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lunedì 17 ottobre 2022

Critica / Per Carlo Michelstaedter: Dalla Morte alla Vita.


Oggi, 17 Ottobre 2022, ricorre l'anniversario della morte di Carlo Michelstaedter.
Lo ricordo con un articolo, scritto nel lontano 2010, che continua a essermi caro
per le suggestioni evocate alla rilettura.
Tutte perfettamente ancora intatte.

Irene Navarra, Cimitero ebraico di Valdirose, La tomba di Carlo Michelstaedter, Fotografia, 2010.

La foto fu fortunosamente scattata alcuni giorni prima della feroce ripulitura cui furono sottoposti la pietra del cippo funebre e gli altri resti sparsi attorno.

Il mio ennesimo ritorno a Carlo Michelstaedter questa volta inizia non dalla casa di nascita, al n.4 di Piazza Grande, non dal fiume Isonzo che conobbe il suo corpo, né da Grado, da Pirano che videro il procedere dei suoi giovani anni e ne portano ancora i segni incancellabili. Questa volta a chiamarmi è la sua tomba sterile, nel cimitero di Valdirose, abbracciata quasi da quella corrosa del fratello Gino. Dalla Morte alla Vita, mi dico mentre pongo due piccoli sassi rituali su un altro più largo e piatto che sembra un altare. Lo sollevo per tentare di capire la sostanza del ricordo. L’erba sotto ancora verde testimonia un omaggio recente. Aggiungo due pratoline, un ranuncolo, un po’ di Occhi della Madonna e rifletto: la forma sferica dei ciottoli, il bianco, il giallo e l’azzurro dei fiori compongono un sincretismo religioso che forse gli sarebbe piaciuto. Piccoli gesti, semplici liturgie che simboleggiano la durata affettiva di quanti, come me, affidano a Carlo Michelstaedter i loro pensieri.

Il  cimitero ebraico di Valdirose è selvaggiamente bello, con un che di celtico  dato dall’erba rigogliosa e incolta, dalle pietre chiazzate di licheni  grigio-ocra, affioranti dal suolo o divelte, frantumate o intatte, svettanti  talvolta in cuspidi. Un frammento di verde tra nastri di strade e guardrail  come una coreografia astratta dove lo sguardo naufraga senza punti di  riferimento. Sculture ambientali con qualche installazione ossidata degna di  David Smith. Il suono dei motori delle macchine - sfreccianti per un secondo e  già lontane - rende aliena la pace schiva del posto. Circondata dal frastuono  di un progresso sbilenco, pare difficile chiudersi nella propria mente per  travalicare barriere di senso e cercare un contatto. La domanda inevitabile è:  può un luogo sacro essere incastonato in materiale vile come la lamiera e  l’asfalto può essere il nucleo di icone che nulla hanno di cultuale e parlano  solo di civiltà retorica? Evidentemente sì. Dalla vegetazione intatta dei Primi  del Novecento al tracollo attuale di ogni riguardo. Scelgo l’inevitabile  adattamento con una punta di malinconia, scacciata subito dalla consapevolezza  dell’attimo senza uguali.
L’ultimo rifugio di Carlo Michelstaedter non è più protetto dai due cipressi di specie  rara piantati il giorno delle esequie, e cresciuti in modo scomposto,  irriverente. Li ha annichiliti un taglio quasi radicale. I tronchi mutili,  apparentemente privi di dignità, mimano dei sedili. Mi guardo bene dal  toccarli. Gli alberi hanno un’anima da rispettare. Capto ancora la loro  energia. Mi siedo a terra, tenendo gli occhi fissi sul muro di cinta proprio  perché limita la vista fisica. Dischiudo quella interiore. Così, d’istinto, e  per balzi percettivi molto naturali. Dal finito all’infinito, insegna Giacomo  Leopardi. Oltre la sua siepe “interminati  spazi […], e sovrumani silenzi, e  profondissima quiete”. Il muro può ben sostituire una siepe. Luoghi e tempi scaturiscono dagli strati  della memoria profonda. Al di là del misero orizzonte si condensano idee,  individuali evocazioni. Il riflesso della luce del sole che mi riverbera alle  spalle e si smorza nelle crepe delle steli solitarie ha la vastità,  l’estensione di un piacere speciale. Nulla di trascendente. Piuttosto  un’impressione di matrice sensista che non chiede assolutezze. Mi riapproprio  del frutto del suo genio: le Poesie, Il  dialogo della salute, acquerelli, disegni, La persuasione e la rettorica, le  lettere, gli appunti, le note. Mi  scorre nella mente un film virtuale che porta significazioni e tratti. Immagini  incalzano: Carlo, Rico (Mreule), Nino (Paternolli) nello splendore della  giovinezza, le loro corse sfrenate lungo gli ampi viali della nostra città, lo  Staatsgymnasium in Via delle Scuole, le gite e i bagni al fiume, le fughe al  San Valentin, le notti sul San Valentin, Carlo a teatro, Carlo al mare, il  nuoto, il tennis, la scherma, Sofocle, Ibsen, Beethoven, Schopenhauer, la  sorella Paula, Firenze, Nadia Baraden, Jolanda De Blasi, Argia Cassini, la  soffitta di Nino, la pistola di Rico. Una ridda di fotogrammi come flash  improvvisi mi si affolta dentro. Dietro ogni nome e oggetto altre fisionomie e  dettagli. Differenti, eppure parte dello stesso tutto. Il volto di Carlo emerge  dall’indistinto, ora radioso ora cupo, in un alternare repentino. È un volto “mezzo tra bello e terribile”, come quello della Natura in dialogo con l’Islandese nell’omonima Operetta morale di Giacomo Leopardi.  Suggestioni, queste, giochi d’abbandono corrivo in cui voglio scivolare.

  Come  sempre quando penso a Carlo Michelstaedter avviene un fatto strano: il tempo  scarta e si riavvolge. A livello di coscienza, per intermittenze non uniformi o  incatenate in un prima e un dopo, ma sciolte come la parabola dell’iride in un  prisma cristallino dalle facce sempre fulgide, se lo vai ruotando. Facce  diverse, un unico cuore vibrante. Il passato ritorna, dunque. Così reale da inalare  odore di ceri e deglutire salso di lacrime, tra singhiozzi e salmodie. Riarrotolo  ancora un poco il filo del recupero, lascio la morte e torno alla vita di  Carlo: la sua voce sillaba gli ultimi versi della lirica del 2 agosto 1910, [Alla sorella Paula]: “Lasciami andare, Paula,  nella notte / a crearmi la luce da me stesso, / lasciami andar oltre il  deserto, al mare / perch’io ti porti il dono luminoso / … molto più che non  credi mi sei cara.”.

  Nel  mio qui e ora niente orizzonti metafisici, solo la pietra del cippo funerario  davanti a me. Liscia dov’è incisa la scritta con il suo nome. Calda.

Irene Navarra, in Speciale Cultura di Voce Isontina del 29 maggio 2010.

(Dall'apparato critico propedeutico allo spettacolo multimediale Omaggio a Carlo Michelstaedter / Di soglia in soglia la Percezione dell'Assoluto,  rappresentato al Teatro Incontrodi Gorizia il 4 giugno 2010, per il centenario della morte.) 


sabato 15 ottobre 2022

Critica e Arte / Per Carlo Michelstaedter - Di Soglia in Soglia la Percezione dell'Assoluto.

In ricordo di Carlo Michelstaedter e dell'evento a lui dedicato per il centenario della sua morte, avvenuta per suicidio il 17 Ottobre 1910. Tratto da uno Studio critico che mi ha impegnata per un anno intero.
Mente, cuore, sensi sempre in Lui.

Sul n. 4 della Rivista TRIESTE Arte & Cultura (maggio/giugno 2010) Tassilo Del Franco ha recensito l’ Omaggio a Carlo Michelstaedter / Di soglia in soglia la Percezione dell’Assoluto che Irene Navarra ha tratto da un suo studio come performance di riflessione sulle componenti Di Tenebre e di Luce della personalità del giovane intellettuale. Importante partecipazione creativa e critica all’evento da parte di Alessandra Rea che ha indagato le Tracce esistenziali del filosofo goriziano al di là della sua città, di Alessandra Marc in veste di interprete delle sue liriche, della musicista Michela Cuschie con suggestivi pezzi al pianoforte, di Giulia Rivetti e Giuseppe Mennillo nella personificazione coreografica della Bella Morte e di Carlo stesso.

 Carlo Michelstaedter: la Percezione dell’Assoluto

Quasi un secolo fa, il 17 ottobre 1910, moriva Carlo Michelstaedter. La sua figura di filosofo, poeta, artista, studioso, anche senza considerarne la giovanissima età, fu la più straordinaria che le nostre terre espressero prima delle guerre mondiali. Il fascino che tuttora emana da questo ragazzo unico nel suo genio lo rende sempre vivo, a confrontarsi col nostro mondo, solo apparentemente lontano. La causa profonda di questa sconcertante presenza tra noi sta in quella volontà di essere fino in fondo, che egli ebbe, essere qui e adesso, come chi coglie pienamente la vita nella sua dimensione totale, affatto distratto da tutto ciò che attenua il lacerante dolore della sua piena consapevolezza. Vita e morte (e la vita sulla soglia della morte) sono, per ciò stesso, tematiche ineludibili, vitalmente e tragicamente necessarie al pensiero del Michelstaedter:

Vita, morte
la vita nella morte
morte vita
la morte nella vita.
Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte filammo a questa morte

Il 4 giugno, “a centoventitré anni, un giorno e qualche ora dalla nascita, il 3 giugno 1887”, nella bella sala “Incontro” della Parrocchia di S. Rocco a Gorizia, si è tenuto un memorabile evento a ricordo del giovane goriziano. In esso non si è voluto certo approfondire, e nemmeno affrontare, le varie tematiche legate a Carlo Michelstaedter e alla sua produzione, ma suggerire riflessioni su di lui, farne apprezzare aspetti poco esplorati della complessa e delicata personalità, e della vita: un bel modo di far conoscere e forse amare la figura dell’uomo. L’ “Omaggio a Carlo Michelsaedter / Di soglia in soglia la Percezionedell’Assoluto”, che nasce da uno studio di Irene Navarra, poetessa goriziana e appassionata della vita e dell’opera del poeta-filosofo, ha coinvolto anche la scrittrice Alessandra Rea, la musicista Michela Cuschie e la lettrice Alessandra Marc. Nel corso della serata, che ha visto riempirsi rapidamente la sala per l’affluenza del pubblico, i quadri a olio e gli acquerelli del maestro goriziano Roberto Faganel e i “Pensieri in danza” di Giulia Rivetti e Giuseppe Mennillo hanno illustrato visivamente le parole lette sul palcoscenico. Musica, arte grafica e coreografie legate alla parola, hanno fortemente evocato la presenza del giovane goriziano, mostrandone l’attualità dopo un secolo. Nella tensione insostenibile del suo essere rivolto alla verità senza tramiti, per l’abbandono di sistemi filosofici, di contemplazioni metafisiche, di metodici artifici retorici, rimaneva al suo spirito la volontà di sublimarsi nell’espressione poetica dell’irraggiungibile. Al ragazzo goriziano si aprivano così  le vastità di una dimensione inesplorata dell’essere cosciente: far emergere l’inesprimibile, abbandonando la ricerca vana nei modi della retorica è mezzo per raggiungere, quasi senza cercarla, la verità profonda della persuasione. Quest’ultima dimensione l’avrebbe avvicinato, forse solo per un attimo, all’assoluto. Raggiunta la persuasione, nulla, se non il silenzio, è adatto alla sua definizione: essa, infatti, è contigua alla morte. Ma come toccare la persuasione, se non attraverso la poesia, il disegno, il volo della fantasia? Tutto nella vita è vanità, come nel Qohèlet, alla fine tutto è inutile orpello, per Carlo, al di fuori della persuasione nella pura coscienza.

Al mio sole, al mio mar per queste strade
della terra o del mar mi volgo invano,
vana è la pena e vana la speranza,tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.

Eppure il giovane Michelstaedter che vive con intensità la sua età e fa anche l’esperienza dei tormenti d’amore, non abbandona mai la dolorosa coscienza della realtà dell’esistere:

A che mi guardi fanciulla con gli occhi pieni di luce,
con gli occhi azzurri profondi ed al volto ti sale una fiamma?
Non ha sole la mia giovinezza, non conta gli anni il mio core
l’anima mia dolorosa non sa le primavere.
Fanciulla perché ti soffermi? perché t’avvicini al mio core?
perché o fanciulla l’avvolgi nel fuoco tuo giovanile?
Fanciulla è freddo il mio core, è freddo il mio core e lontano,
non sente l’alito ardente della tua giovane vita.

Sul colpo della pistola lasciatagli dall’amico Rico Mreule, che ha messo fine alla sua vita, si sono dette e scritte molte cose (nervosismo, suicidio metafisico, depressione...). Irene Navarra propone un’ottica interessante: “Come sempre quando penso a Carlo Michelstaedter avviene un fatto strano: il tempo scarta e si riavvolge. A livello di coscienza, per intermittenze non uniformi o incatenate in un prima e un dopo, ma sciolte come la parabola dell’iride in un prisma cristallino dalle facce sempre fulgide, se lo vai ruotando. Facce diverse, un unico cuore vibrante. Il passato ritorna, dunque. Così reale da inalare odore di ceri e deglutire salso di lacrime, tra singhiozzi e salmodie. Riarrotolo ancora un poco il filo del recupero, lascio la morte e torno alla vita di Carlo: la sua voce sillaba gli ultimi versi della lirica del 2 agosto 1910, [Alla sorella Paula]":

Lasciami andare, Paula, nella notte
a crearmi la luce da me stesso,
lasciami andar oltre il deserto, al mare
perch’io ti porti il dono luminoso
… molto più che non credi mi sei cara.

Una morte, dunque, per amore della vita, rincorrendo“il dono luminoso” della “pienezza dell’essere”?

Amico io guardo ancora all’orizzonte
dove il cielo ed il mare
la vita fondon infinitamente.
Guardo e chiedo la vita
la vita della mia forza selvaggia
perch’io plasmi il mio mondo e perché il sole
di me possa narrar l’ombra e le luci
la vita che mi dia pace sicura nella pienezza dell’essere.

Ecco Carlo Michelstaedter apparire illuminato dalla stessa malattia del vivere sulla soglia tra la vita e la morte. Eccolo sospeso nel “disadattamento per cause insite nello stesso esistere”. “Malattia come un filo con a un capo la vita, all’altro la morte. Che si sovrappongono se, con un atto di volontà determinata lo recidi, rendendo la vita morte".

Cade la pioggia triste e senza posa
a stilla a stilla
e si dissolve. Trema
la luce d’ogni cosa. Ed ogni cosa
sembra che debba
nell’ombra densa dileguare e quasi
nebbia bianchiccia perdersi e morire
mentre filtri voluttüosamente
oltre i diafani fili di pioggia
come lame d’acciaio vibranti.
Così l’anima mia si discolora
e si dissolve indefinitamente
che fra le tenui spire l’universo
volle abbracciare. 

Ahi! che svanita come nebbia bianca
nell’ombra folta della notte eterna
è la natura e l’anima smarrita
palpita e soffre orribilmente sol
sola e cerca l’oblio.

Tassilo Del Franco, in "TRIESTE Arte & Cultura" (maggio/giugno 2010)

Critica e Arte / Personalità allo specchio: Carlo Michelstaedter e Ludwig van Beethoven

L'anniversario della morte di Carlo Michelstaedter è vicino.
Cadrà il 17 ottobre.
Fra due giorni, dunque.
Due giorni in cui sarà nei miei pensieri più di quanto lo sia sempre.


Carlo Michelstaedter, Autoritratto, 1907.
Biblioteca Statale Isontina - Gorizia.


L'articolo di seguito riportato deriva dall'apparato critico propedeutico allo spettacolo multimediale Omaggio a Carlo Michelstaedter / Di soglia in soglia la Percezione dell'Assoluto, rappresentato al Teatro Incontro di Gorizia, il 4 giugno 2010. Fu pubblicato nello Speciale Cultura di Voce Isontina del 29 maggio 2010.

Carlo Michelstaedter sentì la musica in modo profondo. Per l’indole sensibilissima e inquieta seppe scendere alle radici dell’entusiasmo che rende l’ascolto un’esperienza unica. Il non conoscere il linguaggio delle sette note, l’arte eterea intuitivamente spalancata sulle regioni altre dell’essere, fu a lui fonte di tormento. Talvolta un’armonia o una discordanza restituiscono il sentimento meglio di mille parole. Nel salotto di Giannotto Bastianelli, ottimo musicista e critico, a partire dal 1907 Carlo ebbe modo di conoscere le potenti creazioni di Beethoven, nutrendosi anche dell’atmosfera vociana che gli amici dell’Ateneo fiorentino - Emilio Cecchi, Scipio Slataper e lo stesso padrone di casa - portavano. Cecchi avrebbe poi parlato - a proposito delle «smusicate» in casa Bastianelli - di «libera cattedra di musica classica». E così fu veramente per il nostro concittadino. Lo apprendiamo dalle sue lettere. Nell’Epistola da Firenze alla sorella Paula, datata 30 maggio 1909, troviamo un inizio dal tono sospeso, sembra un ragionamento sul tema delle bontà assoluta. Ben presto però l’incipit, a metà tra la burla affettuosa e il filosofare leggero, si sfalda in un richiamo alle partiture del grande compositore renano, fatte espressione del suo pensiero: “Se sapessi scriver note e se tu le comprendessi ti scriverei il tema dell’andante della IX Sinfonia: sarebbe più eloquente di me per dire quello che voglio dire; oppure – non ridere! – leggi il Vangelo di San Matteo”. Nell’impulso dei suoi rapimenti elettivi Carlo Michelstaedter riconosce in Beethoven uno spirito affine, insofferente di ogni falsa apparenza, mai prono al dolore, destinato alla solitudine come compagna esistenziale, ma a questa volto solo di necessità. Perché le “comunelle di malvagi” non potessero contaminarlo con la loro “rettorica” fatiscente.
Beethoven sfidò il destino nel Primo tempo della Quinta Sinfonia. E di certo Carlo lo amò per questa concezione sublime del vivere a metà tra il bello e l’orroroso, la sola che può farti trionfare sulle miserie umane, se frutto di esperienza come il bere il tuo vino effimero fino alla feccia.
Beethoven cantò la vita per quanto vittima dei suoi tormenti. L’Inno alla gioia di Friedrich von Schiller, che è cuore pulsante della Nona Sinfonia da lui musicata in una versione leggermente diversa dall’originale, è la testimonianza di una gioia intesa non certo come semplice abbandono spensierato al piacere epicureo del cogliere l’attimo e i suoi inganni, bensì come conquista di una Morale della responsabilità, da perseguirsi con l’impegno. Per spogliarsi da ogni forma di vizio. La Nona sinfonia è quindi prova sublime di titanismo. Del genere già conosciuto dal Nostro, in particolare attraverso le letture delle Operette morali, de Il ciclo di Aspasia, de La Ginestra di Giacomo Leopardi. Testi fondamentali per la conferma di un virile rapporto con il dolore e con la sua accettazione. Così come, tornando a Beethoven, la Missa solemnis lo è dell’inevitabile: la distruzione dei vincoli prima, la morte poi. E non vi è tutto Michelstaedter in questa lotta al Nulla che minaccia la via del giusto con le lusinghe dell'attaccamento alla vita? In Beethoven egli trova il modello contro le trappole della dissimulazione che ci torce all’inautenticità. Lo pone al fianco di Socrate e Cristo, si fa condurre con ancor più vigore alla filosofia, alla sua separatezza bastevole a sé.
Mi piace immaginare Carlo Michelstaedter mentre contesta a Bastianelli l’esecuzione dell’Eroica al di là della Marcia funebre perché, secondo lui, la Sinfonia finiva con quel movimento ed era inutile procedere nella vivacità del successivo Scherzo. Mi affascina la sua proterva sfrontatezza, la sua tragica determinazione a scegliere il puro Dolore come fonte di eroismo. Attraverso la musica del suo recente maestro egli traguardava l’orizzonte della finitezza umana dai bordi dell’imperfezione che, una volta riconosciuta come esistenziale del Persuaso, può indicare la via dell’Assoluto.

Irene Navarra
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