Correva l'anno 1998. Si era ad agosto. Il 26 di agosto. Celebravamo la morte di Pavese nella sua casa tra le colline delle Langhe.
Là, il giorno dopo, mi consegnarono il Premio per la mia silloge "Esclusioni", confluita poi in "Margini" (B&V Editori).
Antonio Catalfamo, Direttore dell'Osservatorio permanente di Studi Pavesiani nel mondo, ricorda così la mia lirica, definendomi una "leopardiana del '900".
Ora pubblica, per i tipi di B & V Editori di Gorizia, un corposo volume di versi, intitolato significativamente "Margini".
Dario Bellezza, prematuramente scomparso, soleva dire che il più grande poeta del Novecento è un poeta dell'Ottocento: Giacomo Leopardi.
E, infatti, dobbiamo al Recanatese il superamento delle barriere artificiali tra i generi letterari, che avevano caratterizzato a lungo la produzione poetica in Italia, in costante ritardo rispetto alle aree culturalmente più avanzate del continente europeo.
La poesia di Irene Navarra risente degli effetti benefici del "leopardismo" novecentesco, in quanto poesia nutrita di pensiero, di riflessione filosofica ed esistenziale, e ben lontana dall'aulicità petrarchesca, che, nella felice schematizzazione di Gianfranco Contini, ha rappresentato l'altro filone della letteratura italiana rispetto a quello dantesco, dominato dal "plurilinguismo", sfociante, appunto, in Leopardi. La semplicità dei versi sciolti è studiata, meditata, per nulla improvvisata, quasi a ripetere il miracolo a cui diede vita un conterraneo della poetessa, Umberto Saba, novello «re Mida», capace di trasformare in oro, con le sue "parole senza storia" - com' ebbe a definirle Giacomo Debenedetti -, tutto ciò che sfiorava. Il significato del titolo della raccolta si comprende leggendo alcuni versi - chiave: "Divenuta per necessità / scatola sigillata / ho messo un' etichetta esplicativa: / / "RIFUSI, RIMASUGLI, NONCURANZE". / / Sono ormai parte integrante / del popolo dei margini".
Il richiamo a Leopardi, al suo "pessimismo cosmico", è evidente. La poetessa si sente "anima clandestina” sulla Terra, spinta ai "margini"; dall'indifferenza dilagante, che ci rende monadi leibniziane ("Mi arruffo come gatto / caldo di sole, nello spazio / - infinitesimo - tutto mio").
Il mondo esterno è presente in via mediata, soprattutto attraverso i suoi odori, i suoi riverberi di luce filtrati da una bottiglia: "Di vetro verde e spesso, un poco / polverosa, sulla credenza, in alto, / forse dimenticata. / / Si accende di riflessi quando - d'inverno - / il sole entra a fatica dall' angolo della / finestra sul giardino. / / Allora il verde si dilata nel viola di Medea / assassina o nell' oro immobile di paste / per mosaici bizantini. / / Per un momento. / / C'è poi il naufragio della luce. / Fino a qualche altro tramonto / di giusta angolatura".
Ma la poesia di Irene Navarra non può essere inserita nell'ampio arco decadente descritto dalla letteratura italiana, nell' ambito dell'esistenzialismo dozzinale, che da troppo tempo la domina.
La denuncia del "male di vivere" non è egoistica autocommiserazione, è accompagnata dalla consapevolezza del suo essere "male comune", che affratella gli uomini e impone leopardianamente solidarietà. Anche se l' "anima clandestina” subisce la tentazione di volare "come un cormorano / al limite del mondo", estraniandosi dalla realtà, "con i suoi morti / impastati di fango", alla fine prevale l'amore per gli uomini, per i loro limiti terreni.
I versi sono dominati da una religiosità tutt' altro che gnostica, che rivaluta l'aspetto umano del Cristo, il suo farsi uomo per soffrire assieme agli altri, incurante del "volo degli Angeli".
Antonio Catalfamo, / America Oggi - New Jersey, 12 gennaio 2003 / Le colline di Pavese, 17 ottobre 2003.
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