lunedì 7 febbraio 2022

Prosa: Le rose rosse (da "Davvero così").


Fotografia di akirEVarga (Pixabay).

    Caterina uscì di casa nello splendore purissimo del pomeriggio. Ottobre sfoggiava una giornata ancora mite, così lei aveva deciso di approfittarne. Come di consueto, se la luminosità oltre i vetri era quasi sfrontata per l’aria tersa in cui si rivelavano netti i profili delle cose. Tale e quale il suo carattere, affermava chi la conosceva in modo generico giudicandola estroversa, passionale; dall’impronta energica e travolgente insomma. Chi invece – e non molti in verità – lo aveva colto appieno, sapeva quanto più vicino fosse al bello misurato dell’autunno che agli eccessi dell’estate. Caterina amava la luce, ben consapevole comunque delle seduzioni dell’ombra, e attenta alle insidie rischiose in cui poteva incappare nel caso si abbandonasse impulsiva al suo richiamo. Non la ignorava, l’ombra, la teneva in disparte, relegata in una zona marginale della mente, per limitarne le incursioni ai casi seri della vita: malattie, morte delle persone care…, quelli erano eventi tipici dell’ombra. Il resto, lo registrava sotto l’etichetta delle quisquilie, degli imprevisti senza peso, ininfluenti per un cielo d’ottobre graffito dai fiori di panna delle nubi e dai fili elettrici con sopra gli storni in ordinate schiere.
    Caterina uscì di casa come un refolo di bora, presa da un’incontenibile smania di fare shopping in centro. Avrebbe intaccato i suoi scarsi risparmi per comperarsi qualcosa da abbinare con la gonna nera in crêpe de chine donatale di recente dalla mamma.
    Era a pieghe e mini.
    Lei adorava lo stile mini.
    Il corto, d’altronde, si addiceva alle sue lunghe gambe da puledra. Glielo ripetevano di continuo gli ammiratori che la assediavano a frotte.
   Con passo sostenuto, a testa alta, indifferente all’attrazione che provocava, si diresse verso la boutique di Lisa, un’amica d’infanzia. Durante il tragitto si lasciò affascinare dalle costruzioni storiche della città, di stile neoclassico ed eclettico: entità affabili, geni domestici a custodia di ampi viali ombreggiati da frondosi platani. Ogni tanto si ravviava i capelli con le mani. Le dita passavano veloci tra le ciocche scure, irrequiete come i pensieri che correvano alle prove da tenersi al Conservatorio per il concerto dell’indomani, e alla cena nel minuscolo appartamento di Giulio, il suo ragazzo.
    Giulio: accanto a lei da tre anni.
    Le guance le si imporporarono, sorrise, lo pronunciò, quel nome, sommessamente, e affrettò il passo sospinta dall’eco del cuore. Era bellissimo scandirne le sillabe. Tra le braccia protettive di Giulio si sarebbe rilassata, dimenticando le contrarietà. Compreso l’improrogabile rientro a casa, sebbene tardissimo, per non angustiare la madre, gufo all’erta finché non sentiva la chiave girare nella toppa. Meno apprensiva però, da quando Giulio le si era presentato con l’usuale espressione accattivante e delle gardenie in mano. Un drin alla porta ed eccolo là, per nulla imbarazzato davanti a lei di colpo in lacrime perché sbalzata in un altro tempo, restituita a un uomo generoso di fiori e coccole andato via per sempre. La spontaneità del gesto aveva fatto nascere tra la mamma e Giulio un’intesa. Perciò, sapendo dove finivano le giornate di Caterina, lei smise di protestare. Contenti voi! esclamava, forse gelosa; e aggiungeva petulante: Perché non vi sposate? Bella domanda! battibeccava in disappunto Caterina. Siamo troppo giovani.
    Frenando l’irruenza, entrò nel negozio dalle pareti a specchi e dal soffitto madreperlaceo: un caleidoscopio di venature cangianti. Il sole si posava sui mobili di plexiglas in punti iridati. Abbagliata da quel luccicore non si accorse dell’apparire dell’amica dal suo ufficio sul retro. Lisa le si accostò di sorpresa salutandola con effusione. Baci, qualche chiacchiera, e il tuffo nel minimalismo dei capi d’abbigliamento – o grigi o neri – sparsi per l’ambiente e alternati a fasci di rose rosse in grandi vasi trasparenti. Una sottolineatura tragica all’essenzialità dell’arredo giostrato sul tema della luce rifratta. Caterina osservò l’intrecciarsi degli steli nell’acqua e l’effetto del contrasto cromatico. Rivolse poi l’attenzione agli indumenti esposti, ne esaminò le rifiniture, il taglio, ne scartò alcuni, altri li portò nella cabina di prova.
    Alla fine la scelta cadde su un tubino in jersey di lana impreziosito da fili di seta.
    Era di sicuro adatto all’atmosfera formale del concerto. E poi le piaceva davvero. La gonna in crêpe de chine le sarebbe andata bene per un'altra occasione.
    Doveva acquistarlo, dunque.
   Azzerando magari l’esiguo capitale su cui poteva contare, frutto di uggiosissime ore di lezioni ad alunni disinteressati. Ore strappate all’intima letizia che la pervadeva quando studiava sul suo Steinway: regalo del padre per il quinto compleanno.
    Lo indossò, quell’abito raffinato, e si pavoneggiò un poco, con civetteria.
    Sei splendida, le disse Lisa. Il nero ti dona, e il modello così fasciante valorizza la tua invidiabile silhouette.
    Mentre si osservava moltiplicata negli specchi, Caterina ebbe una specie di mancamento che la proiettò al di fuori di sé e la rese spettatrice di una scena straordinaria. Molte figure fluide affioravano dalle pareti di vetro, sottraendosi con fatica al materiale viscoso, si piegavano tutte verso il centro della sala, protendevano le mani e le congiungevano sopra un corpo riverso a terra.
    Il corpo a terra era il suo.
    Esanime e ricoperto da una profusione di rose.
    Rose rosse.

Faville fulgide nel cristallo immobile del tempo.
Nel cristallo immobile del tempo
Caterina guarda.
Dolore nelle membra di nuvola.
Un grido nella gola.
La fiaccola fioca del respiro.
La fatica dello strappo.
Caterina è coda di cometa
che fende spazi siderali.

    Fu un attimo. Con un fremito delle folte ciglia si riscosse, schiuse la bocca in un sospiro e il gelo dileguò. Dopo l’intermittenza impercettibile il mondo riprese a brillare e l’episodio inusitato divenne una piega irrisoria nella lucentezza del pomeriggio ammiccante dall’esterno.
    Un tè verde, brevi accenni ai progetti e alle speranze sul suo futuro, e poi via, Caterina fu nel sole, nell’atmosfera maestosa di Viale Michelstaedter che portava alle rive e a Piazza Stringher: un grande anfiteatro aperto sulla marina. La sua preferita tra le numerose della città.
    Lei la paragonava a un salone per le feste dal soffitto di cielo e dalle pareti a vetrate. Squarci indiscreti sull’aria velata di fumo dei caffè dove si respirava ancora una speciale aria mitteleuropea tra fragranze di torte Sacher e cappuccini con la panna.
    Talvolta la percepiva come un’opulenta orchidea dai petali di pietra bianca. Quando vi arrivava in passeggiata con il padre, ammirava le guglie svettanti delle due torri del Municipio di fronte al mare, e il corteggio laterale delle facciate dei palazzi, ricche di grazia scontrosa nel loro intervallare fregi a intaglio e tarsie geometriche di marmi levigati. Il Caffè degli Specchi, poi, l’aveva attirata, da ragazzina curiosa qual era, per la presenza costante di anziane signore, sedute all’aperto nella buona stagione; al chiuso, attorno ai tavolini di ferro dal ripiano di alabastro, con i primi rigori dell’autunno. Ne osservava il vestiario démodé, gli immancabili cappellini, le pettinature a ricci laccati e l’abbondante corredo di gioielli dalla foggia ottocentesca. Persino il loro cicaleccio assordante la deliziava. Si chiedeva divertita come potessero leggere il giornale, parlare in coro e magari anche capirsi in quella baraonda.

    Questi i ricordi di Caterina mentre si avvicinava alla meta, prefigurandosi il magnifico apparato che le si sarebbe offerto.

    Approdò trafelata in Piazza Stringher da una viuzza laterale al Municipio, la attraversò tutta, si fermò, voltò le spalle ai moli imponenti, alla distesa di onde, e ne contemplò la bellezza. Spalancò le braccia a cingerla, e le si sciorinò dentro una musica singolare. Le dita frullavano in arpeggi di vento. Chiuse gli occhi e sentì gli accordi evocati dal suo tocco lieve sulle lesene, sui capitelli, sui frontoni. S’insinuò tra le colonnine delle balconate, nel cuore sontuoso degli edifici, armonicamente rapita in una vertigine sonora.
    Da quella magica astrazione si staccava sempre con affanno. Era difficile abbandonare la pura brezza della melodia interiore, le sue note fantasiose.
    Bisognava però ridursi alla realtà.
    L’aspettavano le prove al Conservatorio.
    Si infilò sotto il portico del Municipio avviandosi verso il vecchio ghetto per strade in cui il sole entrava di rado. I suoi raggi rifulsero fulminei in un addio e furono fagocitati dalla cappa muscosa di quegli anfratti. Accelerò il passo perché si accorse del ritardo. Distolta – come al solito – dai giochi dell’immaginazione, aveva dimenticato l’impegno incombente. Si rammentò di una scorciatoia imboccata spesso con il padre quando, da piccola, lui la accompagnava a lezione e si perdevano nelle finezze architettoniche della città, incuranti dei minuti in galoppo sfrenato. Avrebbe evitato l’interminabile giro del quartiere ebraico e, di conseguenza, i rimproveri del Direttore, ottimo uomo ma brontolone.
    Si avviò di lena, riflettendo sulla morte del padre.
  Visioni penose le si affoltarono nella memoria, ricomposero il commiato e lo strazio sofferto. Ripensò ai giorni estremi, a come lui alzava a stento dal guanciale la testa smagrita, ai bigliettini – preparati con buon anticipo – che dopo aveva scoperto per caso. Bigliettini azzurri, con proverbi, auguri, caricature d’animali. Viatici per il suo ritorno al mondo. Se non altro a quello di un’elementare socializzazione, non certo a quello dei rapporti stretti e, tantomeno, a quello della musica. Aveva infatti evitato gli amici, frequentato saltuariamente la scuola, rinunciato allo studio del pianoforte.
    Perso lui, l’amato papi che le donava una rosa rossa alla fine di ogni esibizione, al diavolo tutto! sbottava triste quando qualcuno cercava di consolarla.
   Aveva poi capito quanto male si facesse e quanto ne facesse a lui, che si trovava in un ipotetico luogo astrale da cui la vedeva. Un luogo non captabile dai sensi, ma vicino, oh se vicino! usava dire. Era così ritornata agli autori dell’anima: Chopin e Schumann. E nel momento stesso in cui, per la prima volta dalla morte del padre, si era seduta sullo sgabello davanti al suo Steinway gran coda, assumendo con devozione la corretta postura della schiena, nel preciso momento in cui aveva riappoggiato le dita sui tasti d’ebano e d’avorio, se l’era rivisto a fianco. Un angelo custode bonario e accondiscendente.

    Con questa ridda di ricordi addosso in risacca impetuosa, entrò nel vicolo e ne affrontò i primi metri tra case cieche.
    Non un fruscio interrompeva il denso silenzio.
    Neanche i passi risuonavano sullo scabro selciato.
   Ebbe un’esitazione, si bloccò confusa, ma riprese subito ad avanzare trattenendo il respiro. Una forza inconsueta tuttavia risucchiava indietro qualsiasi slancio, e più tentava di procedere, più gli arti si impacciavano. L’alito delle concrezioni di muffa le invase narici e bocca intorpidendole la lingua.
    Si fermò.
    Le gambe non le obbedivano.
    Allora, priva di qualsiasi autocontrollo, si sentì arretrare, sollevare negli ultimi metri, come se una mano vigorosa la volesse salva dalla dimensione d’ombra in cui si era immersa. Si arrese alla strana foga che la trascinava, fino a trovarsi fuori da quel buco stretto, nel sole ancora radioso.
    Due episodi inspiegabili in un giorno, considerò tra sé e sé. Agitò la chioma bruna socchiudendo gli occhi, e proseguì.

    La mattina dopo, a colazione, sulla prima pagina del quotidiano locale lesse la notizia di una giovane donna straziata a coltellate nel Vicolo del Cormòr.
    ( Il Vicolo del Cormòr? Il “suo” Vicolo! )
    Il sangue era schizzato copioso dalle ferite e si era rappreso sopra e intorno al corpo in orribili fiori di morte.
    Caterina legge la notizia. Lo sguardo le si fa vitreo, le membra fredde. Sensibili però a presenze evanescenti che le sfiorano il volto, i capelli, l’incavo del collo e scendono fino al seno, al ventre.
    Premono il seno e il ventre con dita di rugiada.
    La accarezzano tessendo un bozzolo di trame inconsistenti e tenaci.
    Caterina ansima, in gola un groppo amaro e nelle orecchie il battito rullante del suo cuore vivo.
    Un frutto spaccato, il suo cuore vivo, una melagrana che rovescia rubini dalla ferita.
    Incapsulata nel pulsare dentro il petto, Caterina brancica senza meta per un territorio misterioso.
    Né cielo né terra né orizzonti attorno a lei.
    Solo sporca bruma.
    D’un tratto, però, il buio inizia a disgregarsi, si scuote, sussulta, e lei raccoglie un ticchettare..., ma non d’orologio.
    No...
    È il crepitio volubile di una vibrazione che nasce da fulgori in graduale progresso.
    È l’alba che tripudia sul nero della notte.

Mentre nell’aria dilaga
un’intensa fragranza di rose.
Di rose rosse.

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