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sabato 1 aprile 2023

Prosa / Racconto: È solo questione di tempo (da "Davvero così").

 


Fotografia di Daniil Komov da Pixels.

      
     La decisione di Benedetto

     Da molto non parlava con nessuno. Intendiamoci però, non è che nessuno gli rivolgesse la parola, lo considerasse o cercasse di coinvolgerlo in discorsi di un tipo o di un altro, è che non era in grado di conversare, e per un motivo molto semplice: non udiva le voci di chi aveva davanti. Gli si era inceppato un ingranaggio, delle rotelle avevano smesso di girare. Al minimo approccio, al più sciocco dei convenevoli, Benedetto dava sulle prime un segno d’intelligenza giacché fissava le persone con interesse ma, all’istante, cadeva in un’atonia imperturbabile, agghiacciante per gli interlocutori. 
     Chiuso in un silenzio agro, osservava senza mai replicare.
     Per chiarire da subito: Benedetto non era diventato sordo. Benedetto non sentiva gli accenti umani, avvertiva invece benissimo quelli della natura. I fiumi, il vento, la pioggia, gli animali intessevano i loro messaggi alle sue intime commozioni. E lui li interpretava senza difficoltà, mescolando assensi segreti al linguaggio di ogni infinitesima goccia d’acqua gli accarezzasse il volto, di ogni alito di brezza gli scompigliasse i folti capelli bianchi tenuti alla selvaggia.
     La mattina, appena alzato, usciva nel portico e si accomodava su un seggiolone di quercia, ovattandosi in un’estasi straniata che si protraeva sempre a lungo. Ore, per dirla con una parola indicante parametri logici. Tempo dilatato talvolta, tempo puntiforme talaltra, per dirla in un modo vicino a quello di Benedetto, che lo captava rarefatto o condensato a seconda dell’umore e di quanto favoriva quella sua propensione. I fenomeni stagionali, per esempio. Alcuni lo assorbivano in malie a dir poco obliose. Il cadere delle foglie in autunno e la fragile danza dei fiocchi di neve gli inducevano addirittura una sorta di trance restia a dileguarsi.
     Nell’attimo in cui si installava su quel suo trono di legno iniziava un’esperienza salutare. Segni referenziali epurati via via del superfluo, vista e udito selezionavano quanto non era nuda memoria o espansione dell’anima, eliminandolo.
     Con i sovrasensi di recente sviluppo Benedetto si librava sul mondo delle macchine, delle ciminiere, delle case-alveare, degli uomini, delle loro bazzecole, e se ne svincolava. Per gravitare poi, più assennatamente lieve, nel nido del suo cuore.
     Dove pativa meno.
     Pativa meno cioè nell’urna di se stesso e durante le fortuite occasioni in cui riusciva a distinguere gli uni dagli altri: gli zirli dei merli in ansia per i pulcini, il canto del fringuello alla cerca di chicchi appetitosi, il colpo frequente e cupo del picchio rosso sul tronco del susino decrepito. Se riusciva a sorprendere il crescere dei fili d’erba, come diceva all’inizio della sua storia di autoemarginazione, quando si cimentava nello spiegare la scoperta ai pochissimi che s’illudeva capissero.


     La ricerca

     Benedetto era stato un uomo normale.
     Aveva avuto una moglie di nome Elena e una figlia di nome Arianna. Due stelle del cielo. O meglio: le sue costellazioni per l’orientamento. Il Nord, il Sud, l’Est e l’Ovest convergevano nei sorrisi, nelle reciproche premure, nel loro armonioso stare insieme.
     Finché non furono uccise.
     In un crepuscolo di primavera.
     Da un pazzo che guidava a mille, ubriaco fradicio.
     Lui, il mostro, era sopravvissuto. Ferito gravemente ma vivo, venne estratto dai rottami della sua Porsche rossa e se la cavò con dei mesi d’ospedale.
     Loro, nella Mini d’argento comperata da un mese, se ne andarono tenendosi per mano.
Elena a quarantadue anni, Arianna a sedici.
     Tutto finì, dunque.
     Anche per Benedetto.
     Che, comunque, nei primi mesi di solitudine, continuò a insegnare scienze nel liceo in cui era cresciuto e dove era ritornato fresco di laurea. Continuò a sembrare l’uomo di sempre. Troppo freddo però, a detta degli amici che gli rimasero accanto dopo la disgrazia; troppo indifferente, con una luce indecifrabile negli occhi asciutti, un’inflessione da automa nella voce, un che di meccanico nei gesti. Da preoccuparsene insomma, da azzardare degli inviti: una cena, un giro in bici, una scarpinata nel bosco per funghi.
     Benedetto permettendo.
     Ma lui non permise mai. Anzi, incominciò a non rispondere al telefono, a ignorare le scampanellate alla porta. Si chiuse al mondo. Si acconciò un bozzolo di nebbia che nascondesse quanto non voleva vedere, da sigillare o dissigillare a seconda delle urgenze emotive.
     In quel suo microcosmo Benedetto cercava un bene bastevole a sé, un bene conforme ai cicli naturali. Livellarsi in essi era, forse, una via percorribile per compensare la perdita prematura.
     Con una faticosa sperimentazione Benedetto si sforzava di uniformarsi al nucleo originario di ogni organismo, divenendo la schietta energia che ne dipana le forme e i colori. La strada intrapresa non necessitava di timbri umani. Questi lo riconsegnavano all’urlo di Elena e Arianna precedente la morte. Il loro grido gli inondava il cervello quando pensava all’omicida.
     Di urla si può impazzire.
     E lui, questo, non lo voleva.
     Doveva essere lucido.
     Per limarsi, assottigliarsi fino a scomparire.
     Rotolava Benedetto, verso il nulla. Riflettendo in continuazione. E ponendosi una domanda: Come raggiungere il tempo immobile di chi non è più, nel rispetto dell’ordine biologico?
     A ciò si applicava di lena scrutando il cielo, gli astri, e pregando. Un Dio senza nome, per cui il passato fosse in eterno presente.
In Lui le avrebbe ritrovate.
     Per esercitarsi, iniziò a sfocare i contorni delle cose, con metodo. Divenne tanto abile da riuscire a notare solo l’essenziale. Tutto in definitiva fu dissolto, tranne le fotografie di Elena e Arianna sul tavolino del salotto, e la carcassa della Mini, perché le aveva serbate nel passaggio alla morte. Le rose rampicanti piantate da Elena alla base delle colonne del portico, le considerava le custodi della sua astrazione. Simboleggiavano la forza del ricordo con il miraggio di polpastrelli sui tronchi ormai irrobustiti. Piante floride, ma destinate anch’esse a disgregarsi nel rattrappire della materia. Un’unica passeggiata si concedeva dall’incidente: il pellegrinaggio al deposito dove la vettura giaceva sotto sequestro. Appoggiava due mazzolini di anemoni variopinti nell’abitacolo semidistrutto e ritornava veloce a casa. Del processo istruito contro chi gli aveva oscurato le sue stelle non gliene importava. Poteva forse ridargliele? Aveva senso, quindi, parteciparvi?
     Retorica la risposta.
     Insita nel vuoto che lo abitava.
     Così, da un giorno all’altro, al lavoro non ci andò più. Si era ritirato in un guscio introverso e si contentava di quasi nulla.

     A due anni di distanza dalla disgrazia, Benedetto aveva la consapevolezza di procedere ormai speditamente verso la soluzione. 
     Se lo sentiva nella pelle: stava per arrivarci, avendo risolto la questione del tempo.
     Il presente doveva diventare passato a velocità vertiginosa per ricongiungerlo a Elena e Arianna proprio là imprigionate.
     Il futuro era l’attesa che non voleva.
     Costringendo il suo corpo a una consunzione graduale avrebbe percorso una sorta di itinerario all’indietro e raggiunto l’inspiegabile di cui era fatta la sua anima, di cui erano fatte Elena e Arianna. Non si trattava di suicidio per intenderci, no di certo! Il problema non si poneva in tali termini. Sapeva di non poter riconquistare la felicità perduta nella violenza di una morte autoinflitta. Doveva familiarizzare con lei fino a carpirle il sapore.
     Centellinandola.
     Se ne sarebbe andato nell’innocenza assoluta, come un albero privo di nutrimento.


     La gazza

     Quella mattina il sole sembrava una pesca succosa e impregnava il giardino della sua resina infuocata. Le prugne mature – si era ad agosto – si gonfiavano di linfa e facevano scricchiolare i rami appesantiti, le lisette cremisi delle bordure frusciavano per trafugare un rimasuglio d’umidità all’atmosfera già cocente, i merli schiamazzavano, le cince berciavano, uno scoiattolo dal muso di fauno faceva capolino tra le foglie del vecchio ciliegio, le vespe ronzavano attorno al favo appeso sotto la grondaia del portico. Vicino allo stagno i ghirigori aerei di alcune libellule Agrion – le elitre vibranti di violetti e verdi – contrastavano con la fatica di una splendida Anax che arrancava sulle zampe, non fatte per camminare ma per attaccarsi ai rami delle postazioni di sosta.
     Inconsueto comportamento per una libellula predatrice dell’aria!
     Benedetto, però, lo sapeva il perché.
     Se l’avesse presa prudentemente con le dita e rigirata ad addome in su, il motivo sarebbe apparso manifesto. Uno squarcio, un’orrenda mozzatura degli organi vitali, ecco la spiegazione! Violata da un’insignificante formica terragnola brancolava ancora sul terreno, forte del motore muscolare intatto e degli enormi occhi complessi volti a mete irraggiungibili.

     Benedetto conosce il vuoto della libellula.
     Divorato di sorpresa, costretto a terra, si muove per residui di conduzione nelle guaine neurali.
     Il cuore gli è stato reciso e portato via.
     Lui e la libellula hanno subito la stessa sorte.
     Seduto sul seggiolone di quercia, assiste immobile alle frenesie dell’alba estiva e ne archivia mentalmente le varianti. Si accorge di una gazza piuttosto eccentrica che raspa tra le tegole del tetto della rimessa, scoccandogli furtive sbirciatine.

     Il bellissimo animale dai magnifici riflessi blu elettrico sulle ali e sulla coda si aggirava nei paraggi da un po’. Compariva all’arrivo di Benedetto in giardino e lo fissava, negli occhi uno sbrilluccichio di zaffiro, confidenziale e garbato.
     Controvoglia Benedetto lo ammetteva: era di compagnia e rallegrava. Cose, queste, da evitare, rifletteva perplesso. Non erano parte del programma e non lo aiutavano nel disegno ineccepibile architettato a tavolino.
     Cosa sarà mai una gazza! si ripeteva quando gli zampettava vicino emettendo versi flautati, dissimili dai tipici della specie. E l’esclamazione interna, una volta espressa, la ricusava istintivamente per permettersi di sogguardarla ancora, quella gazza leggiadra, attirato dalla levità delle movenze e dal grazioso volgere del capo, se lui si scostava.
     Stravagante uccello! Diverso dagli altri.
     Offriva…, che cosa? Offriva ristoro.
     Formulata la risposta, Benedetto se ne vergognò di colpo, ma non la scacciò.
     Capì in breve di non poterne controllare l’eccezionalità. L’avrebbe accettata, studiata con la prudenza con cui aveva indagato le fasi degli astri. Le cose non potevano cambiare, aveva imboccato la strada giusta, non avrebbe deviato per una gazza dagli occhi di zaffiro. Si obbligò a crederla una fuggevole distrazione, cercò anzi di non darle troppo peso, non voleva affezioni di nessun genere, intoppi di sentimenti che fermassero il presente in un tenero corpo piumato, nell’eleganza di ali aperte in volo. Urgeva ridimensionarla a elemento del paesaggio, insomma. Era come gli alberi, i fiumi, i tramonti. Da registrare con i sensi e da vivere con inerzia. La studiava sicuro di un fatto: la sua labilità ben più accentuata di quella dell’uomo. Un giorno non lontano l’avrebbe vista in bocca a uno dei tanti gatti randagi del quartiere. Allora, si sarebbe voltato dall’altra parte senza scomporsi. Ma, al solo abbozzare la congettura, rabbrividiva involontariamente. E si spaventava e interrogava.
Rabbrividire d’orrore per l’eventuale morte di una gazza? Com’era possibile?
La fiducia nella scelta fatta all’inizio, immediatamente dopo la disgrazia, vacillò. Si sentì perduto. Occorreva provvedere con una contromossa. 
     Chiudendosi in casa.
     Lei fuori, lui dentro.
     Per quanto possibile avrebbe imitato un Tomiside, ovvero uno dei numerosi ragni-granchio del giardino abili a nascondersi nei fiori delle ombrellifere con secreti cromatici mimetizzanti. L’estremo tentativo di specializzazione per sottrarsi all’assedio timido della gazza implicava una sola alternativa: l’isolamento ulteriore, senza titubanze. Per quanto possibile.
     La natura, da quel momento, l’avrebbe semplicemente immaginata. Sarebbe diventato cieco.
     Un cieco particolare.
     Com’era sordo in modo particolare.

     
     Silvina

     Il campanello di casa squilla aggressivo, Benedetto è sul divano informe del salotto, informe egli stesso. Si stancheranno, ansima abulico, determinato a non alzarsi, a non fare la fatica di quei pochi metri, a non aprire per nessun motivo.
     I trilli elettrici gli perforano il cervello. Deve escogitare un modo per levarseli di torno assieme agli altri disturbi sonori. La periferia cittadina si sta estendendo con nuovi cantieri a danno della campagna e il chiasso in crescita mette a dura prova il suo laborioso addestramento. Teme di non poter cogliere l’attimo in cui le voci amate gli sospireranno la formula a lungo cercata. Deve decidere qualcosa. Di definitivo. Non vuole cedere dopo tanto impegno.
     Dormirà durante il giorno.
Del sonno penoso e interrotto che non ti fa riposare e ti rompe le ossa, ma serve perché educa all’addio. Separandoti dalle sollecitazioni del mondo.
     Di notte, invece: la veglia.
     Nel silenzio, l’ascolto.
     Pressoché senza interferenze tranne: una macchina in corsa, la stridula frenata, sirene. Suggestioni acustiche, queste, di cui non può disfarsi perché hanno la scorza coriacea della tragedia e si ripresentano spontanee, condizionate dal subconscio ed evocate da un fulcro di puro dolore. Indipendenti dall’opera dell’uomo. Forse il cenno asettico di quel Dio senza nome che, per abituarci al commiato, toglie la quiete non risparmiando nemmeno la lente pastello dell’alba. L’alba: meravigliosa per chi, non ancora toccato dalla sofferenza, aspetta il riaccendersi del giorno come un dono; ciarlatana da quattro soldi per chi, schiacciato da drammi insopportabili, ne avverte l’inganno da soap opera e smaschera la lusinga del rigenerarsi.
     Il campanello si fa arrogante. Ripete un driiiiin ostinato. Benedetto si accartoccia, le mani sulle orecchie. Abnormi risonanze forano le pareti, graffiano il suo torpore. Un batacchio gli percuote le tempie. Nell’aria torrida, con la lentezza di un bradipo, si disviluppa, si alza, va alla porta.
     Schiude uno spiraglio.
     Ci infila la testa.
     Piano.
     È Silvina.

     La conosce da abbastanza tempo. Quanto? Non lo sa con precisione. Silvina ha… (che età può avere?), neppure questo Benedetto sa con precisione. Sottile, un visino dall’ovale nitido, gli occhi di un nero giaietto singolare. Fuggita con la famiglia dallo sconfinato territorio cinese. Un’odissea coronata dal successo, la loro. Il padre lavora in una fabbrica di macchine agricole, la madre cuce a casa. Hanno quanto basta alle loro esigenze.
     Lei ama girovagare. Taciturna e osservatrice, va alla scoperta del mondo circostante, nel cuore la bellezza dei grandi spazi dove è nata. E la sontuosità dell’acqua: abbondante acqua di fiume dalle anse placide che ricorda con chiarezza, sebbene il viaggio verso la vita l’abbia fatto ancora piccina.
     Benedetto se l’è trovata in giardino una mattina d’inverno fredda e tersa. Ginocchia sull’erba irrigidita dal gelo, le braccia esili a mo’ di puntelli, sporgeva pericolosamente il busto sopra lo stagno, in precario equilibrio.
     Vederla e acciuffarla al volo fu tutt’uno. Tenerla davanti al volto (leggera come una gattina!) fu inevitabile. Incrociarne lo sguardo, una delizia.
     Storia presente, quelle pupille dense di presagi.
     Storia che si trasmette di giorno in giorno con delle regole salde.
     L’ha chiamata Silvina.
     Silvina, perché non riesce a pronunciarne il nome cinese. Gliel’ha proposto scarabocchiandolo su un pezzetto di carta azzurra. Lei ha annuito, senza emettere un fiato.
Così, si sono dettati le clausole di relazione: lei avrà libero accesso al giardino passando attraverso un buco della rete che lo divide dai campi incolti. Non gli si deve avvicinare, però, più dell’indispensabile. Potrà coltivare loto e ninfee nello stagno, e allevarvi una coppia di germani, in cambio delle compere giornaliere da depositare davanti alla porta. Di lei non vuole sapere null’altro oltre alle quattro informazioni vergate con una grafia a svolazzi sulle pagine di un quadernino che porta appeso al collo in bizzarro ciondolo. Né baderà a quanto gli dicono i suoi occhi, raramente mesti e molto, molto affascinati da lui.
In breve la sua presenza è accettata e il giardino si ingentilisce per i fiori polposi sulla superficie dello stagno e per i due animali che donano cangianti tremolii all’acqua con le loro livree.
     Da quando c’è Silvina il giardino si è vestito a festa.

     Un triangolo di luce si allarga sul parquet. Silvina spinge con una mano sporca di terra il battente: chiede di entrare. Benedetto accenna di no, lei però insiste e varca la soglia. Attraversa la stanza e gli impone di seguirla verso il portico con un movimento del capo. Spalanca la portafinestra, le imposte, esce nel sole che abbaglia. Lui accondiscende frastornato, la guarda avanzare verso i cespugli di rose rampicanti, fermarsi, la sente modulare un fischio verso l’intrico di rami, foglie, fiori.
     Davanti alle rose, la mano destra chiusa a pugno tra le pieghe del vestito chiaro, Silvina fischia un’altra volta, gli occhi affondati a tratti in quelli di Benedetto.
     Nell’aria c’è il profumo del sole.
     D’improvviso, con un brillare bianco-nero-blu si mostra la gazza, a fianco di Silvina, gli occhi tondi di zaffiro affondati anch’essi in quelli di Benedetto.
     Ora Silvina ha allentato la stretta delle dita, mostra qualcosa. Sul palmo luccica un anello.
     «Credo sia per te» dice con voce limpida. «L’ho trovato sepolto tra le radici della rosa gialla. Dentro c’è un nome: Elena. Mi ci ha portato lei» aggiunge indicando la gazza. «Io la chiamo Cielo.»

     Benedetto piange, folgorato dal presente che gli scoppia nel cuore di rabdomante solitario.
     Sublime, imperscrutabile presente!
     È in noi il tempo immobile di chi non vive più. La vita è la chiave per coglierlo e capire. Lei ci spalanca il suo arcano. Persino dove pare negata sta in allerta, pronta a catturarci.
     Le guance gli ardono per il sale delle lacrime.
     Così, Benedetto dice, cercando accordi antichi:
     «Sì, il suo nome è Cielo».

     E lei, Cielo la gazza, ricama in volo cantilene d’oro.

Irene Navarra

Qui di seguito gli altri racconti pubblicati:

Il Bambinello delle Arpie;

Il ritorno;

Tra le labbra livide della notte;

Le rose rosse;