Visualizzazione post con etichetta Amore eterno. tempo dell'Anima. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Amore eterno. tempo dell'Anima. Mostra tutti i post

lunedì 14 febbraio 2022

Prosa / Il ritorno (da "Davvero così").


Fotografia di kissearth (Pixabay).


    Premessa
    Un uomo cammina adagio lungo la strada maestra per il paese di R****, sorto in epoche lontane attorno a un modesto castelliere di passo ed estesosi poi, tra erosi massi bianchi, fino ai prati dell’altipiano omonimo.
    Sta per arrivare.
    Là, dopo la curva dai cigli a roveti, c’è la dimora di nascita, in cui ha trascorso una scanzonata fanciullezza da figlio unico, futuro erede di un nome illustre e di un’imponente fortuna, e dove, per uno scarto del destino, è rovinato in un’incrinatura insondabile.
    Qualche centinaio di passi ancora ed entrerà nel parco secolare.
    In sprazzi di lucidità crescente lo ricorda misto di essenze arboree autoctone come le querce, i faggi, i carpini; e piantate dall’uomo con cura irrispettosa dell’habitat originale come i cedri del Libano, gli olivi, le palme.
    Entrerà e prenderà il sentiero di sinistra dopo il cancello, taglierà per la boscaglia di ruschi, e si fermerà davanti alla grotta chiusa dall’inferriata ad arzigogoli pomposi rivista, da quando se n’è andato, solo nei sogni frenetici in cui talvolta scivola malgrado la scelta irremovibile di veglia. Appena la sfinitezza gli appesantisce le palpebre, essa appare in infinite varianti: accesa dal riverbero del tramonto, baluginante nell’argento soffuso di una notte di luna, umida per le piogge autunnali, brinata di gelo, infuocata alla calura di agosto, ingentilita dai teneri tralci di viti ed edere in primavera.
    Si materializza sospesa in coordinate fantastiche. Il prodigioso varco verso un mondo buono e gradevole. Consolante.
     

    Da che luogo viene?
    Da una subdimensione chiamata con una parola semplice e assieme minacciosa, quanto il supplizio che evoca.
    Manicomio.
    Questa è la parola.
    Melodiosa alla pronuncia, con una sola durezza al centro: “c”. Un carattere dalla foggia grafica di cerchio interrotto. Ossia cerchio imperfetto.
    Un microcosmo ostile, in cui la voragine delle allucinazioni ha la consistenza azzurra del volto di una donna dal profilo di nuvola.
    O verde come la campagna vietata oltre le sbarre delle finestre.
    O nera come la mano di chi scava e scava per ritrovare la figlia custodita nel cuore della terra.
    Ha il raro sorriso dell’infermiera e l’espressione tronfia del medico piegato su di te a sperimentare l’efficacia terapeutica di oblii artificiali.
    Bramoso di capire.
    Capire…, cosa capire?
    Che tu sei là per uno schianto del tuo passato.
    Che tutto vorresti fuorché trovarti là, oppure che tutto vuoi fuorché non essere là.
    Che ci sei arrivato con le dita insanguinate per lo spasmodico aggrapparti. Con le palpebre cucite per poter vedere solo le tue visioni. Con le labbra sigillate per parlare solo ai tuoi fantasmi così veri da farci l’amore. Notte dopo notte, tra estasi e ribrezzo. E gridare, poi, e ridere, e piangere esausto nel tuo letto solitario.
    Il Manicomio è la Grande Casa traboccante di occhi dilatati sulle tue nudità.
    È Terra promessa e sepolcro.
    Finché…, finché non decidono per te.
    Magari dopo una vita.
    Dimenticata vita di cui ha buttato via la chiave chi doveva amarti.
    Decidono per te e ti dichiarano dimesso.
    Non guarito dalle tue vertigini funeste, ma dimesso perché abbastanza calmo, socievole, non più turbato da parvenze femminili, grotte, cancellate di metallo, sorgenti dalle acque millenarie.
    Pressoché disciplinato, pare.
    Manicomio: un bagliore su lembi di verità e un volo a precipizio nel buio di abissi personali.
    Te lo porti dentro, con la sua “c” mediana dalla coda acuminata infissa nell’anima.

    L’uomo della storia, Stefano, viene da un posto come quello.


    La storia

    Stefano sta per arrivare al fondo della strada.
    Percorre l’ultimo tratto frenando l’impazienza.
    Non manca molto, alla meta.
    Centellinando i particolari, se la figura con l’aspetto di un tempo. Visualizza il costone roccioso affacciato sul pianoro, la grotta scavata nel suo fianco dallo stillare dell’acqua in milioni di anni, l’ampollosa cancellata a chiusura.
    Il ritorno deve essere una liturgia solenne.
    Ripassa dunque, tra sé e sé, la serie dei gesti da compiere con ordine meticoloso: insinuare le mani nell’intrico di tralci d’edera e vite, appoggiarle sul ferro scalfito dal tempo, seguirne i contorni, indugiare sulle volute, sulle sagome stilizzate delle rose ornamentali per esporne le ferite e annullarvi le proprie.
    Niente può fermarlo.
    Niente e nessuno.
    L’esorcismo della lontananza si è sgretolato giorno dopo giorno scalando il Calvario dell’alienazione, un fiato alla volta verso l’ineluttabile in attesa laggiù, alla fine dell’itinerario già tracciato. Ha pagato il suo debito con l’orrore di polsi e fianchi inchiodati a un letto, lottando contro angeli blasfemi che gli accarezzavano il sesso.
    Il bagno di purificazione da colpe e rimorsi è avvenuto nel Padrenostro ostile della Grande Casa.
    Amen.

    Diletta si muove diafana nell’universo opaco della grotta, dove i ricordi si sovrappongono alle fantasie.
    Sono rimasta com’ero e forse lui non mi vorrà, mormora incredula del sussulto avvertito in sé alla notizia del suo ritorno. Gliel’ha annunciato la fonte perenne al centro della grotta. Con voce squillante le ha descritto il peregrinare di Stefano: i viottoli affrontati palmo a palmo, le soste sotto alberi frondosi o in ricoveri precari, le marce forzate e l’ultima tappa nel paese vicino. Parlava, parlava la fonte, a scrosci, a zampilli; poi taceva, acquietandosi nel lago improvvisamente fermo del suo specchio, riflettendo la luce degli occhi eterni della fanciulla. E lei splendeva, sorpresa della magia.
    Tra poco entrerà, sussurra Diletta ravviandosi i capelli con le mani d’avorio. Tra poco entrerà e io potrò alleviargli le pene, sospira vibrando di battiti traslucidi come ali di libellula in volo.


    Stefano procede incurante della temperatura torrida, pronto a indagare ogni dettaglio del paesaggio circostante per carpirne i messaggi.
    Sempre che la memoria non lo inganni, la strada gli sembra uguale, con le stesse buche polverose e gli stessi gelsi a indicare l’accesso alla villa, trascurata da molto per la morte di chi se l’era comperata dai suoi genitori in fuga sia dalla nevrosi del figlio (oh, se sconveniente! troppo inelegante!), sia dalle battaglie affettive da sostenere. Con un cospicuo lascito e un tutore di provata onestà avevano assicurato il futuro materiale di Stefano, dileguandosi verso un altrove insignificante per lui che rifiutava caparbio il cosiddetto normale. L’antica casa di nascita era ormai preda solo delle bizze stagionali. Nel congedo gliel’avevano rivelato medici e infermieri – raccomandando di non ritornarvi, per evitare ricadute – e Stefano ne aveva tratto un conforto tale da sentirsi felice.
    E felice lo è anche adesso alla vista del fossato in cui spariva per la caccia alle lucertole durante la stagione arida o navigava da prode Capitan Achab dopo le piogge di settembre. Tanto felice da voler protrarre quell’osservazione minuziosa. Così, indugia sulle crepe del muretto di cinta e sulle colonnine di mattoni calcinati dal bollore estivo per poi rivolgere lo sguardo alle curve avare delle colline stagliate contro il colossale scenario dei monti.
    Le colline. Un tempo credeva di poterle toccare se solo avesse steso una mano.
    Tutto come allora…, considera Stefano, ritrovando intatto in sé l’itinerario da seguire fino alla grotta: difilato tra i bossi piuttosto radi ai lati dell’entrata principale, a sinistra giù per il viottolo degli allori, dopo la macchia estesa dei noccioli, delle querce, oltre il rusco spinoso, al di là del primo avvallamento verso il limite occidentale della proprietà costellato di poderosi macigni alluvionali in caotica coreografia. Resti di un gioco a dadi di giganti. Avanza veloce Stefano, ed eccola, la grotta! Le è davanti mentre il cielo sbiadisce per l’afa e i pampini delle edere e delle viti, in intricato viluppo, fibrillano un saluto. Spinge le dita nella coltre spessa e allarga un’apertura sull’interno. Gli arabeschi rugginosi della cancellata intarsiano l’aria cupa come lettere di un racconto gotico. La D di D’Arcois (il suo casato), riemerge dal groviglio di rami e foglie. Può fungere da passaggio, abbastanza larga e comoda com’è, cedevole senz’altro per la corrosione.
    Stefano, però, vuole riportarla completamente alla luce, la cancellata.
    Nell’ultimo periodo di degenza al Manicomio, colmo di una nuova pacatezza, ha osato immaginare il momento e si è preparato.
    Depone a terra lo zaino, lo apre e ne leva a uno a uno dei sacchetti di velluto bianco, scelti con il rigore di un’ossessione salvifica tra gli oggetti prodotti da mani compagne nei laboratori della Grande Casa: alcuni piccoli, altri medi, uno grande. Ne slaccia i nodi, ne estrae degli utensili che dispone sul suolo secco: seghetti, cesoie e una scure. Semplici arnesi comperati durante il pellegrinaggio a ritroso e votati alla religione ingenua dei loro contenitori.
    Il lavoro può iniziare.
    Stefano recide e strappa, colpisce con l’accetta i tronchi dell’edera, delle viti. Libera a poco a poco l’inferriata, ignaro ancora dei simulacri nascosti dietro i suoi ghirigori barocchi.
    Al blando calare della sera l’accesso è praticamente sgombro. È ora di riposare sotto l’enorme luna color crema di latte elargita dal cielo. Una cena frugale di pane e frutta, lo zaino per cuscino, si rannicchia ai piedi di una quercia centenaria tra le radici affioranti dal terreno a forma di culla.
    Per la prima volta da quando ha lasciato quei luoghi e le loro larve, dorme un sonno placido.


    Diletta attende trepida che lui la raggiunga. Lo attende dall’ultimo gioco di ombre cinesi.
    Quanti anni aveva?
    Dodici?
    Sì, dodici teneri anni.
    E da quanti non vede Stefano?
    Oh, questo non lo sa, ma non ha importanza, conta il ritrovarlo e fargli capire di essere tornato nel luogo giusto. Finito il viaggio, sei a casa, bisbiglia preavvertendo lo scalpiccio dei suoi passi al di qua della soglia.


    È l’alba.
    Stefano si è svegliato al suo incedere rosa e ha finito di ripulire l’inferriata dall’esuberanza vegetale. Regolato il disordine, può disserrare lo scrigno dove, forse, si trova la risposta della sua ricerca. Tra un attimo ne violerà il segreto. Uno strattone alla catena agganciata alle grandi lettere dei cancelli e sarà dentro la grotta, sceso in se stesso e nel sogno a cui Diletta l’ha chiamato dal cuore di un vortice di acque insondabili, la mano tesa in un invito.


    Ecco il glicine e il giallo dell’aurora, la grotta è un caleidoscopio di colori. Diletta danza attorno a Stefano che entra.
    Come sei cambiato! si stupisce fasciandolo nella nube della chioma, toccandogli fugacemente il volto pallido e incavato, i capelli incanutiti, gli occhi tetri più degli angoli inaccessibili della grotta.
    Qui invece è tutto identico, gli dice in un soffio.
    Per te ho continuato a fantasticare sulla nostra storia e ti chiamavo. Ti ho chiamato da subito, triste perché non eri con me e non capivo. Io ricordavo solo il tuo nome e il nostro stare insieme.
    Diletta ha un fremito, abbassa il capo smarrita in una visione angosciosa. È un istante. Si riscuote e riprende a parlare: Ma il filo dell’amore che ci univa non si è mai spezzato. Ora tu sei qui e mi vedrai. In questo tempo dell’attesa ho intrecciato i nostri destini, simili a sottili ma tenaci tele di ragno. Tenaci
oltre la morte. E tu lo sai, Stefano. Fra poco rivivremo come ombre cinesi.

    Stefano è nella grotta. Sente una voce dagli accenti familiari. Le sensazioni si accumulano. La ragione vacilla. Si snodano sulle rocce frammenti dell’acerba adolescenza.
    Vede quanto ha rifiutato per anni di correlare al suo vissuto: una ragazza dai capelli nerissimi, un ragazzo esuberante, le corse al nascere del sole estivo balzando in tumulto dai propri letti, gettandosi a perdifiato fuori di casa per essere, all’apparire dei primi raggi, già nella grotta e inscenarvi il gioco delle ombre cinesi.
    Vede lei saltare sollevando con le braccia la mantellina di garza trapuntata di fiordalisi, agitarla in controluce a mo’ di graziosissima farfalla, atterrare sui sassi viscidi al bordo della polla, sdrucciolare, battere la testa, rimanere supina nell’acqua.
    Nell’acqua rossa di sangue.
    Lei, Diletta, involarsi per sempre.
    Lui, Stefano, assistere impotente.
    E quel dolore…, che lo subissa a ondate, che lo invade stravolgendolo ancora.

    Il dramma si è compiuto per la seconda volta.
    In un regresso inevitabile il cerchio si è serrato.
    Il pianto di Stefano si mescola al mormorio dell’acqua. I suoi singulti sono cuspidi di consapevolezza nel riaffiorare pieno della coscienza. Esili sembianti scaturiscono dai recessi delle rocce. Non definiti ma liquidi. Baluginano simulando alterazioni prodigiose. Creatura eterea in armonia con il miracolo dell’amore oltre la morte, lei rinasce.
    Stefano, al centro della grotta, respira veloce, quasi a per inalarne l’essenza dall’aria satura di particelle dorate. Non scorrono più lacrime sulle sue guance.
    Sorride.
    Adesso sa: quel viaggio convulso aveva lo scopo di ricongiungerlo a Diletta in un vertice di perfezione.
    Stefano abbassa gli occhi sulla fonte e la vede.
    Diletta si muove verso di lui.
    Le sue labbra compitano un messaggio che gli si propaga nel cuore come un’eco.
    Lo invita a guardarsi attorno.
    E Stefano guarda.
    La grotta sfolgora di miraggi che si fanno concretezza: la villa con la loggia al primo piano carica di rose rampicanti, gli allori, la macchia di noccioli e querce, il sentiero ben segnato, le palme, i prati, le rocce dei Giganti, i monti cinerini, la cancellata, le edere e le viti potate di fresco, la grotta. E proprio davanti alla grotta due ragazzi si incontrano, si abbracciano, posano la testa l’uno sulla spalla dell’altro, stanno per un po’ abbandonati al senso ritrovato dei loro corpi, si prendono per mano e ne varcano la soglia.


    Epilogo

    Dicono gli alberi, stormendo complici, che la fonte tacque e un silenzio sovrumano invase la grotta.
    Mentre il sole conquistava le vette del cielo, le sue pareti rimpietrarono assieme alla storia.
    Ormai non c’era più nulla da narrare.
    Stefano era entrato nel sogno.
    E aggiungono gli alberi, piegando rami e scrollando fronde di quel tanto sufficiente a parlottare in gran riserbo, aggiungono che qualsiasi risveglio gli sarà dolce.
    Finalmente dolce.

lunedì 7 febbraio 2022

Prosa: Le rose rosse (da "Davvero così").


Fotografia di akirEVarga (Pixabay).

    Caterina uscì di casa nello splendore purissimo del pomeriggio. Ottobre sfoggiava una giornata ancora mite, così lei aveva deciso di approfittarne. Come di consueto, se la luminosità oltre i vetri era quasi sfrontata per l’aria tersa in cui si rivelavano netti i profili delle cose. Tale e quale il suo carattere, affermava chi la conosceva in modo generico giudicandola estroversa, passionale; dall’impronta energica e travolgente insomma. Chi invece – e non molti in verità – lo aveva colto appieno, sapeva quanto più vicino fosse al bello misurato dell’autunno che agli eccessi dell’estate. Caterina amava la luce, ben consapevole comunque delle seduzioni dell’ombra, e attenta alle insidie rischiose in cui poteva incappare nel caso si abbandonasse impulsiva al suo richiamo. Non la ignorava, l’ombra, la teneva in disparte, relegata in una zona marginale della mente, per limitarne le incursioni ai casi seri della vita: malattie, morte delle persone care…, quelli erano eventi tipici dell’ombra. Il resto, lo registrava sotto l’etichetta delle quisquilie, degli imprevisti senza peso, ininfluenti per un cielo d’ottobre graffito dai fiori di panna delle nubi e dai fili elettrici con sopra gli storni in ordinate schiere.
    Caterina uscì di casa come un refolo di bora, presa da un’incontenibile smania di fare shopping in centro. Avrebbe intaccato i suoi scarsi risparmi per comperarsi qualcosa da abbinare con la gonna nera in crêpe de chine donatale di recente dalla mamma.
    Era a pieghe e mini.
    Lei adorava lo stile mini.
    Il corto, d’altronde, si addiceva alle sue lunghe gambe da puledra. Glielo ripetevano di continuo gli ammiratori che la assediavano a frotte.
   Con passo sostenuto, a testa alta, indifferente all’attrazione che provocava, si diresse verso la boutique di Lisa, un’amica d’infanzia. Durante il tragitto si lasciò affascinare dalle costruzioni storiche della città, di stile neoclassico ed eclettico: entità affabili, geni domestici a custodia di ampi viali ombreggiati da frondosi platani. Ogni tanto si ravviava i capelli con le mani. Le dita passavano veloci tra le ciocche scure, irrequiete come i pensieri che correvano alle prove da tenersi al Conservatorio per il concerto dell’indomani, e alla cena nel minuscolo appartamento di Giulio, il suo ragazzo.
    Giulio: accanto a lei da tre anni.
    Le guance le si imporporarono, sorrise, lo pronunciò, quel nome, sommessamente, e affrettò il passo sospinta dall’eco del cuore. Era bellissimo scandirne le sillabe. Tra le braccia protettive di Giulio si sarebbe rilassata, dimenticando le contrarietà. Compreso l’improrogabile rientro a casa, sebbene tardissimo, per non angustiare la madre, gufo all’erta finché non sentiva la chiave girare nella toppa. Meno apprensiva però, da quando Giulio le si era presentato con l’usuale espressione accattivante e delle gardenie in mano. Un drin alla porta ed eccolo là, per nulla imbarazzato davanti a lei di colpo in lacrime perché sbalzata in un altro tempo, restituita a un uomo generoso di fiori e coccole andato via per sempre. La spontaneità del gesto aveva fatto nascere tra la mamma e Giulio un’intesa. Perciò, sapendo dove finivano le giornate di Caterina, lei smise di protestare. Contenti voi! esclamava, forse gelosa; e aggiungeva petulante: Perché non vi sposate? Bella domanda! battibeccava in disappunto Caterina. Siamo troppo giovani.
    Frenando l’irruenza, entrò nel negozio dalle pareti a specchi e dal soffitto madreperlaceo: un caleidoscopio di venature cangianti. Il sole si posava sui mobili di plexiglas in punti iridati. Abbagliata da quel luccicore non si accorse dell’apparire dell’amica dal suo ufficio sul retro. Lisa le si accostò di sorpresa salutandola con effusione. Baci, qualche chiacchiera, e il tuffo nel minimalismo dei capi d’abbigliamento – o grigi o neri – sparsi per l’ambiente e alternati a fasci di rose rosse in grandi vasi trasparenti. Una sottolineatura tragica all’essenzialità dell’arredo giostrato sul tema della luce rifratta. Caterina osservò l’intrecciarsi degli steli nell’acqua e l’effetto del contrasto cromatico. Rivolse poi l’attenzione agli indumenti esposti, ne esaminò le rifiniture, il taglio, ne scartò alcuni, altri li portò nella cabina di prova.
    Alla fine la scelta cadde su un tubino in jersey di lana impreziosito da fili di seta.
    Era di sicuro adatto all’atmosfera formale del concerto. E poi le piaceva davvero. La gonna in crêpe de chine le sarebbe andata bene per un'altra occasione.
    Doveva acquistarlo, dunque.
   Azzerando magari l’esiguo capitale su cui poteva contare, frutto di uggiosissime ore di lezioni ad alunni disinteressati. Ore strappate all’intima letizia che la pervadeva quando studiava sul suo Steinway: regalo del padre per il quinto compleanno.
    Lo indossò, quell’abito raffinato, e si pavoneggiò un poco, con civetteria.
    Sei splendida, le disse Lisa. Il nero ti dona, e il modello così fasciante valorizza la tua invidiabile silhouette.
    Mentre si osservava moltiplicata negli specchi, Caterina ebbe una specie di mancamento che la proiettò al di fuori di sé e la rese spettatrice di una scena straordinaria. Molte figure fluide affioravano dalle pareti di vetro, sottraendosi con fatica al materiale viscoso, si piegavano tutte verso il centro della sala, protendevano le mani e le congiungevano sopra un corpo riverso a terra.
    Il corpo a terra era il suo.
    Esanime e ricoperto da una profusione di rose.
    Rose rosse.

Faville fulgide nel cristallo immobile del tempo.
Nel cristallo immobile del tempo
Caterina guarda.
Dolore nelle membra di nuvola.
Un grido nella gola.
La fiaccola fioca del respiro.
La fatica dello strappo.
Caterina è coda di cometa
che fende spazi siderali.

    Fu un attimo. Con un fremito delle folte ciglia si riscosse, schiuse la bocca in un sospiro e il gelo dileguò. Dopo l’intermittenza impercettibile il mondo riprese a brillare e l’episodio inusitato divenne una piega irrisoria nella lucentezza del pomeriggio ammiccante dall’esterno.
    Un tè verde, brevi accenni ai progetti e alle speranze sul suo futuro, e poi via, Caterina fu nel sole, nell’atmosfera maestosa di Viale Michelstaedter che portava alle rive e a Piazza Stringher: un grande anfiteatro aperto sulla marina. La sua preferita tra le numerose della città.
    Lei la paragonava a un salone per le feste dal soffitto di cielo e dalle pareti a vetrate. Squarci indiscreti sull’aria velata di fumo dei caffè dove si respirava ancora una speciale aria mitteleuropea tra fragranze di torte Sacher e cappuccini con la panna.
    Talvolta la percepiva come un’opulenta orchidea dai petali di pietra bianca. Quando vi arrivava in passeggiata con il padre, ammirava le guglie svettanti delle due torri del Municipio di fronte al mare, e il corteggio laterale delle facciate dei palazzi, ricche di grazia scontrosa nel loro intervallare fregi a intaglio e tarsie geometriche di marmi levigati. Il Caffè degli Specchi, poi, l’aveva attirata, da ragazzina curiosa qual era, per la presenza costante di anziane signore, sedute all’aperto nella buona stagione; al chiuso, attorno ai tavolini di ferro dal ripiano di alabastro, con i primi rigori dell’autunno. Ne osservava il vestiario démodé, gli immancabili cappellini, le pettinature a ricci laccati e l’abbondante corredo di gioielli dalla foggia ottocentesca. Persino il loro cicaleccio assordante la deliziava. Si chiedeva divertita come potessero leggere il giornale, parlare in coro e magari anche capirsi in quella baraonda.

    Questi i ricordi di Caterina mentre si avvicinava alla meta, prefigurandosi il magnifico apparato che le si sarebbe offerto.

    Approdò trafelata in Piazza Stringher da una viuzza laterale al Municipio, la attraversò tutta, si fermò, voltò le spalle ai moli imponenti, alla distesa di onde, e ne contemplò la bellezza. Spalancò le braccia a cingerla, e le si sciorinò dentro una musica singolare. Le dita frullavano in arpeggi di vento. Chiuse gli occhi e sentì gli accordi evocati dal suo tocco lieve sulle lesene, sui capitelli, sui frontoni. S’insinuò tra le colonnine delle balconate, nel cuore sontuoso degli edifici, armonicamente rapita in una vertigine sonora.
    Da quella magica astrazione si staccava sempre con affanno. Era difficile abbandonare la pura brezza della melodia interiore, le sue note fantasiose.
    Bisognava però ridursi alla realtà.
    L’aspettavano le prove al Conservatorio.
    Si infilò sotto il portico del Municipio avviandosi verso il vecchio ghetto per strade in cui il sole entrava di rado. I suoi raggi rifulsero fulminei in un addio e furono fagocitati dalla cappa muscosa di quegli anfratti. Accelerò il passo perché si accorse del ritardo. Distolta – come al solito – dai giochi dell’immaginazione, aveva dimenticato l’impegno incombente. Si rammentò di una scorciatoia imboccata spesso con il padre quando, da piccola, lui la accompagnava a lezione e si perdevano nelle finezze architettoniche della città, incuranti dei minuti in galoppo sfrenato. Avrebbe evitato l’interminabile giro del quartiere ebraico e, di conseguenza, i rimproveri del Direttore, ottimo uomo ma brontolone.
    Si avviò di lena, riflettendo sulla morte del padre.
  Visioni penose le si affoltarono nella memoria, ricomposero il commiato e lo strazio sofferto. Ripensò ai giorni estremi, a come lui alzava a stento dal guanciale la testa smagrita, ai bigliettini – preparati con buon anticipo – che dopo aveva scoperto per caso. Bigliettini azzurri, con proverbi, auguri, caricature d’animali. Viatici per il suo ritorno al mondo. Se non altro a quello di un’elementare socializzazione, non certo a quello dei rapporti stretti e, tantomeno, a quello della musica. Aveva infatti evitato gli amici, frequentato saltuariamente la scuola, rinunciato allo studio del pianoforte.
    Perso lui, l’amato papi che le donava una rosa rossa alla fine di ogni esibizione, al diavolo tutto! sbottava triste quando qualcuno cercava di consolarla.
   Aveva poi capito quanto male si facesse e quanto ne facesse a lui, che si trovava in un ipotetico luogo astrale da cui la vedeva. Un luogo non captabile dai sensi, ma vicino, oh se vicino! usava dire. Era così ritornata agli autori dell’anima: Chopin e Schumann. E nel momento stesso in cui, per la prima volta dalla morte del padre, si era seduta sullo sgabello davanti al suo Steinway gran coda, assumendo con devozione la corretta postura della schiena, nel preciso momento in cui aveva riappoggiato le dita sui tasti d’ebano e d’avorio, se l’era rivisto a fianco. Un angelo custode bonario e accondiscendente.

    Con questa ridda di ricordi addosso in risacca impetuosa, entrò nel vicolo e ne affrontò i primi metri tra case cieche.
    Non un fruscio interrompeva il denso silenzio.
    Neanche i passi risuonavano sullo scabro selciato.
   Ebbe un’esitazione, si bloccò confusa, ma riprese subito ad avanzare trattenendo il respiro. Una forza inconsueta tuttavia risucchiava indietro qualsiasi slancio, e più tentava di procedere, più gli arti si impacciavano. L’alito delle concrezioni di muffa le invase narici e bocca intorpidendole la lingua.
    Si fermò.
    Le gambe non le obbedivano.
    Allora, priva di qualsiasi autocontrollo, si sentì arretrare, sollevare negli ultimi metri, come se una mano vigorosa la volesse salva dalla dimensione d’ombra in cui si era immersa. Si arrese alla strana foga che la trascinava, fino a trovarsi fuori da quel buco stretto, nel sole ancora radioso.
    Due episodi inspiegabili in un giorno, considerò tra sé e sé. Agitò la chioma bruna socchiudendo gli occhi, e proseguì.

    La mattina dopo, a colazione, sulla prima pagina del quotidiano locale lesse la notizia di una giovane donna straziata a coltellate nel Vicolo del Cormòr.
    ( Il Vicolo del Cormòr? Il “suo” Vicolo! )
    Il sangue era schizzato copioso dalle ferite e si era rappreso sopra e intorno al corpo in orribili fiori di morte.
    Caterina legge la notizia. Lo sguardo le si fa vitreo, le membra fredde. Sensibili però a presenze evanescenti che le sfiorano il volto, i capelli, l’incavo del collo e scendono fino al seno, al ventre.
    Premono il seno e il ventre con dita di rugiada.
    La accarezzano tessendo un bozzolo di trame inconsistenti e tenaci.
    Caterina ansima, in gola un groppo amaro e nelle orecchie il battito rullante del suo cuore vivo.
    Un frutto spaccato, il suo cuore vivo, una melagrana che rovescia rubini dalla ferita.
    Incapsulata nel pulsare dentro il petto, Caterina brancica senza meta per un territorio misterioso.
    Né cielo né terra né orizzonti attorno a lei.
    Solo sporca bruma.
    D’un tratto, però, il buio inizia a disgregarsi, si scuote, sussulta, e lei raccoglie un ticchettare..., ma non d’orologio.
    No...
    È il crepitio volubile di una vibrazione che nasce da fulgori in graduale progresso.
    È l’alba che tripudia sul nero della notte.

Mentre nell’aria dilaga
un’intensa fragranza di rose.
Di rose rosse.

lunedì 2 agosto 2021

Poesia / Futura-Mente: Eppure non dimentico.

 
Irene Navarra, Pippo e il quadrifoglio / Segni, FotoInstagram, 2021.



Vorrei che ogni ricordo
fosse chiuso nel momento
e basta.
Insomma, viverlo, sì,
quell'attimo fugace
ma non come un ricordo, poi.
Niente passato, dunque.

(Eppure non dimentico.)
 
Così mi vedo sul sentiero usato
tra erbe incolte e viti rigogliose
con Pippo Setter stretto al fianco.
Lui baldanzoso e codallegra,
io punta, tacco, punta e balzi
a un ritmo buffo da Charlot rinato.
Memoria in cui riaffiorano compagni:
Emma Petto di Luna e Orazio e Pablo,
i tre stupendi Golden della mia esistenza.
Insieme tutti.
In un durevole Futuro onnipresente.

 

giovedì 5 novembre 2020

Poesia / Vita da cani (pensatori) 3: I colori di Sissi.


La lirica è dedicata all'amica Franca che conosce la compassione e sa dialogare con gli animali. Vi si racconta la storia vera di una cucciola bianca come la neve che lei salvò e rese felice.

Irene Navarra, I colori dell'Amore, Fotografia, 4 novembre 2020.


I colori di Sissi
(Sissi un po’ maremmana un po’ samoiedo ha una visione del mondo molto colorata da quando la sua amica umana l’ha salvata da morte sicura.)

Le mani che mi tolsero le pulci
scavando senza ripugnanza
persino nella pelle,
erano azzurre.
Erano mani-cielo marzolino
profumato di mandorlo e di melo.

Frusciarono poi verdi sul mio pelo
mentre mi ripulivano sottili per farmi
nube soffice dipinta nel suo chiaro mondo.
Percorsero leggere il mio pancino,
la gola, il dorso, le zampette,
le orecchie dai bordi rosi a morsi,
tutto il mio corpo quasi divorato.
Simili a fili d’erba-carezza. Rugiadosa.
 
L’amore quindi non è rosso.
L’amore è azzurro e verde.

Così le mani fresche di una salvatrice.
Così le mani sue che risucchiarono
gentili da un pozzo senza fondo
la mia piccola vita
negata già in partenza.
 

sabato 5 settembre 2020

Poesia / Frammento 20 (Amore eterno. A Pablo golden retriever che non c'è più).


Irene Navarra, Pablo Amato Cane, Fotografia, 2015.


In questi tre Frammenti lirici ispirati agli Haiku tradizionali giapponesi è contenuta la storia di Pablo e mia. Lui mi è stato consegnato allungandomi una corda bianca e verde da barca.
Aveva una cima nautica legata attorno al collo.
Io ho teso d'istinto la mano e l'ho accolto come il bene più fragile e prezioso esistente al mondo. Per una settimana l'ho accarezzato solo sfiorandolo. Era terrorizzato e talmente magro che temevo di romperlo, se l'avessi toccato con meno dolcezza.
Poi, piano piano, il legame con il vissuto precedente ha incominciato ad allentarsi, disperdendosi in sfilacci logori. Finché non è rimasto nulla che lo riportasse all'angoscia con devastanti attacchi di panico. Finché si è accesa anche in Lui la luce brillante e calda che già splendeva in me.
Nove anni e mezzo è durata la nostra avventura fatta di giorni limpidi dal sapore di mare, vento, terra rigogliosa della nostra Regione benedetta, bosco, fiori, fichi raccolti dagli alberi. Immersi in serene meditazioni con gli occhi rivolti all'orizzonte e al cielo, non ci accorgevamo di nulla che non fosse Grazia pura, colmi com'eravamo di letizia.

Adesso il nostro tempo terreno è finito.
Si è interrotto alle ore sette e venti del venticinque agosto appena passato.
Pablo è entrato nel riposo vero, respirando lieve dopo molto dolore, mentre stringevo tra le dita il mio tempo spirituale inanellato al suo. Quello che non conosce né passato né futuro. Quello che stava lì, nel mio cuore mentre il suo cessava di battere. Quell'hic et nunc nutrito d'Assoluto in cui tutto si ferma e si fa presente etereo ma eterno.

Ecco, queste piccole liriche mi hanno raggiunta quasi per caso, in un momento del pomeriggio di ieri. Me ne stavo al sole con Lui che ritornava a me in corsa gioiosa. Così mi sono raccontata le tappe del meraviglioso viaggio intrapreso uniti. Dal principio. E sono stata meglio.

Tendo la mano:
un cane per destino
se ne fa culla.

E inizia il gioco
del naso contro naso
zampa sul cuore.

Andare insieme.
La vita è come seta
quando si ama.