L'anniversario della morte di Carlo Michelstaedter è vicino.
Cadrà il 17 ottobre.
Fra due giorni, dunque.
Due giorni in cui sarà nei miei pensieri più di quanto lo sia sempre.
Cadrà il 17 ottobre.
Fra due giorni, dunque.
Due giorni in cui sarà nei miei pensieri più di quanto lo sia sempre.
Carlo Michelstaedter, Autoritratto, 1907.
Biblioteca Statale Isontina - Gorizia.
L'articolo di seguito riportato deriva dall'apparato critico propedeutico allo spettacolo multimediale Omaggio a Carlo Michelstaedter / Di soglia in soglia la Percezione dell'Assoluto, rappresentato al Teatro Incontro di Gorizia, il 4 giugno 2010. Fu pubblicato nello Speciale Cultura di Voce Isontina del 29 maggio 2010.
Carlo Michelstaedter sentì la musica in modo profondo. Per l’indole sensibilissima e inquieta seppe scendere alle radici dell’entusiasmo che rende l’ascolto un’esperienza unica. Il non conoscere il linguaggio delle sette note, l’arte eterea intuitivamente spalancata sulle regioni altre dell’essere, fu a lui fonte di tormento. Talvolta un’armonia o una discordanza restituiscono il sentimento meglio di mille parole. Nel salotto di Giannotto Bastianelli, ottimo musicista e critico, a partire dal 1907 Carlo ebbe modo di conoscere le potenti creazioni di Beethoven, nutrendosi anche dell’atmosfera vociana che gli amici dell’Ateneo fiorentino - Emilio Cecchi, Scipio Slataper e lo stesso padrone di casa - portavano. Cecchi avrebbe poi parlato - a proposito delle «smusicate» in casa Bastianelli - di «libera cattedra di musica classica». E così fu veramente per il nostro concittadino. Lo apprendiamo dalle sue lettere. Nell’Epistola da Firenze alla sorella Paula, datata 30 maggio 1909, troviamo un inizio dal tono sospeso, sembra un ragionamento sul tema delle bontà assoluta. Ben presto però l’incipit, a metà tra la burla affettuosa e il filosofare leggero, si sfalda in un richiamo alle partiture del grande compositore renano, fatte espressione del suo pensiero: “Se sapessi scriver note e se tu le comprendessi ti scriverei il tema dell’andante della IX Sinfonia: sarebbe più eloquente di me per dire quello che voglio dire; oppure – non ridere! – leggi il Vangelo di San Matteo”. Nell’impulso dei suoi rapimenti elettivi Carlo Michelstaedter riconosce in Beethoven uno spirito affine, insofferente di ogni falsa apparenza, mai prono al dolore, destinato alla solitudine come compagna esistenziale, ma a questa volto solo di necessità. Perché le “comunelle di malvagi” non potessero contaminarlo con la loro “rettorica” fatiscente.
Beethoven sfidò il destino nel Primo tempo della Quinta Sinfonia. E di certo Carlo lo amò per questa concezione sublime del vivere a metà tra il bello e l’orroroso, la sola che può farti trionfare sulle miserie umane, se frutto di esperienza come il bere il tuo vino effimero fino alla feccia.
Beethoven cantò la vita per quanto vittima dei suoi tormenti. L’Inno alla gioia di Friedrich von Schiller, che è cuore pulsante della Nona Sinfonia da lui musicata in una versione leggermente diversa dall’originale, è la testimonianza di una gioia intesa non certo come semplice abbandono spensierato al piacere epicureo del cogliere l’attimo e i suoi inganni, bensì come conquista di una Morale della responsabilità, da perseguirsi con l’impegno. Per spogliarsi da ogni forma di vizio. La Nona sinfonia è quindi prova sublime di titanismo. Del genere già conosciuto dal Nostro, in particolare attraverso le letture delle Operette morali, de Il ciclo di Aspasia, de La Ginestra di Giacomo Leopardi. Testi fondamentali per la conferma di un virile rapporto con il dolore e con la sua accettazione. Così come, tornando a Beethoven, la Missa solemnis lo è dell’inevitabile: la distruzione dei vincoli prima, la morte poi. E non vi è tutto Michelstaedter in questa lotta al Nulla che minaccia la via del giusto con le lusinghe dell'attaccamento alla vita? In Beethoven egli trova il modello contro le trappole della dissimulazione che ci torce all’inautenticità. Lo pone al fianco di Socrate e Cristo, si fa condurre con ancor più vigore alla filosofia, alla sua separatezza bastevole a sé.
Mi piace immaginare Carlo Michelstaedter mentre contesta a Bastianelli l’esecuzione dell’Eroica al di là della Marcia funebre perché, secondo lui, la Sinfonia finiva con quel movimento ed era inutile procedere nella vivacità del successivo Scherzo. Mi affascina la sua proterva sfrontatezza, la sua tragica determinazione a scegliere il puro Dolore come fonte di eroismo. Attraverso la musica del suo recente maestro egli traguardava l’orizzonte della finitezza umana dai bordi dell’imperfezione che, una volta riconosciuta come esistenziale del Persuaso, può indicare la via dell’Assoluto.
Irene Navarra