Se fosse successo qualcosa alla creatura, se la sarebbe vista brutta, minacciava il marito.
     Quando le doglie si erano presentate, Allegra, messa sotto pressione, aveva accettato. Per non dover sopportare ulteriori tiritere lagnose. Ne aveva sentite troppe da gestante.
     Malinconica durante il travaglio, affranta nel parto, si era rianimata in un baleno con il suo maschietto tra le braccia. E si capiva al volo quanto le frullava per la testa: Davide, futuro compagno di capriole marine, sarebbe cresciuto con lei sulla barca e non in una casa.

     Fino ai sei anni Davide non aveva conosciuto la sensazione della stabilità sotto i piedi. Se la casa non rollava e beccheggiava, non era una casa. Perciò: feste di compleanno, Natale con miniabete adorno di gingilli di vetro, Pasqua con ricerca di conigli e uova di cioccolato, la cena di San Silvestro…, tutto in barca. Si era abituato, insomma, a tenersi in equilibrio su un mondo mobile mentre la madre gli aleggiava attorno, protettiva e innamorata persa di lui, Bello come un angelo.
     Allegra era cieca. Il sentimento morboso che la legava a Davide le impediva di vedere quanto il figlio si stesse deteriorando sotto la patina perfetta, per la sua eccessiva dedizione. Non era malvagio, era egoista.
     E al massimo.
     Davide era un campione di egoismo. Lo sostenevano i coetanei senza le fette di prosciutto sugli occhi.
     Il primo dolore? La scuola.
     Per la scuola furono costretti a ritornare nel loro appartamento di città, all’attico di una palazzina vecchiotta ed elegante, immersa nel verde ma, purtroppo, lontana dal mare. Là, durante la settimana, madre e figlio potevano semmai fantasticare. Appoggiati alla balaustra del balcone, tramutavano le chiome degli alberi in onde azzurre, indaco, blu con iridescenze d’oro, viola o argento, a seconda delle giornate. Tenevano duro. Fino al venerdì pomeriggio quando, raccolti gli effetti personali, si dirigevano alla darsena dove avrebbero respirato a pieni polmoni negli aromi salsi della Golden Argosy. Il padre, Andrea, li raggiungeva la domenica e se ne ripartiva presto, per i mille oneri di lavoro e di politica. Ingegnere, assessore ai lavori pubblici nella giunta regionale, viveva la sua vita. Come Davide e Allegra d’altronde, pur nel rispetto reciproco. Suppergiù la normalità, questa, per le famiglie dello stesso livello sociale. Anzi, Allegra e Andrea apparivano una coppia affiatata, almeno agli occhi dei conoscenti separati da poco; o degli altri, assai numerosi, che erano divorziati da un pezzo; oppure di chi trascinava il matrimonio tra sotterfugi e tradimenti. Nessuno squilibrio nella loro confortevole routine. Niente fratture nei rapporti sempre cortesi. Allegra, Andrea e Davide si amavano in una maniera molto, molto individualista, con qualche nube e troppa frivolezza.

     Diciamo al punto corrente della storia che ci vuole una coscienza, un’evoluzione che sia di preferenza un dramma, un epilogo che sia magari frutto di una catastrofe.
     Io sono Damiano: diciassette anni, compagno di classe di Davide. Invidioso marcio di lui. In questo caso sono la coscienza, l’intelligenza del dramma, sono il motore dell’evoluzione, e l’epilogo.
     Io sono l’epilogo di Davide.
     Devo spiegare.
     Dico sono perché mi piace ipotizzare una trama già ordita. Ergo, rettifico: io sarò l’epilogo di Davide.
     Per ora rimango il suo migliore amico.
     Sì, sin dall’infanzia.
     Ricordo della prima elementare (interpretato con il senno di adesso): dopo un paio di mesi di malumore Davide si accorge di me. Il tedio che lo affligge, evidente negli angoli della bocca all’ingiù, cede il posto alla…, mi piacerebbe dire gioia però non posso. È più azzeccata la parola eccitazione. Ossia: scopre in me (Damiano, il ragazzo così pallido da sembrare uno del sottosuolo) delle qualità ehm... lodevoli.
     Perciò mi sceglie.
     Sceglie me!
     Io, Damiano il fantasma, ne divento lo zerbino e – racconto mentendo per far schiattare gli altri – il confidente, il consolatore. Ruoli, questi, che lui non mi prospetta nemmeno.
     Lui è un Dio e io sono uno schiavo naturale.
     Sguscio in silenzio dappertutto e mi comporto in modo da non far notare la mia presenza.
     Sono grigio.
     O meglio: sono stinto.
     Come i miei jeans e le mie magliette straccione.
     Non esisto, in definitiva.
     Per questo gli piaccio.
     Lo scatto senza scia è la mia specialità. Negli anni del liceo mi riduco a diventare anche il suo filippino, purché mi inviti sulla Golden.
     Io mi accontento.
     I compagni hanno smesso di domandarmi i motivi della mia assoluta dipendenza. Credono di averlo capito. L’ho trovato scritto sulla parete di destra del bagno dei maschi, a lettere enormi:
     DAMIANO AMA DAVIDE.
     E sotto:
     DAMIANO È UNA CHECCA.
     Che lo credano!
     A me non me ne importa un fico secco.
     Mi considerano una checca? Me ne impipo, me ne frego, me ne sbatto.
     Per me è preferibile essere una checca che niente.
     Una checca perspicace, comunque.
     Si strafoghino pure con la lercia denuncia della mia frocitudine. Io nel frattempo mi preparo, studio l’ambaradàn generale e sto vicino ad Allegra che sembra un’attrice del cinema. Chic e falsa magra, gentile con me perché (lo dice lei) adoro Davide.
     Di frequente dormo in barca.
     Se Allegra preferisce rimanere a casa – ormai il delfino è cresciuto, l’autonomia gli giova al carattere! – si baccana proprio là tra ragazzi. Poi, a fine baldoria, io raccolgo le scorie, ripulisco la scena da reperti compromettenti e mi fiondo in cuccetta. Vicino a lui che ronfa già da un pezzo per cause artificiali.
     Allegra non lo sa e non lo deve sapere. Davide si fa di brutto.
     Le prime dosi gliele ho procurate io.
     Io non mi faccio.
     Io spaccio.
     Esclusivamente a lui.

     Sabato.
     Stasera, festa sulla Golden Argosy. La solita festa con gli apparati giusti.
     Io non ci sarò.
     Dico a Davide: Mio padre è ammalato grave, la mamma copre il turno di notte al cotonificio, i fratelli sono per i cavolacci loro, io devo sacrificarmi e assistere il vecchio.
     Lui frigna: Chi si occuperà dei rifiuti? Chi…?
     Gli ficco in mano le cartine ripiegate in quattro.
     Siamo sotto le scritte DAMIANO AMA DAVIDE, DAMIANO È UNA CHECCA. Se le caccia furtivamente nel taschino della sua magnifica giacca biker Saint Laurent di nappa nera, mi passa il denaro pattuito per la merce ma non l’abituale aggiunta. Si gira e se ne va senza un saluto.
     Offeso a morte.
     Ok! Sono sollevato.
     Saltello avanti e indietro per il corridoio del bagno fingendo di strimpellare un’immaginaria chitarra.
     Strimpello e canticchio Ozzy Osbourne:
     Your time is coming / Your soul is burning / Your future’s fading / I can’t save you.
     Eh, sì! Non posso salvarti.

     Le tre di domenica mattina.
     Il gruppo – tranne Davide – si è trascinato fuori mezz’ora fa in uno sballo totale. Esco da sotto il telone di copertura della barca accanto alla Golden, guadagno il molo con un salto. Ho protezioni di lattice sulle mani e sui piedi. Le scarpe da ginnastica le ho infilate nello zaino. Due passi felpati lungo la passerella della Golden e sono nel pozzetto. Mi intrufolo sottocoperta e dalla dinette nella cabina di Davide. È disteso di schiena, come un pupazzo floscio, il braccio destro sul ventre, l’altro lungo il fianco, la luna gli illumina il profilo filtrando di sghembo da uno degli oblò. Ispeziono in giro: c’è un caotico ingombro di bottiglie lattine piatti sporchi, abbondano le tracce di spinelli e polvere bianca. Mi concentro soddisfatto su Davide. Levo dalla tasca dei jeans una lametta, la scarto e getto l’involucro a caso dopo avervi impresso le sue impronte digitali, gli prendo il polso destro, lo ruoto dalla parte interna, incido di netto le vene, lo sistemo sul petto. Il sangue impregna rapido la polo chiara. Sollevo il sinistro, lo incido secondo un’angolatura calibrata al millimetro in prove e controprove, lo faccio scendere con cautela verso il basso. Personalizzo la lametta stringendola tra i polpastrelli di Davide e la poso sotto il filo rosso che cola regolare in una chiazza vischiosa.
     Un’ultima occhiata a quel ritaglio ormai insignificante della mia vita, e via. Ombra torbida nella foschia dell’alba mi affretto verso il letto di mio padre con la bronchite e una buona dose di sonnifero in corpo. Mi gusterò il riscatto ascoltandolo russare.

     L’indomani a scuola.
     Damiano, hai letto il giornale? Nella pagina della cronaca c’è la foto di Davide! L’hanno trovato morto, con i polsi tagliati. Si è suicidato! Perché? Aveva tutto!
     Abbasso la testa, stroncato, le lacrime sgorgano copiose, butto fuori parole monche, tra singhiozzi irrefrenabili: Oh Dio, cos’ha fatto? E io, cos’ho fatto io…! Aveva tutto ma non aveva me…!
     La sorpresa raggela i compagni.
     Faccio una pausa, li scruto di sottecchi e ripeto, aumentando il tono: Aveva tutto, ma non aveva me…, mi amava, mi amava da pazzi, maledetto me…, l’ho respinto.

     Davide ha finalmente pagato.
     Ecco, adesso posso dire SONO: SONO l’intelligenza del dramma, SONO il motore dell’evoluzione, SONO l’epilogo di Davide.

Irene Navarra

sabato 7 gennaio 2023

Poesia / Percezioni: L'ala nera (Il tradimento)


Quando un amico ti tradisce la sofferenza che provi è grande.
Lo so perché mi è capitato.
Così ho scritto.
Per cercare di lenire il dolore -
Quel dolore che ancora porto dentro.
Come una ferita,
Purtroppo inguaribile.

Irene Navarra, L'ala nera, Grafica, 4 Gennaio 2023.

 
Pupille stralunate e un vuoto
ricavato a forza di strappare
togliendo scorza a scorza
parole come magli,
scrollandoti di dosso
i segni dell'amico
negatosi caparbio
alla tua storia.

(S’affosca minaccioso
il mare pieno di rottami
e resti di naufragi.
Come se un'ala nera
si aprisse nella nebbia
a farla più distratta di chiarore.)

Banale poi vedere
nella curva scostante delle guance
il tocco di un ricordo buono,
voler giustificare
- col braccio accanto a braccio
sulla tovaglia d'ogni giorno -
complicità solo inventate,
ingenuamente elaborate
con la trafila dell'affinità.

(E il tuo vascello sotto un cielo senza stelle
s'incaglia inesorabile
nel corrugarsi infinitesimo dell'anima
- turacciolo o reliquia -
sbattuta dalle onde di melassa.)
 
Da Percezioni (Ambigua_Mente Poesia), 2005.

mercoledì 21 dicembre 2022

Poesia / Haiku: Ikebana.



Irene Navarra, Il dono, Fotografia e Grafica  2022.

Tre tulipani,
Foglie. E l'eleganza.
Innatamente.

Un grazie sentito a Giusy, Villi e Giovanni per il gradito dono.