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Livia (e Loris)
Eccolo là quel…! esclamò Livia con un tono a metà tra l’ironico e lo stizzito, senza completare la frase e lasciando cadere la tenda di pizzo impercettibilmente scostata per guardare fuori nella limpida mattina di maggio.
Carlo, aiutami a chiudere le persiane! ordinò perentoria al marito che cercava di estraniarsi dalla farsa in atto. E aggiunse beffarda: Abbiamo i servizi segreti in ricognizione. Ci spiano!
In effetti, la veloce sbirciata al viale di castagni su cui si affacciava la villa le aveva permesso di cogliere un particolare in dissonanza totale con l’armoniosa geometria degli alberi. Un individuo grottesco appariva e scompariva tra i tronchi delle piante, procedendo a balzi dall’una all’altra nel tentativo di passare inosservato.
Livia sapeva chi fosse l’esasperante seccatore insinuatosi nella loro vita: di nome faceva Loris, ed era stato il compagno di sua figlia, Linda. L’aveva definito in uno attacco d’ira: bubbone succhialinfa e verme immondo, spiacevole macchia nell’immacolata esistenza del sangue del mio sangue.
Dette così le cose, si potrebbe giudicare Loris un tipo sconcertante. Un tipo con dei venerdì in meno e delle ossessioni maniacali da soddisfare a danno del prossimo. Dette così le cose, lo si potrebbe credere.
Invece, no.
Loris era un padre presunto, e Livia e Carlo erano i nonni della presunta figlia di Loris.
Alle parole della moglie Carlo, sprofondato serafico in poltrona a leggere, sollevò gli occhi dal Sole 24 Ore, aggrottò le sopracciglia, sbuffò, appoggiò il giornale sul bracciolo di destra, si alzò e obbedì.
Scocciatissimo.
Segregati un’altra volta tra quattro muri, prigionieri in casa propria. Coprifuoco, coprifuoco! andava borbottando mentre sprangava serramenti in faccia al sole, tirava pesanti cortinaggi, accendeva abat-jour inutili in pieno giorno. Ma quando finirà questa tortura? si lagnava acido. Imbecilli noi a sopportarla. È una persecuzione.
Si sfogava con una sequela infinita di mugugni, ma non faceva nient’altro: un po’ per pigrizia, un po’ per carattere, un po’ per non ingrossare i guai, al presente già sproporzionati.
Intanto, sul folto tappeto del salotto una morettina di un anno e mezzo – Alexa detta Ale, ovvero la presunta figlia di Loris – ignara dell’affaccendarsi isterico interno ed esterno, giocava con un’enorme scatola rossa. Ci si era seduta dentro e pretendeva vi entrasse anche Livia. La chiamava con una vocina dispotica, modulando NOONNAAA! in gamme dallo stridulo al soave. E Livia sorrideva alle sue smorfie, o almeno cercava di farlo come se nulla fosse, per non allarmarla. Sorrideva e ricacciava in gola le lacrime, indispettita da quel parassita al di là della strada che, con il suo andirivieni, la costringeva a un’odiosa reclusione. La sua casa era come uno zoo a rovescio, congegnato per esiliarvi l’umanità esponendola agli sgarbi degli animali.
Tre mesi fa eravamo liberi…, sibilava Livia a fior di labbra trascinando per la stanza Ale nella scatola colorata sotto gli occhi stupefatti delle lampade e quelli arcistufi del marito.
Tre mesi fa la mia casa era piena di luce e il giardino potevamo godercelo senza paura di sguardi indiscreti, biascicava astiosa.
In verità la casa era diventata una roccaforte vera e propria. Questo, per evitare le imboscate e le sorprese dell’innominabile, beccato mesi prima davanti alla finestra della cucina con una macchina fotografica in mano. Il suo scopo era di documentare la presenza (eventuale) della figlia, parcheggiata (lo asseriva lui) presso la nonna mentre Linda si trovava chissà dove, pur essendone l’unica affidataria. Come da sentenza del Tribunale dei minori.
Nell’occasione Livia aveva chiamato i carabinieri. E Loris era scaturito in escandescenze proprio davanti a loro, fornendo una testimonianza di pericoloso squilibrio. Lo aveva denunciato, dunque. Di conseguenza era stato diffidato e, a Dio piacendo, una stramberia del genere non la fece più. Se la legò al dito però, la traversia della denuncia, e gliela giurò a morte, a Livia.
Grazie a tutti i Santi del Paradiso Alexa non si trovava qui! Meno male, Gesummaria! scongiurava sollevata Livia subito dopo lo spiacevole episodio. Una buona stella l’aveva voluta con Linda. Lei infatti, al contrario del solito, se l’era tenuta in albergo obbedendo a uno di quegli oscuri presentimenti di pericolo imminente che si avvertono, sembrano improbabili, da ultimo si ascoltano, e finiscono col risultare attendibili alla prova dei fatti.
Per fortuna! esclamava Livia, tergendosi la fronte da un fantomatico sudore ancora un’ora dopo l’incursione di Loris. E non finiva di benedire il Signore per la lontananza della deliziosa cucciola, che era tanto affezionata al loro grande giardino da chiedere di starci addirittura con la pioggia, e da piangere le rare volte in cui non le si concedeva di scorrazzarvi a piacere. Divieto, questo, imposto a necessaria cautela per la determinazione dell’insensato sedicente padre a fotografare Ale là dove, secondo lui, non si sarebbe dovuta trovare. E non bisognava prestare il fianco dandogli un’opportunità, perché le fotografie potevano rappresentare per l’infame un chiaro documento della trasgressione, e la scappatoia legale per rubarsi Alexa, vista l’incapacità della madre di accudire la figlia con sollecitudine e considerato l’affidamento arbitrario alla nonna. Secondo quanto recitava l’indegna accusa depositata nell’Ufficio del Giudice tutelare di S*****, incaricato del caso.
Se Loris l’avesse dimostrato, si sarebbe trafugato quel pulcino indifeso. D’altro canto, poteva forse la piccina vivere nell’hotel che Linda dirigeva? E lei, Linda, poteva forse occuparsene, oberata com’era di lavoro? L’egoista fannullone senz’arte né parte doveva aver progettato a tavolino quella tattica di stalking, contando su un’immancabile capitolazione. Da stress naturalmente. Perché – il maledetto lo sapeva – madre e manager erano ruoli incompatibili.
Crucci simili affliggevano Livia in qualsiasi attimo delle sue giornate, rese laboriose dallo sforzo di nascondere al padre in caccia la vicinanza di Ale. Lui, però, per quanto eluso in mille modi, stornato, dirottato ad altre mete, con fiuto da predatore seguiva la scia delle tenere carni infantili, ne avvertiva il profumo di talco Roberts e crema Nivea.
Voleva possederle.
Questo si fingeva Livia, rabbrividendo, macerandosi in dubbi sul modo di salvare l’incolpevole da un futuro di stenti, ignoranza e tribolazioni. Una sorta di via crucis annunciata, se si esaminava lo ristrettezza intellettiva di quello spaccone sicuro di averle dato la vita. Pfui, concludeva con estremo ribrezzo Livia, gesticolando in modo scalmanato per rimuovere l’idea, molesta alla pari di un insetto ronzante in una stanza chiusa. Erano spuntate perciò, dall’oggi al domani, delle reti di delimitazione del giardino dietro alla casa.
Neppure dieci centimetri di più a destra o a sinistra, dietro la casa e basta! sbraitava Livia agli operai che eseguivano sbigottiti.
Del cielo non si preoccupava. Da lì non potevano arrivare minacce – tipo riprese aeree – a causa delle zoppicanti condizioni finanziarie dell’inqualificabile omuncolo dai mezzi manco bastevoli alla più rudimentale sopravvivenza.
A fine lavoro Livia si sentì sicura, quantunque in gabbia. Ale, la sua gaia cinciallegra, circolava ad agio nel giardino rimpicciolito senza il pericolo di prove testimoniali che in tribunale avrebbero usato per portargliela via, strappandole il cuore di colpo.
Poteva respirare.
Le siepi di recinzione laterale – allori alti e fittissimi – fungevano da seconda barriera. I vicini, inoltre, erano amici cari e mai avrebbero tollerato sortite di chicchessia nelle loro proprietà. Tantomeno di Loris.
Superata infine la tempesta, tutelato con dei correttivi il suo diritto di nonna, raggirati i giudici, si sarebbe concessa una tregua nell’attesa di altre inevitabili battaglie.
Tra tali apprensioni si sperperavano i giorni di Carlo e Livia. Linda non ci speculava per l’incapacità congenita di proiettarsi nel futuro oltre il limite di un giorno. Il gufo-oracolo di famiglia era Livia. Già all’ospedale, appena nata Alexa, si era premurata di prevedere guai calamitosi e aveva messo in guardia la figlia dalle mene della famiglia Cravi, dicendole e ridicendole: Loris non deve riconoscere la bambina. Alexa è tua! Se non vuoi sposarlo, non glielo devi permettere. Mandalo al diavolo, l’imbecille buono a nulla. Sta con te per spillarti dei soldi e per fare la bella vita a sbafo. Lui se la spassa e tu sfacchini per costruirti un avvenire.
Si sa, però: i figli se ne infischiano dei consigli dei genitori. E così Loris l’aveva riconosciuta, si era installato in albergo con Linda e aveva staccato Livia da Ale perché c’era Grazia, sua madre, disponibile a fare da tata. Siccome era vedova, se ne sarebbe occupata a tempo pieno. Grazia in verità, avendo messo al mondo e allevato cinque figli, poteva tirarla su in modo ottimale. Per una nipote avrebbe di sicuro dato il meglio di sé.
Con erbe da fattucchiera e filtri da strega! sbottava Livia gelosa perché separata a forza dal suo angelo, che amava con la stessa intensità con cui aveva amato Linda. Piangeva, poi, lacrime rabbiose e aggiungeva: Per non parlare di Elena, la disgraziata sorella di Loris morta di anoressia, e nessuno se n’è accorto. Secondo lei faceva la dieta! È morta a vent’anni e trentatré chili! Grazia ha le mani avvelenate. Ci contagerà Ale. Linda, insisti a non capire? Ti stanno usando! Loris vuole sistemare la famiglia senza strapazzarsi. Ma guardati! Sei distrutta. Hai le guance incavate, il colorito smorto. Dammi retta, caccialo alle spicce.
Queste cose, le sosteneva nei rari momenti in cui riusciva a incontrare la figlia, le sussurrava al telefono (ché il marito non sentisse!) appena poteva, le scriveva in lettere prolisse, zeppe di petulanti variazioni sullo stesso concetto: Ale è tua. Da leggersi: Ale è mia. Livia era tenace e suadente. Lo sapevano in molti. Non desisteva con facilità. Quei molti ne avevano fatto esperienza diretta. Non riuscirai a scipparmela! ruminava tra sé e sé, rivolta virtualmente al compagno della figlia, esplodendo poi in una giaculatoria di epiteti davvero pittoreschi. I successi del passato parlavano Erano esempi espliciti di una forza diabolica. L’avrebbe avuta vinta. Senza ombra di dubbio. Come ogni volta che ce la metteva tutta. Come l’aveva avuta vinta con Carlo quando, a forza di sensati discorsi sul prestigio familiare, l’aveva indotto a lasciare l’insegnamento per dedicarsi alla professione di commercialista. Oh, quanto remunerativa! constatava lei, orgogliosa della prosperità in aumento. Come l’aveva avuta vinta con Linda quando lei, in un periodo di riottosità adolescenziale (verso i quindici anni, le pareva di ricordare), si era incaponita a voler cambiare nell’aspetto e nelle scelte. Perché non si accorgeva di esserle somigliantissima, di non avere nulla di cui imbarazzarsi.
Le stesse persone, Livia e Linda. Madre e figlia? Ma no, sorelle piuttosto. Due gocce d’acqua. E allora, perché peggiorarsi? Livia era bella, Linda era bella. Identicamente snob e affascinanti: l’una nello smalto di una maturità distinta e rilassata, l’altra nel trionfo della giovinezza. Per quale ragione volere altro? Il cammino era stato fatto, il modello plasmato da una natura amica. Proprio da quelle prerogative intrinseche doveva partire Linda per rifinire la sua già splendida femminilità dal marchio esclusivo.
E Livia era riuscita nell’intento.
Con pazienza certosina aveva passato e ripassato le mani di esperta vasaia sulla creta malleabile di Linda. Aveva tolto un’impurità qua e una stortura là, lisciando l’argilla fino a raggiungere quella che lei riteneva l’insuperabile pregevolezza del prodotto finito a sua maniera. E, senza ulteriori deviazioni di percorso, le loro esistenze erano scivolate via.
Nel burro fresco della soddisfazione di Livia.
Nel miele rappreso della rassegnata accettazione di Linda, ridiventata la docile adolescente bella e dolce: il ritratto della madre. Aveva vinto una volta, avrebbe vinto pure la seconda, si riprometteva Livia.
Spazzava, spolverava, sprimacciava i cuscini, cucinava, curava i bonsai della serra, sarchiava le aiole delle azalee, e pensava. In una concentrazione tale da avere sempre l’emicrania. E ciò per un convincimento categorico: il pensiero getta ponti di contatto all’occorrenza molto utili. Inginocchiata a piantare, arrampicata sulla scala a pioli a potare, seduta a sferruzzare per Ale strabilianti maglioncini con il davantino guarnito da alberi di mele, arance e fichi, pensava. Aleggiando come un ectoplasma per scrutare la vita dei suoi Amori lontani, per esorcizzare le influenze subdole di Loris e Grazia.
Durante i primi mesi di Ale, sentendosi tradita nelle aspettative costruite di pezzetti limati a incastro, saggiando un greve disincanto, aveva reagito con un tremolio nel cuore, ma senza sgomentarsi, malgrado quei tasselli di vita traballassero e alcuni schizzassero impazziti via dal supporto.
Lei era abbastanza energica da correre ai ripari e riappropriarsi del maltolto: Linda e Ale. Nella fiducia che la pasta costitutiva di Linda fosse straordinaria (era sua figlia!) e il recupero questione di tempo.
Sì, il recupero non poteva essere altro che una stupidissima questione di tempo.
Linda (e Loris)
La giornata tanto fastidiosa per l’impressione dell’onnipresenza di Loris è ormai finita. Ale dorme nella stanza di Livia e Linda, ritornata a casa per il fine settimana, seduta a gambe incrociate sul suo letto di ragazza, lo sguardo sulla finestra violacea nella sera quasi piena, si mordicchia le unghie. Vizio, questo, incontenibile, se è tesa. Cerca di riflettere, con molto disagio in verità, trottolando con le dita nell’imponente chioma crespa aureolata attorno al viso.
Si è sorbita un’altra tiritera di sua madre.
Garbatissima e spietata.
Della precisione di un’operazione chirurgica.
Senza anestesia.
Come al solito. E come al solito Linda subisce e recrimina.
Questa volta, però, la cosa riguarda Alexa.
Deve capire.
Lo può fare solo riesumando il passato. Per coglierne il senso. Solo così si riprenderà la sua vita e potrà trattare a brutto muso chi le si oppone.
Ma cosa ne sa la mamma della mia situazione? Non si è mai accorta di quanto mangiavo e di quanto vomitavo. Eh già! Perché perderci del tempo con me? Ero perfetta. Sua proiezione, frutto del suo grembo. Non avevo bisogno di aggiustamenti, io. Solo gli altri suscitavano interesse. Sottoposti alla sua logica, diventavano pretesto di sterili disquisizioni tra compagne del club di bricolage. Io invece…, ma perché doveva preoccuparsi per me? Se me ne stavo buona buona nel guscio, ricoperta della sua placenta salvaguai, non mi sarebbe potuto accadere nulla. E non c’era mica motivo di liberarmene. Si libera forse la pioggia dell’acqua? Il chiaro di luna, può privarsi della luna? Il sale, del mare? No! Sono elementi diversi di un’intima totalità, dogmatizzava lei. Un ritornello discutibile, la rimbeccavo io con rancore. L’acqua non è sempre pioggia, il chiaro non è sempre chiaro di luna, il sale non è sempre sale marino. Come farle intendere l’assurdità dell’identificazione di noi in noi? Il suo esigermi combaciante? Il concetto di indipendenza applicato a me le risultava ostico. Nessuno sarebbe riuscito a smontargliela, quella convinzione della nostra omogeneità assoluta. Io meno di altri, neppure ricorrendo alle cabale di Shopenhauer e compagnia che sciorinavo da filosofa fallita qual ero, illudendomi servissero. Due individui fanno la stessa cosa? Questa non sarà mai la stessa. Due gemelle monozigoti si presentano come replicanti vicendevoli? Sì, la scienza lo sostiene, eppure non saranno mai equivalenti. Lapalissiano per me e il resto del mondo. Non per lei. Io le risultavo il riscontro biologico del mio esserle lampantemente medesima. E basta! Una sua puntuale copia fisica: la pelle, gli occhi, le mani, i capelli, addirittura i denti…, tutto uguale.
Insomma: io, Linda, ero Livia.
Niente da discutere o da indagare.
La conoscenza di me derivava dalle sue stesse viscere.
Quindi, sostanziale. Quindi, vera.
E le mie insicurezze patologiche? Come fargliele ammettere? Lo intuivo che non era possibile. Lei giurava di saper leggere a occhi chiusi le mie pagine. Non doveva neppure toccarmi per sentire una grana nota al micromillimetro fin dalla nascita. Incarnate l’una nell’altra (diceva lei), incastrate (dicevo io), dovevamo bastare a noi stesse. E gli stratagemmi per farne una madre normale? Una che urla, vieta, assesta dei gagliardi ceffoni? Qualsiasi trucco almanaccassi, non c’era verso. Livia che muove un dito contro di me, cioè contro se stessa? Un’ipotesi marziana.
Linda ha smesso di tormentarsi i capelli, di mordicchiarsi le unghie. Il volto sofferente, le labbra contratte, seduta adesso sul bordo del letto, le mani a pugno tra le cosce, dondola con il busto. Avanti e indietro. Ricorda la ribellione dei quindici anni, il tentativo per scollarsi dalla madre. E finirla con quella semivita da mostruoso embrione uscito dall’utero cui nessuno ha reciso il cordone ombelicale.
Un taglio impossibile.
Poiché Livia aveva una dote speciale di divinazione per qualunque tentativo di distacco. Persino solo vagheggiato. L’esito era uno scontatissimo rientro nei ranghi grazie alla tecnica collaudata delle occhiatacce gelide, del mutismo minaccioso. Insomma, pietra su pietra, Livia metteva argini a ogni spreco di fusione. E il recupero dopo la cura portava a una compiutezza maggiore. A suo dire, invero, Il sole senza l’ombra non risalta. L’ombra è la coscienza della luce.
L’ombra: l’ammutinamento di Linda.
Il sole: lei, Livia. Se unita a Linda.
Insomma: comprensione cristiana dell’errore come perno di un’inconfutabile pedagogia materna di mano di ferro in guanto di ferro per la riconquista della degenere e per ricomporre la globalità portentosa di Livia più Linda. Così da collimare senza impaccio.
Da questo principio era sortita la massima dell’ombra e del sole oramai nella tradizione di famiglia. Un ricamo di fili gialli su seta grigia con cornice d’oro composero il quadruccio che fu appeso sopra il letto di Linda a garanzia della stabilità riguadagnata.
E come monito a non deragliare.
Un ricatto continuo di allusioni a colpe innominabili. Da dannazione eterna. Una solfa monocorde mentre fa a striscioline con le forbici camicette, maglie, pantaloni, gonne non confacenti al loro identico stile, brucia giornali, libri, rompe CD, butta scarpe. Riscatta l’ordine originario legando di nuovo Linda – la sua gemma meglio tagliata – nel castone sfolgorante del suo stesso fulgore.
In nome del buongusto e dell’equilibrio.
Con il sorriso sulle labbra e senza alzare la voce.
Con il sorriso sulle labbra e senza alzare la voce tirava i miei fili, a corti strappi o facendoseli scorrere tra le dita per dare l’illusione della libertà, fino a un blocco imperioso. Con le trazioni adatte imbrigliava e regolava. Vegliando su una concordia di facciata. Indifferente a me, che boccheggiavo ormai al limite della linea di galleggiamento della vita, attaccata alla speranza di diventare fluida e scivolare sotto la porta e a cascatella dalle scale giù verso l’entrata e fuori sulla strada lungo i marciapiedi per evaporare al sole, o via dentro gli scoli urbani per sparire.
Quanti errori nel cercare una via di scampo tra i riflettori da circo puntati sulla mia fragilità.
Quanta frustrazione.
Poi, il lavoro in un’altra città. Con i soliti pesi.
E ancora cibo e vomito, cibo e vomito.
Finché so di essere incinta.
Da cui: la volontà di correggermi, le sedute nello studio di uno psichiatra, l’amore di Loris persuaso di essere il padre del nascituro, il decalogo buttato giù di getto sull’agenda e decorato da cuoricini benauguranti:
- Continuare a frequentare lo studio del dottor Tavros.
- Mangiare secondo tabella e orario.
- Non lavorare più di 8 ore al giorno.
- Convincersi che il Bambino sia di Loris.
- Amare Loris.
- Sposare Loris.
- Mettere al mondo il Bambino.
- Sbattere in faccia alla mamma la mia bulimia.
- Pregarla di volermi bene da lontano.
- Volermi (io) bene.
Una tabella rigorosa e incoraggiante!
Me la guardavo e riguardavo, fiera dei miei propositi. Un foglio di carta con dei segni semplificava i problemi? Non risolveva di sicuro i guai del mondo ma per i miei, forse, era sufficiente la grafia a inchiostro rosso sull’agenda. Importante…, molto importante quel passo… Per la prima volta mi spingevo ben più in là del mio ristretto orizzonte. E tutto era andato secondo i programmi per un buon pezzo. Cos’era successo, dunque, di tanto grave da far crollare il mio castello di carta?
Certo, sì, la ragione di sempre.
Io, proprio io, ero la nota stonata dell’impostura costruita con crismi di pretestuosa dignità, io con la mia coscienza-aquilone in balia del vento.
Linda lo sa cos’è successo. In cuor suo conosce il motivo del patatrac. Si è riadattata alle fobie di Livia. Ha detto a Loris che non lo ama. Di conseguenza non vuole stare con lui, avere tra i piedi parenti pasticcioni e madri sfruttatrici. Deve, comunque, completare l’annuncio. Per far finire la sceneggiata delle fotografie. Deve dirgli: Tu non sei il padre di Ale. Toglitela dalla testa. Ale è figlia di un altro. Stavo con lui e con te nello stesso tempo. Ale è figlia sua. Inoltre io amavo lui non te. Lo amavo e lo amo purtroppo, malgrado sia un vigliacco, fuggito a gambe levate di fronte alla responsabilità di una vita in boccio. Tu sei stato per me la salvezza del momento. C’eri quando temevo di non potercela fare e pensavo al diritto di ogni neonato di avere un padre. Vedi, Loris, ci siamo lasciati fuorviare troppo dalle nostre presunzioni. Adesso basta.
Linda ha deciso.
Loris capirà.
E se non vorrà capire, dovrà sventolargli sotto il naso l’esito dell’esame del DNA. Ce l’ha in mano da giorni e non ha avuto il coraggio di esibirlo. Lo chiamerà, lui verrà di corsa, usciranno e, in macchina, senza perdere tempo gli spiegherà: Ale non ha il tuo sangue. Il referto è chiaro. Devi smetterla di importunare i miei con ridicoli agguati per provare che sono una madre degenere, non curo mia figlia e l’ho abbandonata nelle loro mani. Cerchi di ottenerne l’affidamento? Non negarlo! Ale non è tua, quindi non ci riuscirai! E ficcatelo in testa: non sono mai stata innamorata di te. Avevo solo bisogno del sostegno di qualcuno. E tu eri là, all’ospedale, premuroso e disponibile. Perciò ho permesso che ti illudessi di aver avuto una creatura da me.
Una creatura da me…, ripete Linda con un senso di nausea alla bocca dello stomaco, tutti vogliono qualcosa da me. Tempo e denaro, passi! Ora, però, vogliono mia figlia. Per appropriarsene mi mangiano a morsi, brandello dopo brandello. E con me divorano anche lei.
Linda ha confessato. L’incontro con Loris è avvenuto. La vicenda sembra conclusa. Via le reti, via i lucchetti, si potranno rispalancare le persiane, il sole irromperà nelle stanze a fiotti, il giardino recupererà la sua florida ampiezza.
Il mattino di maggio è smagliante, il glicine sulla recinzione ha grappoli fastosi, uno sciame di api attirato dal loro nettare concerta ronzando attorno alla finestra del salotto dove Linda, la fronte corrugata, cerca di dormire senza riuscirci, malgrado la robusta dose di Valium ingurgitata.
Un altro errore le pesa sulla coscienza. Il volto di Loris isterilito da un dolore muto, la mano di Loris che lascia la sua, Loris che se ne va sono immagini che porterà impresse nella memoria. Non vi si sottrarrà mai. Ora le franano addosso a sequenze implacabili di flash brucianti.
Cos’è questo casino? farfuglia Linda cavandosi da quella specie di apatia vigile che la intorpidisce. Ci sono le gazzelle dei carabinieri? Mi pare di aver sentito delle sirene. Mamma, dove sei, cosa succede?
Livia e Carlo entrano in silenzio.
Non ti affacciare alla finestra! bisbigliano all’unisono. È successa una disgrazia. Loris… E non riescono proprio a finire la frase. Le voci si spezzano.
Linda vuole sapere.
Si avvicina alla finestra. Intrufolandosi tra le tende si sporge sul davanzale e guarda.
Al di là del viale una figura goffa penzola da un grosso ramo del castagno di fronte al salotto.
La testa è reclinata sulla spalla.
Sembra un pupazzo di legno.
Un pupazzo dall’elastico allentato.
Linda vuole sapere con più sicurezza. Esce, attraversa la strada, si accosta al corpo esanime.
A lato dei piedi scalzi, tesi ad arco, nota uno sgabello capovolto, di quelli che i bimbi trascinano vicino agli adulti quando vogliono farsi narrare una fiaba. È tutto un fiore dipinto: margherite, primule, viole, nontiscordardimé, gigli selvatici, papaveri e lillà vi si intrecciano a ghirlanda.
Linda esplora con gli occhi
quelle spoglie irrigidite.
Riconosce
i jeans lisi,
il maglione azzurro
con i bordi sfilacciati,
vede,
sfaldandosi in schianti
crescenti di pena,
vede,
fissata con uno spillo da balia
all’altezza del cuore,
la fotografia sorridente di
Ale, da un anno e mezzo
presunta, amatissima figlia.
(Che è quanto sta scritto a lettere sgorbiate
in calce all’istantanea.)
Irene Navarra
Qui di seguito gli altri racconti pubblicati:
Tra le labbra livide della notte;
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