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mercoledì 16 marzo 2022

Prosa / Tra le labbra livide della notte ( Da "Davvero così").

 

Irene Navarra, Rossana, Disegno grafico, 2022.

    Appoggiata rigidamente allo schienale della bergère su cui si era appena seduta, Rossana fissava il cellulare che teneva chiuso tra le mani giunte a conchiglia. Quasi pregasse. In uno stato di forte tensione, attendeva l’accendersi del display. Le note del Bolero di Ravel avrebbero scosso il silenzio e lei avrebbe pigiato il tastino di risposta trasalendo di gioia.
Nel tinello attiguo al salotto la tavola era preparata per la cena. Un allestimento perfetto che Rossana non degnava d’attenzione. Come se non la riguardasse, pur essendone l’autrice. La tovaglia di fiandra verde pallido cadeva compatta fino a terra, le candide porcellane di Limoges e i bicchieri in vetro soffiato Venini scintillavano, due minibouquet d’edera e bucaneve ornavano i tovaglioli riprendendo i motivi floreali del tessuto, le posate d’argento dalla foggia estrosa completavano la raffinata ricercatezza dell’apparato.
    Tutto era pronto anche nella minuscola cucina lucida di smalti, già rassettata con cura maniacale.
    Sul bancone dal ripiano di marmo se ne stavano allineate in bell’ordine le pietanze: il fagiano arrosto, la purea di patate, la salsa al ribes, il radicchio canarino al gratin, la crostata di mele odorosa di vaniglia. Un aromatico Manzoni rosso avrebbe accompagnato la selvaggina, un Ramandolo barricato in rovere bianco, il dolce. Il primo l’aveva scaraffato per l’ossigenazione in un prezioso decanter Lalique della linea Roxane, dono di nozze di una cugina per l’omonimia casuale con il suo nome, Rossana appunto. Il secondo, invece, era nel frigo-cantina affinché mantenesse la temperatura ideale di 14°.
    All’arrivo di Guido, suo marito, le sarebbe bastato pochissimo per riscaldare il cibo: un velo di panna e uno spruzzo di cognac sulla carne, una noce di burro e una lacrima di latte nella purea. Pochissimo…, si ripeteva distratta cincischiando il tubino nero che le aderiva alle curve prosperose, e strusciando sul parquet i piedi sottili calzati di ballerine di vernice.
    Si sentiva bella, pronta per un’occasione importante, ma il cellulare non dava segni di vita.
    Mancava meno di mezz’ora al rientro di Guido e l’apparecchietto sembrava provocarla con un’assoluta immobilità da scarabeo in letargo.
    Marco, l’altro, forse non aveva nessuna intenzione di chiamarla.
    Il panico le chiuse la gola.
    Così decise: ancora dieci secondi e avrebbe disattivato l’aggeggio infernale dimenticando quell’appuntamento che durava da un mese. Tutti i giorni tranne il sabato e la domenica, quando il marito era a casa.
    Quando il marito era a casa, lei aveva la sensazione di sdoppiarsi: la Rossana di Guido soggiaceva, stucchevole e solerte. La Rossana di Marco, acquattata in una piega della mente, soppesava quel suo clone codardo con vibrazioni da cacciatrice, disprezzandolo per i sorrisi, i riti, le ovvietà.
    Sminuzzava metodica nella tana il tempo che la separava dal lunedì.
    Come si sbriciola un pezzo di pane.
    Gli occhi colmi di disagio e nascosti sotto il velo delle palpebre.

    Marco tese d’impulso la mano verso il telefono dal contenitore trasparente, chiaro per la fosforescenza dei circuiti nell’ufficio conquistato dall’ombra della sera. A metà gesto si pentì. E la mossa si alterò scomponendosi in rapide fasi: un elusivo baluginare, un brusco indugio a mezz’aria, l’arretramento, il blocco. La macchia immobile della mano sul ripiano della scrivania sembrava dichiarare il proprio arbitrio. Gli ribadiva il dovere della presa di coscienza con la sua ostentata inerzia.
    Durò un po’ la stasi.
    Poi, repentinamente, le dita incominciarono a battere un loro alfabeto, trasmettendogli un messaggio: Cose da non farsi…, da non farsi…, da non farsi. E le sillabe, frutto senza dubbio di sovreccitazione, si combinavano in echi enigmatici. Lo inondavano di turbamento per la passione accesasi in lui quando, mentre Guido gli presentava Rossana, si era sentito rovistare fino in fondo all’anima dai suoi occhi di giada.
    Ogni sera era la stessa storia.
    All’uscita di Guido dall’azienda in cui entrambi lavoravano le telefonava e, nell’attesa del suo
Finalmente!, centellinava le emozioni, collocandole una per una nella casella giusta, accanto all’immagine giusta, in desideri fiammanti.
    I capelli fulvi di Rossana: una cascata di papaveri sopra il suo petto.
    Le labbra di Rossana: fichi maturi da mordere, succhiando umori speziati.
    La voce di Rossana: un’acqua ribollente sulla pelle.
    Il solo pensare alla sua voce gli dava una sorta di struggimento spossato, la preparazione necessaria all’ebbrezza sensuale che straripava nell’istante in cui lei, dopo tre squilli, gli rispondeva.
    Durante la giornata Marco inseguiva Guido in modo programmato. Gli stava alle costole per cercarvi un’impronta di Rossana, gli si avvicinava per evocarne la fragranza. Si figurava a far l’amore con lei. E stava male.
    Fino all’ora della telefonata.
    Dieci minuti dopo l’uscita di Guido.


    Nell’ufficio buio il telefono brilla a palpiti, annunciando un artificio erotico costruito solo di pulsioni astruse. Ma l’atto fisico dell’attirarsi, allacciarsi, unirsi da amanti insaziabili, può averlo? No. Rossana era stata chiara: non sarebbe riuscita a lasciare il marito e non voleva tradirlo. Marco deve accontentarsi di uno squallido sesso virtuale. Che non gli basta.
    Meglio chiudere!
    Tagliare di netto il legame.
    Cancellarne il tormento protratto ormai da un mese.
    Di giorno e di notte.


    (Uno schiocco e la luminescenza impudica dei circuiti si spegne.)

    Rossana sentì girare la chiave nella toppa.
    A occhi chiusi sentì girare la chiave nella toppa e il marito entrare nel grande atrio rigoglioso di piante, districarsi nella foresta casalinga di ficus, filodendri, orchidee, appoggiare la borsa da lavoro sulla sedia di lato alla porta, togliersi il cappotto e appenderlo nell’armadio dalle ante scorrevoli tappezzate di seta grezza color écru.
    Gesti calibrati ed eleganti.
    Nessun eccesso.
    Gradevole, senza affettazione alcuna.
    Capelli biondi. Di un biondo chiarissimo.
    Alto e slanciato.
    Taciturno.
    L’interesse era nato da un casuale scambio di parole durante una festa di fine inverno. Poi, negli appuntamenti successivi, Rossana lo aveva giudicato: gentile, tenero, rispettoso, molto cavaliere insomma: una persona d’altri tempi. Ne ammirava il candore apprezzando il trasporto con cui le si affidava.
    Iniziò a dire di essersene innamorata. Grazie al suo carattere, e inoltre perché - confessava all’amica più cara - possedeva altri pregi: una stimata famiglia d’origine, una buona cultura e l’atteggiamento sdegnoso di chi ha classe da vendere. Motivi, questi, sufficienti per un matrimonio, riteneva Rossana imbevuta di futilità convenzionali.
    E lo sposò.
    In quattro e quattr’otto.
    Con l’appoggio della madre e del padre bendisposti verso Guido: il compagno adatto alla loro umoralissima figlia. Ne avrebbe disciplinato la giovinezza focosa a picchi emotivi imprevedibili, assicurandole un decoroso domani nei migliori ambienti della città grazie al suo prestigio sociale e a un patrimonio florido. I giorni le sarebbero fluiti senza le sventatezze e i rimorsi tardivi cancellati dai velocissimi colpi di spugna suoi tipici. Tratti che l’età adulta avrebbe temperato, smussandone le spinosità.
    Questo le avevano prospettato i genitori a garanzia di un vivere secondo criterio. Questo aveva creduto lei fino a quel fatidico pomeriggio, quando, scrutando il collega che il marito le presentava, tese la mano e mormorò Rossana al suo energico Marco. Scossa da brividi come cuspidi elettriche. Perché, in una frazione di secondo e per incanto, si era sentita perdere in quegli sfrontati occhi scuri capaci di esorcizzare il malocchio zuccheroso in cui l’avevano invischiata la madre, il padre, Guido.

    I giorni a seguire furono dissestati da reazioni ambigue. Lei, troppo legata alle banali consuetudini per capire e scegliere, troppo debole per avere la forza di rompere schemi, era vissuta secondo cadenze altrui, lontanissime dalle sue. Negli occhi di Marco si era riconosciuta e ritrovata. L’essenza genuina adesso poteva trionfare, spazzare prepotente la polvere della sua quotidianità. Non era più il robot anestetizzato, drogato di perbenismo e incentivato con regali costosi, viaggi, vita mondana di una ripetitività stomachevole. Non avrebbe ulteriormente sopportato le ipocrisie del matrimonio a cui si era arresa.
    La sua diversità prorompeva.
    Il suo odore, per un processo di maturazione talmente intenso da darle il capogiro, denunciava uno scombussolio radicale. Si stava trasformando in una femmina primitiva, avida e focosa. E lei si inebriava del recente stato, come una lupa del suo calore. Il sangue le turbinava nelle vene con l’impeto di un fiume che non si adegua all’alveo artificiale, si ribella, travolge le dighe progettate ed erette dall’uomo.
    L’aspettava un’esperienza selvaggia.
    Attorno a lei c’era un mondo da esplorare in cui si sarebbe avventurata per intridersi di balsami e veleni.
    E non voleva altro, preda di un violento spasimo che si irradiava dalla bocca dello stomaco a conquistarla tutta.

    Cosa posso fare? si arrovellava Rossana servendo la cena. Un automa sorridente e oliato a dovere, la Rossana di Guido. Un fantasma contratto e smanioso, la Rossana di Marco. E Guido parlava, felice della festa a sorpresa, grato delle cure insperate.
    La lodava, le diceva: Ti amo, ti amo moltissimo, più della mia stessa vita.
    L’amava più della sua stessa vita.
    Parole insopportabili, esca per un effetto esplosivo. Le si ripercossero dentro fino a strapparle ogni percezione comune. E quando Guido si alzò, le si accostò e fece per abbracciarla, Rossana reagì con la ferocia di una belva aggredita. Sentiva il battito del cuore tempestarle contro il petto. La vera natura, sepolta sotto cumuli di scorie, tentava di scavare un varco per guadagnarsi l’aria.
    In un momento il passato fu raschiato via, la Rossana di Guido, rimossa. Al suo posto andava enucleandosi una creatura inesorabile.
    La nuova Rossana respinse Guido, scaraventandolo contro le ampie portefinestre. E mentre lui annaspava esterrefatto tra il vaporoso bisso che le schermava, abbrancò dalla credenza un antico scaldavivande a fornello e glielo gettò contro. Il liquido infiammabile fuoruscì in spruzzi e impregnò la camicia di Guido e i tendaggi.
    Per Rossana fu un segnale.
    Vorticando in una sorta di sabba allucinato, afferrò a una a una le numerose candele accese disseminate per la stanza e le scagliò sul combustibile versato. Intanto, piatti e bicchieri finivano a terra in schegge immonde di cibo.
    Le fiamme si appiccarono voraci. Attizzate da un soffio sovrumano, strisciarono con artigli blu-arancio sui muri intonacati a calce, sugli infissi di legno, sui mobili. Se ne impadronirono con un boato ruggente. Davanti a lei, stravolta dall’eccitazione, il fuoco esultò stringendo Guido in una trappola mortale.

    Rossana è oltre la sua stessa materia, in una galassia parallela dove tutto si può commettere senza restarne contaminati.
    Le finestre della casa sono occhi vermigli dalle ciglia dense d’ombra, le vampe sono capelli che ondeggiano in riccioli catramosi. E lei, in trance davanti allo spettacolo, va cantilenando ritornelli propiziatori mai osati. Si riscuote solo al tocco delle lingue ardenti che le leccano le ballerine di vernice, quasi a raccomandarle di andarsene dalla stanza in cui i mazzi di rose secche crepitano e gli ironici animali nelle incisioni acquerellate di William Beard si contorcono, sfarinandosi in cenere.
    Cenere: la sostanza giusta per il passato da ripudiare. Paradossale cenere fluida, in marea montante a coprire il nauseabondo odore di buono cesellatole addosso. A cancellare l’amore di un uomo che l’ama più della sua stessa vita e che ora, nell’occhio di una spirale scarlatta, si dibatte, incapace di salvarsi per il suo stesso stordimento.

    Si riscosse, dunque, e si precipitò in giardino.
    Planò sull’erba scricchiolante di gelo, si voltò a guardare il nucleo del barbaro olocausto – solo per una frazione di secondo –, ruotò su se stessa e incominciò a correre.
    L’itinerario del destino si snodava tortuoso.
    E lei lo seguiva.
    Tenebra al fondo della strada.
    L’ansimare del seno nella corsa e una pulsazione oscena che la penetrava invadendola tutta. Parossistica come un orgasmo.
    Una lingua vibrante le avrebbe dischiuso il futuro.
    Tra le labbra livide della notte.


lunedì 14 febbraio 2022

Prosa / Il ritorno (da "Davvero così").


Fotografia di kissearth (Pixabay).


    Premessa
    Un uomo cammina adagio lungo la strada maestra per il paese di R****, sorto in epoche lontane attorno a un modesto castelliere di passo ed estesosi poi, tra erosi massi bianchi, fino ai prati dell’altipiano omonimo.
    Sta per arrivare.
    Là, dopo la curva dai cigli a roveti, c’è la dimora di nascita, in cui ha trascorso una scanzonata fanciullezza da figlio unico, futuro erede di un nome illustre e di un’imponente fortuna, e dove, per uno scarto del destino, è rovinato in un’incrinatura insondabile.
    Qualche centinaio di passi ancora ed entrerà nel parco secolare.
    In sprazzi di lucidità crescente lo ricorda misto di essenze arboree autoctone come le querce, i faggi, i carpini; e piantate dall’uomo con cura irrispettosa dell’habitat originale come i cedri del Libano, gli olivi, le palme.
    Entrerà e prenderà il sentiero di sinistra dopo il cancello, taglierà per la boscaglia di ruschi, e si fermerà davanti alla grotta chiusa dall’inferriata ad arzigogoli pomposi rivista, da quando se n’è andato, solo nei sogni frenetici in cui talvolta scivola malgrado la scelta irremovibile di veglia. Appena la sfinitezza gli appesantisce le palpebre, essa appare in infinite varianti: accesa dal riverbero del tramonto, baluginante nell’argento soffuso di una notte di luna, umida per le piogge autunnali, brinata di gelo, infuocata alla calura di agosto, ingentilita dai teneri tralci di viti ed edere in primavera.
    Si materializza sospesa in coordinate fantastiche. Il prodigioso varco verso un mondo buono e gradevole. Consolante.
     

    Da che luogo viene?
    Da una subdimensione chiamata con una parola semplice e assieme minacciosa, quanto il supplizio che evoca.
    Manicomio.
    Questa è la parola.
    Melodiosa alla pronuncia, con una sola durezza al centro: “c”. Un carattere dalla foggia grafica di cerchio interrotto. Ossia cerchio imperfetto.
    Un microcosmo ostile, in cui la voragine delle allucinazioni ha la consistenza azzurra del volto di una donna dal profilo di nuvola.
    O verde come la campagna vietata oltre le sbarre delle finestre.
    O nera come la mano di chi scava e scava per ritrovare la figlia custodita nel cuore della terra.
    Ha il raro sorriso dell’infermiera e l’espressione tronfia del medico piegato su di te a sperimentare l’efficacia terapeutica di oblii artificiali.
    Bramoso di capire.
    Capire…, cosa capire?
    Che tu sei là per uno schianto del tuo passato.
    Che tutto vorresti fuorché trovarti là, oppure che tutto vuoi fuorché non essere là.
    Che ci sei arrivato con le dita insanguinate per lo spasmodico aggrapparti. Con le palpebre cucite per poter vedere solo le tue visioni. Con le labbra sigillate per parlare solo ai tuoi fantasmi così veri da farci l’amore. Notte dopo notte, tra estasi e ribrezzo. E gridare, poi, e ridere, e piangere esausto nel tuo letto solitario.
    Il Manicomio è la Grande Casa traboccante di occhi dilatati sulle tue nudità.
    È Terra promessa e sepolcro.
    Finché…, finché non decidono per te.
    Magari dopo una vita.
    Dimenticata vita di cui ha buttato via la chiave chi doveva amarti.
    Decidono per te e ti dichiarano dimesso.
    Non guarito dalle tue vertigini funeste, ma dimesso perché abbastanza calmo, socievole, non più turbato da parvenze femminili, grotte, cancellate di metallo, sorgenti dalle acque millenarie.
    Pressoché disciplinato, pare.
    Manicomio: un bagliore su lembi di verità e un volo a precipizio nel buio di abissi personali.
    Te lo porti dentro, con la sua “c” mediana dalla coda acuminata infissa nell’anima.

    L’uomo della storia, Stefano, viene da un posto come quello.


    La storia

    Stefano sta per arrivare al fondo della strada.
    Percorre l’ultimo tratto frenando l’impazienza.
    Non manca molto, alla meta.
    Centellinando i particolari, se la figura con l’aspetto di un tempo. Visualizza il costone roccioso affacciato sul pianoro, la grotta scavata nel suo fianco dallo stillare dell’acqua in milioni di anni, l’ampollosa cancellata a chiusura.
    Il ritorno deve essere una liturgia solenne.
    Ripassa dunque, tra sé e sé, la serie dei gesti da compiere con ordine meticoloso: insinuare le mani nell’intrico di tralci d’edera e vite, appoggiarle sul ferro scalfito dal tempo, seguirne i contorni, indugiare sulle volute, sulle sagome stilizzate delle rose ornamentali per esporne le ferite e annullarvi le proprie.
    Niente può fermarlo.
    Niente e nessuno.
    L’esorcismo della lontananza si è sgretolato giorno dopo giorno scalando il Calvario dell’alienazione, un fiato alla volta verso l’ineluttabile in attesa laggiù, alla fine dell’itinerario già tracciato. Ha pagato il suo debito con l’orrore di polsi e fianchi inchiodati a un letto, lottando contro angeli blasfemi che gli accarezzavano il sesso.
    Il bagno di purificazione da colpe e rimorsi è avvenuto nel Padrenostro ostile della Grande Casa.
    Amen.

    Diletta si muove diafana nell’universo opaco della grotta, dove i ricordi si sovrappongono alle fantasie.
    Sono rimasta com’ero e forse lui non mi vorrà, mormora incredula del sussulto avvertito in sé alla notizia del suo ritorno. Gliel’ha annunciato la fonte perenne al centro della grotta. Con voce squillante le ha descritto il peregrinare di Stefano: i viottoli affrontati palmo a palmo, le soste sotto alberi frondosi o in ricoveri precari, le marce forzate e l’ultima tappa nel paese vicino. Parlava, parlava la fonte, a scrosci, a zampilli; poi taceva, acquietandosi nel lago improvvisamente fermo del suo specchio, riflettendo la luce degli occhi eterni della fanciulla. E lei splendeva, sorpresa della magia.
    Tra poco entrerà, sussurra Diletta ravviandosi i capelli con le mani d’avorio. Tra poco entrerà e io potrò alleviargli le pene, sospira vibrando di battiti traslucidi come ali di libellula in volo.


    Stefano procede incurante della temperatura torrida, pronto a indagare ogni dettaglio del paesaggio circostante per carpirne i messaggi.
    Sempre che la memoria non lo inganni, la strada gli sembra uguale, con le stesse buche polverose e gli stessi gelsi a indicare l’accesso alla villa, trascurata da molto per la morte di chi se l’era comperata dai suoi genitori in fuga sia dalla nevrosi del figlio (oh, se sconveniente! troppo inelegante!), sia dalle battaglie affettive da sostenere. Con un cospicuo lascito e un tutore di provata onestà avevano assicurato il futuro materiale di Stefano, dileguandosi verso un altrove insignificante per lui che rifiutava caparbio il cosiddetto normale. L’antica casa di nascita era ormai preda solo delle bizze stagionali. Nel congedo gliel’avevano rivelato medici e infermieri – raccomandando di non ritornarvi, per evitare ricadute – e Stefano ne aveva tratto un conforto tale da sentirsi felice.
    E felice lo è anche adesso alla vista del fossato in cui spariva per la caccia alle lucertole durante la stagione arida o navigava da prode Capitan Achab dopo le piogge di settembre. Tanto felice da voler protrarre quell’osservazione minuziosa. Così, indugia sulle crepe del muretto di cinta e sulle colonnine di mattoni calcinati dal bollore estivo per poi rivolgere lo sguardo alle curve avare delle colline stagliate contro il colossale scenario dei monti.
    Le colline. Un tempo credeva di poterle toccare se solo avesse steso una mano.
    Tutto come allora…, considera Stefano, ritrovando intatto in sé l’itinerario da seguire fino alla grotta: difilato tra i bossi piuttosto radi ai lati dell’entrata principale, a sinistra giù per il viottolo degli allori, dopo la macchia estesa dei noccioli, delle querce, oltre il rusco spinoso, al di là del primo avvallamento verso il limite occidentale della proprietà costellato di poderosi macigni alluvionali in caotica coreografia. Resti di un gioco a dadi di giganti. Avanza veloce Stefano, ed eccola, la grotta! Le è davanti mentre il cielo sbiadisce per l’afa e i pampini delle edere e delle viti, in intricato viluppo, fibrillano un saluto. Spinge le dita nella coltre spessa e allarga un’apertura sull’interno. Gli arabeschi rugginosi della cancellata intarsiano l’aria cupa come lettere di un racconto gotico. La D di D’Arcois (il suo casato), riemerge dal groviglio di rami e foglie. Può fungere da passaggio, abbastanza larga e comoda com’è, cedevole senz’altro per la corrosione.
    Stefano, però, vuole riportarla completamente alla luce, la cancellata.
    Nell’ultimo periodo di degenza al Manicomio, colmo di una nuova pacatezza, ha osato immaginare il momento e si è preparato.
    Depone a terra lo zaino, lo apre e ne leva a uno a uno dei sacchetti di velluto bianco, scelti con il rigore di un’ossessione salvifica tra gli oggetti prodotti da mani compagne nei laboratori della Grande Casa: alcuni piccoli, altri medi, uno grande. Ne slaccia i nodi, ne estrae degli utensili che dispone sul suolo secco: seghetti, cesoie e una scure. Semplici arnesi comperati durante il pellegrinaggio a ritroso e votati alla religione ingenua dei loro contenitori.
    Il lavoro può iniziare.
    Stefano recide e strappa, colpisce con l’accetta i tronchi dell’edera, delle viti. Libera a poco a poco l’inferriata, ignaro ancora dei simulacri nascosti dietro i suoi ghirigori barocchi.
    Al blando calare della sera l’accesso è praticamente sgombro. È ora di riposare sotto l’enorme luna color crema di latte elargita dal cielo. Una cena frugale di pane e frutta, lo zaino per cuscino, si rannicchia ai piedi di una quercia centenaria tra le radici affioranti dal terreno a forma di culla.
    Per la prima volta da quando ha lasciato quei luoghi e le loro larve, dorme un sonno placido.


    Diletta attende trepida che lui la raggiunga. Lo attende dall’ultimo gioco di ombre cinesi.
    Quanti anni aveva?
    Dodici?
    Sì, dodici teneri anni.
    E da quanti non vede Stefano?
    Oh, questo non lo sa, ma non ha importanza, conta il ritrovarlo e fargli capire di essere tornato nel luogo giusto. Finito il viaggio, sei a casa, bisbiglia preavvertendo lo scalpiccio dei suoi passi al di qua della soglia.


    È l’alba.
    Stefano si è svegliato al suo incedere rosa e ha finito di ripulire l’inferriata dall’esuberanza vegetale. Regolato il disordine, può disserrare lo scrigno dove, forse, si trova la risposta della sua ricerca. Tra un attimo ne violerà il segreto. Uno strattone alla catena agganciata alle grandi lettere dei cancelli e sarà dentro la grotta, sceso in se stesso e nel sogno a cui Diletta l’ha chiamato dal cuore di un vortice di acque insondabili, la mano tesa in un invito.


    Ecco il glicine e il giallo dell’aurora, la grotta è un caleidoscopio di colori. Diletta danza attorno a Stefano che entra.
    Come sei cambiato! si stupisce fasciandolo nella nube della chioma, toccandogli fugacemente il volto pallido e incavato, i capelli incanutiti, gli occhi tetri più degli angoli inaccessibili della grotta.
    Qui invece è tutto identico, gli dice in un soffio.
    Per te ho continuato a fantasticare sulla nostra storia e ti chiamavo. Ti ho chiamato da subito, triste perché non eri con me e non capivo. Io ricordavo solo il tuo nome e il nostro stare insieme.
    Diletta ha un fremito, abbassa il capo smarrita in una visione angosciosa. È un istante. Si riscuote e riprende a parlare: Ma il filo dell’amore che ci univa non si è mai spezzato. Ora tu sei qui e mi vedrai. In questo tempo dell’attesa ho intrecciato i nostri destini, simili a sottili ma tenaci tele di ragno. Tenaci
oltre la morte. E tu lo sai, Stefano. Fra poco rivivremo come ombre cinesi.

    Stefano è nella grotta. Sente una voce dagli accenti familiari. Le sensazioni si accumulano. La ragione vacilla. Si snodano sulle rocce frammenti dell’acerba adolescenza.
    Vede quanto ha rifiutato per anni di correlare al suo vissuto: una ragazza dai capelli nerissimi, un ragazzo esuberante, le corse al nascere del sole estivo balzando in tumulto dai propri letti, gettandosi a perdifiato fuori di casa per essere, all’apparire dei primi raggi, già nella grotta e inscenarvi il gioco delle ombre cinesi.
    Vede lei saltare sollevando con le braccia la mantellina di garza trapuntata di fiordalisi, agitarla in controluce a mo’ di graziosissima farfalla, atterrare sui sassi viscidi al bordo della polla, sdrucciolare, battere la testa, rimanere supina nell’acqua.
    Nell’acqua rossa di sangue.
    Lei, Diletta, involarsi per sempre.
    Lui, Stefano, assistere impotente.
    E quel dolore…, che lo subissa a ondate, che lo invade stravolgendolo ancora.

    Il dramma si è compiuto per la seconda volta.
    In un regresso inevitabile il cerchio si è serrato.
    Il pianto di Stefano si mescola al mormorio dell’acqua. I suoi singulti sono cuspidi di consapevolezza nel riaffiorare pieno della coscienza. Esili sembianti scaturiscono dai recessi delle rocce. Non definiti ma liquidi. Baluginano simulando alterazioni prodigiose. Creatura eterea in armonia con il miracolo dell’amore oltre la morte, lei rinasce.
    Stefano, al centro della grotta, respira veloce, quasi a per inalarne l’essenza dall’aria satura di particelle dorate. Non scorrono più lacrime sulle sue guance.
    Sorride.
    Adesso sa: quel viaggio convulso aveva lo scopo di ricongiungerlo a Diletta in un vertice di perfezione.
    Stefano abbassa gli occhi sulla fonte e la vede.
    Diletta si muove verso di lui.
    Le sue labbra compitano un messaggio che gli si propaga nel cuore come un’eco.
    Lo invita a guardarsi attorno.
    E Stefano guarda.
    La grotta sfolgora di miraggi che si fanno concretezza: la villa con la loggia al primo piano carica di rose rampicanti, gli allori, la macchia di noccioli e querce, il sentiero ben segnato, le palme, i prati, le rocce dei Giganti, i monti cinerini, la cancellata, le edere e le viti potate di fresco, la grotta. E proprio davanti alla grotta due ragazzi si incontrano, si abbracciano, posano la testa l’uno sulla spalla dell’altro, stanno per un po’ abbandonati al senso ritrovato dei loro corpi, si prendono per mano e ne varcano la soglia.


    Epilogo

    Dicono gli alberi, stormendo complici, che la fonte tacque e un silenzio sovrumano invase la grotta.
    Mentre il sole conquistava le vette del cielo, le sue pareti rimpietrarono assieme alla storia.
    Ormai non c’era più nulla da narrare.
    Stefano era entrato nel sogno.
    E aggiungono gli alberi, piegando rami e scrollando fronde di quel tanto sufficiente a parlottare in gran riserbo, aggiungono che qualsiasi risveglio gli sarà dolce.
    Finalmente dolce.