Sto
lavorando sulla poesia ermetica. Recupero la parte critica. Rileggo Carlo Bo. Rivedo i sacri testi e, come sempre quando
preparo una lezione di letteratura, divago con il pensiero. Mi piace divagare.
Sono una visionaria. Ora mi aggancio in rapidi spot al poeta Bob Kaufman (New
Orleans, 18 aprile 1925 – San Francisco, 12 gennaio 1986). Immagini e parole.
Il contrasto è evidente, ma le affinità subliminali affiorano.
Scrive
Carlo Bo:
“La
nostra letteratura sale dalle origini centrali dell’uomo, ha troppa memoria per
risolversi in una passione che subisce i nostri umori, le nostre origini, la
nostra povera polemica di viventi. Diventa una conseguenza naturale di
speculazione: è un discorso infinito e continuo che apriamo con noi stessi. […]
È
la vita stessa, e cioè la parte migliore e vera della vita. E si sa a che cosa
alluda: non a questo mostro che ci soffoca di più giorno per giorno, a questa
enorme fiera di vanità in cui per diverso grado cadiamo tutti con le debolezze,
le colpe, i peccati e soprattutto con la nostra spaventosa disponibilità alle
omissioni; non a questo simbolo di vita che ci serve di scusa e di protezione
ma a quella solenne promessa, al nostro unico sogno di salvezza, a quel termine
che difende la “via” e la “verità.” […]
Da: Letteratura
come vita di Carlo Bo, in Il Frontespizio, settembre 1938 e in Otto studi, 1939.
Carlo
Bo e Bob Kaufman? Un critico d’avanguardia sostenitore dell’Ermetismo e un
rapsodo da strada, compagno di Kerouac e degli scrittori della Beat Generation?
Certo che sì! In dissonanza e allo stesso tempo in consonanza: letteratura
fuori dalla storia per Bo (ma pur sempre forma esistenziale) / letteratura dentro la storia per Kaufman. Fermo
restando che per entrambi vita e letteratura sono gemelle siamesi e che tutti e
due considerano la parola poetica in una necessaria intermittenza di discorso e
silenzio.
Bob
Kaufman è stato una figura di primo piano della San Francisco Poetry
Renaissance negli anni Cinquanta. Il suo stile poetico genuino, specchio di un
flusso interno modulato sui ritmi jazz del Bebop (lo chiamavano The Original Bebop Man) influenzò almeno una generazione di
autori. Ne parla magnificamente il regista Billy Woodberry nel documentario And When I Die, I Won’t Stay Dead del 2015.
Qui il trailer:
Bob
Kaufman è un Dharma Bum cittadino che legge i suoi versi dappertutto,
esibendosi in esaltanti performance. Per lui poesia e vita sono un’unità
inscindibile, si nutrono dello stesso substrato. Un fertile humus che il
linguaggio della poesia rivela quando le ragioni storiche, politiche e sociali
aprono spiragli di ragionevolezza. Altrimenti è meglio consegnarsi all’oblio. E
in effetti l’assassinio di J. F. Kennedy lo spinse a fare un voto di silenzio
che perdurò fino al 1975, quando, il giorno in
cui finì la guerra del Vietnam, entrò in un bar e recitò All Those Ships that Never Sailed. Gli si riaprì allora la fonte della
parola e ricominciò a creare. Per breve tempo, però. Nel 1978, dopo aver detto
all’editore Raymond Foye: Voglio essere anonimo… la mia ambizione è
essere completamente dimenticato, si eclissò per sempre.
E adesso gli spot visionari mi portano a
Jean-Michel Basquiat (New York, 22 dicembre 1960 - 12 agosto 1988). Perché? Dalle parole, altre immagini. Ancora
letteratura come vita e vita che diventa arte? Ma sì. Chi più di Basquiat ha
saputo incarnare l’artista che ha fatto arte della sua esistenza. Parlarne qui
non è utile. Il web trabocca di notizie su di lui. Basta un clic e si è
catapultati in caleidoscopiche fantasmagorie. Ciò che mi preme mostrare è il
filo che lega questi autori, lo stame potente che si fa per l’uno battito di
parole e ritmi capaci di rendere incandescente qualsiasi tema; per l’altro commistione
espressionista di colore, materiali e tecniche alla Twombly, Dubuffet,
Rauschenberg. Presi d’istinto, questi ultimi, e amalgamati in uno stile unico. Entrambi dunque hanno creato dei veri e
propri assolo Bebop alla maniera di Charlie Parker. Genuini, veloci, perfetti. E straordinari, chiari-scuri specchi del tempo in cui vissero.