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lunedì 14 novembre 2022

Prosa / il gran finale (da "Davvero così").

Amo moltissimo questo racconto  perché mi rappresenza appieno.


Irene Navarra, Il gran finale, Disegno grafico. 2022.

    Prima parte

    Il cielo notturno sfavilla di luminescenze vivaci. Fontane magenta, ditate bronzee, guglie turchine frammiste a enormi crisantemi di un arancio sfacciato, rose purpuree, iris dai pistilli giallo zafferano, sontuose dalie lilla-oro, meteoriti di zolfo e smeraldo, torce di rubini, dardi di topazi si incalzano a scrosci e girandole.
    La notte sembra adirarsi, accecata dalla luce, nemica del suo segreto. La linea dell’orizzonte ora si confonde con l’indaco cupo del mare, ora deflagra in scintille che sfidano le tenebre.
    E poi…, il drago. Eccolo il drago.
    Nell’acqua rischiarata da miriadi di fiaccole affiora il manto delle ali aperte, la cresta arcobaleno. A fauci spalancate nel liquido bollore, inarcando la groppa, dimenando coda e zampe, rovesciando la testa, attende la battaglia.
    Turbinio di colori, crepitii, boati, il sibilo di spade sguainate, la caccia, il cavallo nero e il Cavaliere Morte in carrellata sullo schermo del cielo, nella distesa marina. Per qualche istante sospeso. Finché…

    Un clic fortissimo le esplose nel cervello.
    Il Ferragosto finisce qui! si impose Veronica ammirando i fuochi d’artificio, belli da togliere il fiato. Quest’anno il drago non può morire, rimarcò in tono sostenuto controllando a destra e a sinistra se qualcuno la scrutasse con sospetto per il suo sproloquiare solitario.
    Scarse persone presso il faro, eccelso sopra i tetti della città. Nessuno distolse gli occhi dall’incanto del mare.
    Meglio perdere parte dello spettacolo che veder morire il drago. Clic dunque! decise Veronica. Fine della morte del drago, fine della favola cruenta, fine dei fuochi.
    Un flessuoso movimento dei fianchi, una piroetta, e si allontanò nella notte scarlatta per fugaci fiamme fatue.

    La storia della morte del drago continuava a stregarla. La visione era un simbolo, lo sapeva bene. Aveva contenuto il suo destino sin da quando, a cinque anni, l’aveva suscitata contemplando in visibilio i primi bengala, botti, castagnole, bombe della sua vita – mano nella mano del papà – dal terrazzo della loro nuova casa. Meraviglioso e vero era il drago pronto a combattere il Cavaliere Morte nel mare iridescente. Tanto vero da costringerla a gridare: Lo ammazzano! Non voglio!
    Chi ammazzano, chi? aveva chiesto il padre con un graffio di apprensione nella voce.
Ma il drago, papà! Stanno per ammazzarlo. Corriamo, dai, salviamolo!
    La cosa era stata presa come doveva: fantasia troppo fertile…, una preghierina alla Madonna l’avrebbe aiutata..., la camomilla alla sera l’avrebbe calmata.
    È un soggetto ipersensibile, crede alle favole, nulla di grave, diagnosticò un amico psicologo dopo aver chiacchierato con lei.
    È sana ma impressionabile. Tenetela lontana da quanto potrebbe turbarla: leggende e disegni inquietanti, persone strambe, sentenziò il medico di famiglia che l’aveva visitata dopo l’invenzione di Ferragosto. E dicendo ciò accennava con il capo ad Amelina, la tata, che la segnava con la croce e le infilava l’aglio e l’immaginetta di Gesù dal cuore ardente nella taschina del pigiama.
Veronica, peraltro, da quella sera aveva incominciato a smaniare nel sonno, a blaterare parole sconnesse, a scuotersi come se stesse vivendo esperienze tremende. La mattina, interrogata, raccontava che le ammazzavano il drago e lei lottava perché non succedesse.
Le ammazzavano il drago.
    Ma il drago non è un animale vero! ribatteva perplesso il padre.
    Il drago è come un cane, come un gatto, come una balena, ma più antico. Per timidezza se ne sta rincantucciato nel mare. Solamente i fuochi lo fanno uscire perché gli piacciono. E il Cavaliere Morte ne approfitta e lo uccide, rispondeva sicura Veronica.
    Il padre era piuttosto sgomento. Il cavaliere Morte scaturiva infatti pari pari dall’Apocalisse di Giovanni. Qualcuno doveva avergliene parlato e Veronica con la sua inventiva aveva fatto il resto. Incominciò a indagare. Le chiese se avesse sfogliato dei libri, quali e, senza aspettare un no o un sì di replica, con maldestra noncuranza le buttò là: Ti ha regalato qualcosa Amelina?
    La piccina lo aveva scrutato imbarazzata. Cosa doveva averle mai regalato Amelina, l’amata, anziana, grassoccia e simpatica Amelina che le faceva baciare i piedi piagati del Gesù crocifisso appeso sopra il lettino? che le recitava orazioni strampalate e divertenti all’ora della nanna? Scosse il caschetto castano senza proferire sillaba e il padre si rasserenò. Il drago era una creazione di Veronica, niente di più! Bisognava sdrammatizzare, ignorare, distrarla. Le portò un gattino, un trovatello macilento, leggero come una piuma: il primo (e Primo di nome) di una serie di cani e gatti, merli zoppi e ricci sopravvissuti con qualche acciacco alle traversate di carreggiata.
    Il drago sembrò andarsene, e a lui subentrarono schiere di derelitti in carne e ossa con accompagnamento di uggiolati, miagolii e trilli. La casa, il giardino, la rimessa si riempirono di scatole, recinti, cucce, gabbie senza la minima lagnanza da parte di nessuno.
    Purché non tornasse il drago. 
    Che invece tornava di notte, all’insaputa dei genitori, invadendo i sogni di Veronica, senza però causarle le ansie e i batticuori di una volta, data la netta, festosa vittoria sul Cavaliere Morte. Una sferzata di coda e l’assassino recidivo veniva sbalzato di sella, scagliato ai confini del cielo ed esiliato in un castello d’acciaio, mentre il cavallo, convinto a un pacifico dietrofront, era rispedito, con un’affettuosa pacca d’ala di drago sulle natiche color della pece, ai lucenti pascoli delle nubi, in una profusione di glicine e giallo croco. Con appagamento di Veronica che ridormiva il sonno del sasso.
    A sei anni, la notte di Ferragosto, come le era già successo – per davvero insomma, da sveglia – lei rivide il drago, il Cavaliere, il cavallo, la battaglia e rivisse il dolore della sconfitta, ma si tenne la notizia per sé. A sette anni fu la medesima cosa, identica a otto, a nove…, e avanti uguale: fantasmagorie di giochi pirotecnici nel cielo, un ribollio nel mare, clap clap di zoccoli, una spada traslucida sulla testa dalle squame policrome, la lotta, la morte del drago e la voglia di dormire per ritrovare le sequenze positive del drago vittorioso, tra squilli di trombe annuncianti il suo trionfo e la liberazione del cavallo.

    E questo perdura nel presente di Veronica, ormai ventiseienne, lo stesso caschetto castano, lo stesso piglio volitivo di quand’era bambina. Il fisico modellato con grazia naufraga in maglioni larghissimi e tute di jeans dalle tasche capaci. Cucite sulla stoffa in quantità incredibile, servono da mezzo di trasporto per cuccioli di qualsiasi specie. Così, fino a casa possono stare a loro agio e avere un po’ di ristoro dal suo amorevole corpo.
    Nulla era cambiato dall’infanzia. Tranne un fatto: ora lei salvava veramente il drago, ovvero gli esseri infelici del mondo animale, spendendo ogni sua energia nella clinica veterinaria dell’Università cittadina, dove si era diplomata a pieni voti e dove, giorno dopo giorno, il drago l’accompagnava da amico devoto, soffiandole nell’orecchio il consiglio giusto per aiutare quei figli di un dio minore. Là Veronica portava avanti una guerra santa, con passione inesauribile e il tocco taumaturgico della sua mano, o dell’ala del drago, come preferiva definirla se ripuliva una ferita, oppure riduceva una frattura causata dall’uomo, malvagio e ingrato con i suoi compagni di vita.
    Il drago era il Salvatore, di nome e di fatto: per Veronica che lo seguiva con fiducia illimitata, vista la vocazione di cui era stato messaggero, e per i protetti della giovane che lui sorvegliava bubbolando dalle narici enormi in disparati angoli della clinica. Ovunque ci fosse bisogno di lui, diceva Veronica ai colleghi che sapevano la storia del drago e pensavano scherzasse. Anzi, per celia, sull’architrave delle sale chirurgiche avevano appeso il seguente cartello:
Irene Navarra, Drago 1,
Grafica, 2022.
    CASA DI SALVATORE. Con entusiasmo di Veronica.
    E con soddisfazione di Salvatore.
    Il lavoro in clinica era duro e continuava a coinvolgerla in modo drammatico, malgrado sperasse nell’avverarsi delle parole dei maestri: Alla lunga ci si abitua! Parole, queste, improbabili o, per dire meglio, inattuabili. La zampa del drago, invero, la strattonava per un gomito quando, davanti ai soliti casi atroci, cercava di girare lo sguardo dall’altra parte.
    La richiamava all’ordine.
    E lei si adeguava.
    Di buon grado, se il cuore reggeva. 
    Talvolta però non ne poteva più, e allora scappava dalla città, verso le montagne che la circondavano con la loro cintura a ricami bianco-verdi. Si rifugiava nelle terre del Rio Fortunato, tale perché evitato dall’uomo. Troppo ripide le sponde, troppo impetuose le acque, niente bar e aziende agrituristiche raffazzonate alla bell’e meglio: soltanto natura e canto degli uccelli. Lande selvose indenni da cartacce, lattine, bottiglie di plastica, in cui vagabondava discorrendo tra sé e sé sommessamente per non disturbare le cince baccanone sugli alberi e i fringuelli in cerca di semi tra l’erba.
    Sussurrava al vento come le foglie e si muoveva con l’agilità felpata di un gatto selvatico.     La voce del bosco era la sua stessa voce.
    Là dimenticava brutture e afflizioni.

    Quel giorno, però, si discostò dall’acqua addentrandosi nel bosco per un confuso impulso.
Un confuso impulso.
    E il mattino di giugno pieno di promesse si adombrò mentre le franava addosso l’incubo    di ogni Ferragosto e il drago si inabissava in una palude limacciosa.
    Morendo indicava un punto rosso sangue pieno di dolore.

Il punto rosso sangue
è una creatura legata al palo,
lo sguardo spaurito,
il petto magro ansante per l’arsura.
Oltre il recinto decrepito,
davanti alla bicocca di lamiera e legno tarlato.


    Seconda parte

    Veronica liberò il cucciolo di cane dalle catene e si buttò nel bosco dirigendosi verso il corso d’acqua. Volava Veronica, incurante di sterpi e spine, le pupille dilatate fisse sul fardello che le penzolava tra le braccia.
    La fuga verso la salvezza ridarà forza al drago, salmodiava. Il drago può rinascere e parlare.
    E il drago parla davvero.
    In Veronica si dischiude una porta: ha cinque anni e guarda affascinata i fuochi d’artificio.
    La mano del padre l’ha lasciata, lei galleggia nell’aria. È pura luce. Entro breve lotterà contro il Cavaliere Morte in sella a un cavallo candido dai finimenti intessuti di stelle.
    I Sacri Testi avranno ragione.
    La Profezia, che le riecheggia dentro da tempo immemorabile, si compirà. Lo sa, ora. E va mormorandosela.

Aperto il settimo sigillo,
apparvero sette Angeli
con sette trombe
che si accinsero a suonare.
Il primo, il secondo, il terzo,
il quarto e il quinto Angelo
diedero fiato alle trombe
e ci fu grandine, fuoco, sangue.
Dal cielo cadde nei fiumi
e nel mare la stella Assenzio
e il mare e i fiumi furono amari.
Le locuste dalle code di scorpione
invasero la terra
salendo dal pozzo dell’abisso
per tormentare gli uomini
senza il segno di Dio sulla fronte.
Poi fu la volta del sesto Angelo.
Egli liberò i fratelli
sotto forma di cavalieri
dalle corazze fiammanti
in sella a cavalli dalle code di serpente,
e la terza parte degli uomini fu uccisa.

    Una litania di devozione per lei. Le dona vigore e l’aiuta a comprimere la rabbia in lucidi progetti di vendetta. Formule pronunciate all’unisono con la voce di Salvatore che, scrollando il dorso immane e stendendo le ali di smeraldo, riemerge incollerito dalla putredine del male.

    Veronica ritornava a casa con un altro derelitto. Sarebbe ridiventato un setter irlandese, se fosse riuscita a salvarlo.
    Ti chiamerò Salvo, gli disse aprendo il vano di carico della Uaz leopardata dalla ruggine e attrezzata con morbidi plaid. Povero tesoro, cosa ti hanno fatto! Guarda, Salvatore! È pelle e ossa, non riesce a reggere la testa da tanto è stremato. Maledetti umani! Potessi sbatterli all’inferno. Squartati, sbranati vorrei vederli! Altroché! Nessuna pietà per chi tortura gli animali. Occhio per occhio, dente per dente!
    Chi lega un cane alla catena, muoia di catena! aggiunse gesticolando all’aria, verso un grande olmo.
    Salvatore, accucciato sotto il grande olmo, era molto, molto torvo. La cosa appena scoperta lo faceva soffrire e meditava anche lui la vendetta. Sarebbe stata esemplare. Dovevano capirla gli umani la legge del più forte, o del più intelligente, oppure del più magico. La mettessero come volevano, un rimedio doveva pur esserci. Adesso però bisognava lasciare Veronica in pace. Concederle del tempo da dedicare al nuovo cencio striminzito. Ne era certo d’altronde, il cuore di Veronica poteva dare vita ai sogni, quelli che cambiano il mondo.
    Il loro destino era scritto nell’angolo del cielo riservato ai fratelli minori dell’uomo.
    Luogo che esisteva davvero.
    E lui lo sapeva perché arrivava da lì.

    Veronica versò alcune gocce d’acqua da una borraccia nella bocca della creatura spossata. Il cucciolo deglutì a fatica, la guardò e sorrise come i cani sanno fare, sollevando cioè le labbra verso le orecchie e allungando gli occhi a forma di mandorla. Lo baciò sul muso, lo depose in una cesta dai bordi alti su un suo vecchio maglione, gli rimboccò una coperta attorno per creargli un soffice giaciglio, bloccò il lettino di fortuna con altri contenitori perché non sballottasse troppo, andò alla guida e partì innestando la marcia con furia, in uno sfrigolare di metallo e di pneumatici sollecitati dall’abbrivio.
    Il viaggio di ritorno fu funestato da nuvole minacciose di propositi violenti. Un ritornello le martellava in testa. Non poteva permettere un simile martirio. Aveva l’obbligo di affrontare il male.
    La strada era un nastro plumbeo. L’unica realtà: il respiro affannoso di Salvo in aggiunta al suo, roco e lento. Doveva fermarsi. Si immise in una stradina secondaria e frenò sbandando. Le mani sul volante, la fronte sulle mani, le palpebre serrate, vedeva qualcosa.
    In se stessa questa volta.
    Non attraverso il drago.
    Un rotolo di pergamena antica, riallacciava fili interrotti di memorie che emergevano in messaggi terribili.

Il settimo Angelo diede fiato alla tromba
e si alzarono in cielo grandi voci.
Dicevano: il regno di questo mondo
è delle genti che si sono adirate.
È giunto il momento
di mandare in perdizione
chi manda in perdizione la terra.
Dal cielo aperto
verrà un guerriero
che si dirà giusto e fedele
e ucciderà la bestia
dalle sette teste e dalle dieci corna,
Poi chiamerà uccelli e lupi
a divorare le sue carni. 

    Dopo un tempo eterno Veronica iniziò a staccarsi dalla dimensione astratta in cui fioriva la rivalsa e trionfava la giustizia. Rialzò la testa, si toccò la fronte, gli occhi e, in un altalenare di sussulti percettivi, scivolò nel presente. Un rituale, questo, stracollaudato. All’inizio con paura, in seguito con agio. Senza che nessuno lo sapesse, pena le estenuanti sedute dallo psicologo amico o dal medico di famiglia, orientati a convincerla dell’assurdità della situazione con la boria di chi non sa, non vuol sapere e non capisce. Di conseguenza l’oro del silenzio aveva la meglio sull’argento della parola.
    E lei, Veronica, la strega-bambina, una volta divenuta donna aveva gongolato di ciò.
    Il silenzio è più forte di tutto, diceva agli alberi, al vento, agli amatissimi animali.
    Il silenzio contiene i suoni e le forme impossibili da descrivere. Li serberò per me, fingerò di non aver sentito e visto. Perché io posso raccontare alle pietre ma non a chi ha un buco al posto del cuore, recitava poi convinta tra sé e sé serrando le labbra per non emettere neanche una sillaba.
    Il motto preferito? L’anima tace sempre nelle mie parole. Se l’era inventato e giurato davanti allo specchio, incrociando le dita sulle labbra, dopo l’episodio del drago che aveva scatenato l’inchiesta su di lei. Se l’era rigiurato inoltre, di anno in anno, all’indomani del Ferragosto. Per non ricadere nella voglia di parlare con gli umani. I loro pregiudizi la irritavano. Era necessario sembrare “normali”. Purché non le togliessero le voci che le parlavano e le indicavano la direzione giusta.
    Quindi silenzi, quindi giuramenti a medi incrociati sugli indici, schiacciata contro lo specchio per non farsi udire, con il drago al fianco, affidabile garante della (tacitissima) parola data.
    Le voci e Salvatore erano i suoi ripari alle abiezioni del mondo. Da cui doveva strapparsi per ritornare alla Uaz, a Salvo e all’urgenza della corsa verso l’ambulatorio. All’oro del silenzio controllato.
    Denso di furore, tuttavia.

    Nei giorni seguenti fu occupatissima a curare Salvo che rifioriva e le sorrideva fiducioso, tentando, senza riuscirci, di tirare su le sue quattr’ossa per zampettarle incontro al rientro dal lavoro e dai consueti giri di salvataggio. A breve l’avrebbe fatto perché mangiava con appetito sostanziosi pezzetti di carne e lei, quando lo imboccava, appoggiava il dito sulla sua tenerissima lingua rosa di cucciolo, per farglielo ciucciare, in consolazione dei precoci patimenti.
    Però, mentre accudiva Salvo, lavorava in clinica, mentre sbrigava qualsiasi tipo di faccenda insomma, rifletteva con intensità. Se si interrogava sul da farsi, vedeva il sentiero dal Rio Fortunato al bosco come un nastro di dolore al cui capo c’era un altro essere infelice, ormai esausto. Si odiava perché avrebbe dovuto precipitarsi a liberarelo. Subito avrebbe dovuto farlo. Ma si voltava dall’altra parte sentendosi una vigliacca.
    E Salvatore non aveva il coraggio di strattonarla.
    Salvatore aspettava il suo turno.

    Domenica di fine luglio.
    Veronica andrà di nuovo là.
    L’antica pergamena le si sta srotolando dentro e la guida. Deve stanare e uccidere la bestia dalle sette teste e dalle dieci corna. Deciderà sul posto cosa fare, dopo aver guardato negli occhi la bestia‑aguzzina di Salvo.
    Con sommo disprezzo.
    Dopo averla guardata, lei e il drago la colpiranno.
    Com’è giusto.
    Ciò che avrebbe trovato, lo presentiva al millimetro. L’esperienza gliel’aveva insegnato: molti uomini seviziano i propri fratelli animali per il piacere di farlo. Non c’è un perché. È così e basta.
    Vuoi mettere il gusto di massacrare in modo calcolato una creatura in perfetta letizia e consonanza con le leggi naturali? Vuoi mettere la gioia dell’obbligare all’immobilità chi vive di corse, di balzi, tuffi, scarti, frenate e capriole? Del dare un metro di corda in cambio dell’amore profuso generosamente?
    Amore, sì! I nostri fratelli animali sanno cos’è l’Amore vero. La dedizione assoluta. Ciò di cui molti uomini non saranno mai capaci! rifletteva Veronica percorrendo il sentiero noto.
In prossimità del luogo si fece accorta. Temeva di trovarsi faccia a faccia con la bestia senza aver avuto il modo di studiarne di nascosto le fattezze, i gesti, di capire di che pasta fosse fatta. Per la prima volta da che frequentava il territorio del Rio Fortunato non sentiva il chiacchiericcio degli uccelli e il brusire degli alberi.
    Persino il fiume frenava l’impeto.

    L’incontro fu sconvolgente.
    La vide arrivando di soppiatto tra i cespugli fitti intorno alla bicocca.
    Era una donna bella e giovane. Una bestia-donna dai capelli ramati vestita di garze porporine. Una zingara dai numerosi gioielli tintinnanti al collo, ai polsi, alle caviglie. Si dimenava seguendo una musica interiore che le corrompeva il viso. I piedi nudi battevano il terreno. Le braccia volteggiavano come vele impazzite. In disparte, un meticcio grigio era riverso a terra, quasi strozzato dalla catena corta che lo teneva legato a un palo.
    Sembrava morto.
    E lei danzava ridendo, contro un fondale di lamiere ruggini e cumuli di spazzatura.
    Scoprirla donna fu uno schiaffo per Veronica. Non l’aveva previsto. Nelle sue fantasie c’erano stati e c’erano i malvagi, ma sempre maschi. Rudi, crudeli, sadici e maschi. Le donne no. Non torturavano gli inermi. Le donne portavano dentro il grembo i figli, li mettevano al mondo assistendosi a vicenda, soccorrevano gli animali femmine nel parto. Le donne sapevano amare con abnegazione. Fin dall’origine dei tempi. Gli uomini, invece, fanno le guerre, uccidono, stuprano, tormentano. Le donne no. Le donne subiscono.
    Eppure, davanti a lei, la bestia-donna danzava, indifferente a chi stava morendo.
    A un tratto l’esserino mosse la testa verso un piatto di latta contenente dell’acqua torbida.     Non l’aveva alla portata, non avrebbe mai potuto leccarne nemmeno una goccia, ma la bestia con un calcio la disperse e il silenzio annotò un rumore aggiunto alla sua risata: il frrr del liquido che alimentava l’aria di vapore. La risata sgangherata e il frrr con la sua eco contrappuntarono la riluttanza della natura.
    Al doppio rumore si aggiunse il battito del cuore di Veronica che si slacciò da lei crescendo nel sottobosco, nello spiazzo ingombro di rifiuti davanti al posto malaugurato.
    Creò un strepito di battaglia, tetro, tumultuante.
    Scostare con le mani l’intrico di rovi impenetrabili ferendosi senza badarci, anestetizzata dalla collera, irrompere sulla lurida radura e caricare impavida, incarnata nella Clorinda del mito – lancia in resta, corazza scintillante – fu simultaneo e luttuoso.

    Veronica è un grumo d’ira, è energia pronta a conflagrare, una macchina micidiale armata per colpire la bestia che la guarda piombarle addosso con occhi dilatati ma privi di timore, come se sapesse.
    La guarda come se sapesse.
    D’improvviso, nel cristallo del cielo avviene qualcosa di devastante e stupendo che vince i sensi di Veronica, trattenendone l’assalto.
    Le particelle d’acqua bevono i raggi luminosi del giorno pieno, li filtrano e riverberano all’istante con le scie opalescenti di un pianto cosmico. Lo stesso del mare per i fuochi pirotecnici di Ferragosto. Non ci sono i fiori giganteschi, le torce colossali, le corone di faville contro la volta: immenso scenario alla lotta esiziale per il drago. Quanto sta vivendo ha il sentore buono del sogno di ogni notte perché le lucciole di luce sembrano aggiungere al sole un altro sole, in presagio propizio.
    Veronica contempla le stille diamantate. Poi abbassa gli occhi. La bestia appare circonfusa da cateratte di grafite che ribollono artigliandola con dita rapaci, travolgendone la chioma fulva, la bocca sconcia. Per lei nascono e montano nubi burrascose, vortici sgroppano in impennate, crisalidi astrali rigurgitano magma incandescente.
    Veronica intuisce.
 
Irene Navarra, Drago 2,
Grafica 2022.
    È il momento.
    La condanna con sguardo d’ortica e di fiele.
    Infine
    lentissima
    si scosta lasciando che arrivi il drago.

    E mentre Veronica raccoglieva la creatura esanime,
il drago si avventava sulla preda
dai monili d’oro e perle.


    Poi gli uccelli e i lupi fecero il resto.