mercoledì 16 marzo 2022

Prosa / Tra le labbra livide della notte ( Da "Davvero così").

 

Irene Navarra, Rossana, Disegno grafico, 2022.

    Appoggiata rigidamente allo schienale della bergère su cui si era appena seduta, Rossana fissava il cellulare che teneva chiuso tra le mani giunte a conchiglia. Quasi pregasse. In uno stato di forte tensione, attendeva l’accendersi del display. Le note del Bolero di Ravel avrebbero scosso il silenzio e lei avrebbe pigiato il tastino di risposta trasalendo di gioia.
Nel tinello attiguo al salotto la tavola era preparata per la cena. Un allestimento perfetto che Rossana non degnava d’attenzione. Come se non la riguardasse, pur essendone l’autrice. La tovaglia di fiandra verde pallido cadeva compatta fino a terra, le candide porcellane di Limoges e i bicchieri in vetro soffiato Venini scintillavano, due minibouquet d’edera e bucaneve ornavano i tovaglioli riprendendo i motivi floreali del tessuto, le posate d’argento dalla foggia estrosa completavano la raffinata ricercatezza dell’apparato.
    Tutto era pronto anche nella minuscola cucina lucida di smalti, già rassettata con cura maniacale.
    Sul bancone dal ripiano di marmo se ne stavano allineate in bell’ordine le pietanze: il fagiano arrosto, la purea di patate, la salsa al ribes, il radicchio canarino al gratin, la crostata di mele odorosa di vaniglia. Un aromatico Manzoni rosso avrebbe accompagnato la selvaggina, un Ramandolo barricato in rovere bianco, il dolce. Il primo l’aveva scaraffato per l’ossigenazione in un prezioso decanter Lalique della linea Roxane, dono di nozze di una cugina per l’omonimia casuale con il suo nome, Rossana appunto. Il secondo, invece, era nel frigo-cantina affinché mantenesse la temperatura ideale di 14°.
    All’arrivo di Guido, suo marito, le sarebbe bastato pochissimo per riscaldare il cibo: un velo di panna e uno spruzzo di cognac sulla carne, una noce di burro e una lacrima di latte nella purea. Pochissimo…, si ripeteva distratta cincischiando il tubino nero che le aderiva alle curve prosperose, e strusciando sul parquet i piedi sottili calzati di ballerine di vernice.
    Si sentiva bella, pronta per un’occasione importante, ma il cellulare non dava segni di vita.
    Mancava meno di mezz’ora al rientro di Guido e l’apparecchietto sembrava provocarla con un’assoluta immobilità da scarabeo in letargo.
    Marco, l’altro, forse non aveva nessuna intenzione di chiamarla.
    Il panico le chiuse la gola.
    Così decise: ancora dieci secondi e avrebbe disattivato l’aggeggio infernale dimenticando quell’appuntamento che durava da un mese. Tutti i giorni tranne il sabato e la domenica, quando il marito era a casa.
    Quando il marito era a casa, lei aveva la sensazione di sdoppiarsi: la Rossana di Guido soggiaceva, stucchevole e solerte. La Rossana di Marco, acquattata in una piega della mente, soppesava quel suo clone codardo con vibrazioni da cacciatrice, disprezzandolo per i sorrisi, i riti, le ovvietà.
    Sminuzzava metodica nella tana il tempo che la separava dal lunedì.
    Come si sbriciola un pezzo di pane.
    Gli occhi colmi di disagio e nascosti sotto il velo delle palpebre.

    Marco tese d’impulso la mano verso il telefono dal contenitore trasparente, chiaro per la fosforescenza dei circuiti nell’ufficio conquistato dall’ombra della sera. A metà gesto si pentì. E la mossa si alterò scomponendosi in rapide fasi: un elusivo baluginare, un brusco indugio a mezz’aria, l’arretramento, il blocco. La macchia immobile della mano sul ripiano della scrivania sembrava dichiarare il proprio arbitrio. Gli ribadiva il dovere della presa di coscienza con la sua ostentata inerzia.
    Durò un po’ la stasi.
    Poi, repentinamente, le dita incominciarono a battere un loro alfabeto, trasmettendogli un messaggio: Cose da non farsi…, da non farsi…, da non farsi. E le sillabe, frutto senza dubbio di sovreccitazione, si combinavano in echi enigmatici. Lo inondavano di turbamento per la passione accesasi in lui quando, mentre Guido gli presentava Rossana, si era sentito rovistare fino in fondo all’anima dai suoi occhi di giada.
    Ogni sera era la stessa storia.
    All’uscita di Guido dall’azienda in cui entrambi lavoravano le telefonava e, nell’attesa del suo
Finalmente!, centellinava le emozioni, collocandole una per una nella casella giusta, accanto all’immagine giusta, in desideri fiammanti.
    I capelli fulvi di Rossana: una cascata di papaveri sopra il suo petto.
    Le labbra di Rossana: fichi maturi da mordere, succhiando umori speziati.
    La voce di Rossana: un’acqua ribollente sulla pelle.
    Il solo pensare alla sua voce gli dava una sorta di struggimento spossato, la preparazione necessaria all’ebbrezza sensuale che straripava nell’istante in cui lei, dopo tre squilli, gli rispondeva.
    Durante la giornata Marco inseguiva Guido in modo programmato. Gli stava alle costole per cercarvi un’impronta di Rossana, gli si avvicinava per evocarne la fragranza. Si figurava a far l’amore con lei. E stava male.
    Fino all’ora della telefonata.
    Dieci minuti dopo l’uscita di Guido.


    Nell’ufficio buio il telefono brilla a palpiti, annunciando un artificio erotico costruito solo di pulsioni astruse. Ma l’atto fisico dell’attirarsi, allacciarsi, unirsi da amanti insaziabili, può averlo? No. Rossana era stata chiara: non sarebbe riuscita a lasciare il marito e non voleva tradirlo. Marco deve accontentarsi di uno squallido sesso virtuale. Che non gli basta.
    Meglio chiudere!
    Tagliare di netto il legame.
    Cancellarne il tormento protratto ormai da un mese.
    Di giorno e di notte.


    (Uno schiocco e la luminescenza impudica dei circuiti si spegne.)

    Rossana sentì girare la chiave nella toppa.
    A occhi chiusi sentì girare la chiave nella toppa e il marito entrare nel grande atrio rigoglioso di piante, districarsi nella foresta casalinga di ficus, filodendri, orchidee, appoggiare la borsa da lavoro sulla sedia di lato alla porta, togliersi il cappotto e appenderlo nell’armadio dalle ante scorrevoli tappezzate di seta grezza color écru.
    Gesti calibrati ed eleganti.
    Nessun eccesso.
    Gradevole, senza affettazione alcuna.
    Capelli biondi. Di un biondo chiarissimo.
    Alto e slanciato.
    Taciturno.
    L’interesse era nato da un casuale scambio di parole durante una festa di fine inverno. Poi, negli appuntamenti successivi, Rossana lo aveva giudicato: gentile, tenero, rispettoso, molto cavaliere insomma: una persona d’altri tempi. Ne ammirava il candore apprezzando il trasporto con cui le si affidava.
    Iniziò a dire di essersene innamorata. Grazie al suo carattere, e inoltre perché - confessava all’amica più cara - possedeva altri pregi: una stimata famiglia d’origine, una buona cultura e l’atteggiamento sdegnoso di chi ha classe da vendere. Motivi, questi, sufficienti per un matrimonio, riteneva Rossana imbevuta di futilità convenzionali.
    E lo sposò.
    In quattro e quattr’otto.
    Con l’appoggio della madre e del padre bendisposti verso Guido: il compagno adatto alla loro umoralissima figlia. Ne avrebbe disciplinato la giovinezza focosa a picchi emotivi imprevedibili, assicurandole un decoroso domani nei migliori ambienti della città grazie al suo prestigio sociale e a un patrimonio florido. I giorni le sarebbero fluiti senza le sventatezze e i rimorsi tardivi cancellati dai velocissimi colpi di spugna suoi tipici. Tratti che l’età adulta avrebbe temperato, smussandone le spinosità.
    Questo le avevano prospettato i genitori a garanzia di un vivere secondo criterio. Questo aveva creduto lei fino a quel fatidico pomeriggio, quando, scrutando il collega che il marito le presentava, tese la mano e mormorò Rossana al suo energico Marco. Scossa da brividi come cuspidi elettriche. Perché, in una frazione di secondo e per incanto, si era sentita perdere in quegli sfrontati occhi scuri capaci di esorcizzare il malocchio zuccheroso in cui l’avevano invischiata la madre, il padre, Guido.

    I giorni a seguire furono dissestati da reazioni ambigue. Lei, troppo legata alle banali consuetudini per capire e scegliere, troppo debole per avere la forza di rompere schemi, era vissuta secondo cadenze altrui, lontanissime dalle sue. Negli occhi di Marco si era riconosciuta e ritrovata. L’essenza genuina adesso poteva trionfare, spazzare prepotente la polvere della sua quotidianità. Non era più il robot anestetizzato, drogato di perbenismo e incentivato con regali costosi, viaggi, vita mondana di una ripetitività stomachevole. Non avrebbe ulteriormente sopportato le ipocrisie del matrimonio a cui si era arresa.
    La sua diversità prorompeva.
    Il suo odore, per un processo di maturazione talmente intenso da darle il capogiro, denunciava uno scombussolio radicale. Si stava trasformando in una femmina primitiva, avida e focosa. E lei si inebriava del recente stato, come una lupa del suo calore. Il sangue le turbinava nelle vene con l’impeto di un fiume che non si adegua all’alveo artificiale, si ribella, travolge le dighe progettate ed erette dall’uomo.
    L’aspettava un’esperienza selvaggia.
    Attorno a lei c’era un mondo da esplorare in cui si sarebbe avventurata per intridersi di balsami e veleni.
    E non voleva altro, preda di un violento spasimo che si irradiava dalla bocca dello stomaco a conquistarla tutta.

    Cosa posso fare? si arrovellava Rossana servendo la cena. Un automa sorridente e oliato a dovere, la Rossana di Guido. Un fantasma contratto e smanioso, la Rossana di Marco. E Guido parlava, felice della festa a sorpresa, grato delle cure insperate.
    La lodava, le diceva: Ti amo, ti amo moltissimo, più della mia stessa vita.
    L’amava più della sua stessa vita.
    Parole insopportabili, esca per un effetto esplosivo. Le si ripercossero dentro fino a strapparle ogni percezione comune. E quando Guido si alzò, le si accostò e fece per abbracciarla, Rossana reagì con la ferocia di una belva aggredita. Sentiva il battito del cuore tempestarle contro il petto. La vera natura, sepolta sotto cumuli di scorie, tentava di scavare un varco per guadagnarsi l’aria.
    In un momento il passato fu raschiato via, la Rossana di Guido, rimossa. Al suo posto andava enucleandosi una creatura inesorabile.
    La nuova Rossana respinse Guido, scaraventandolo contro le ampie portefinestre. E mentre lui annaspava esterrefatto tra il vaporoso bisso che le schermava, abbrancò dalla credenza un antico scaldavivande a fornello e glielo gettò contro. Il liquido infiammabile fuoruscì in spruzzi e impregnò la camicia di Guido e i tendaggi.
    Per Rossana fu un segnale.
    Vorticando in una sorta di sabba allucinato, afferrò a una a una le numerose candele accese disseminate per la stanza e le scagliò sul combustibile versato. Intanto, piatti e bicchieri finivano a terra in schegge immonde di cibo.
    Le fiamme si appiccarono voraci. Attizzate da un soffio sovrumano, strisciarono con artigli blu-arancio sui muri intonacati a calce, sugli infissi di legno, sui mobili. Se ne impadronirono con un boato ruggente. Davanti a lei, stravolta dall’eccitazione, il fuoco esultò stringendo Guido in una trappola mortale.

    Rossana è oltre la sua stessa materia, in una galassia parallela dove tutto si può commettere senza restarne contaminati.
    Le finestre della casa sono occhi vermigli dalle ciglia dense d’ombra, le vampe sono capelli che ondeggiano in riccioli catramosi. E lei, in trance davanti allo spettacolo, va cantilenando ritornelli propiziatori mai osati. Si riscuote solo al tocco delle lingue ardenti che le leccano le ballerine di vernice, quasi a raccomandarle di andarsene dalla stanza in cui i mazzi di rose secche crepitano e gli ironici animali nelle incisioni acquerellate di William Beard si contorcono, sfarinandosi in cenere.
    Cenere: la sostanza giusta per il passato da ripudiare. Paradossale cenere fluida, in marea montante a coprire il nauseabondo odore di buono cesellatole addosso. A cancellare l’amore di un uomo che l’ama più della sua stessa vita e che ora, nell’occhio di una spirale scarlatta, si dibatte, incapace di salvarsi per il suo stesso stordimento.

    Si riscosse, dunque, e si precipitò in giardino.
    Planò sull’erba scricchiolante di gelo, si voltò a guardare il nucleo del barbaro olocausto – solo per una frazione di secondo –, ruotò su se stessa e incominciò a correre.
    L’itinerario del destino si snodava tortuoso.
    E lei lo seguiva.
    Tenebra al fondo della strada.
    L’ansimare del seno nella corsa e una pulsazione oscena che la penetrava invadendola tutta. Parossistica come un orgasmo.
    Una lingua vibrante le avrebbe dischiuso il futuro.
    Tra le labbra livide della notte.


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