Nell'anniversario della sua nascita.
Finché è stata
in vita le ho dedicato lo spazio meraviglioso delle lezioni scolastiche che nascevano spontanee, con l’occasione di un pensiero, come pepite fulgide
nella sabbia opaca della routine. Lei, Alda Merini, era una sorta di rigoglioso
dono per chi, tra i miei alunni, l’amava e non si saziava mai di ascoltarne la
voce. Dominatrice assoluta di menti e coscienze separava l’ovvio
dall’essenziale attraverso una partecipazione visionaria all’essere. Proprio
così penetrava il cuore del mondo, in un tripudio di tormento ed estasi,
inebriandosi di quella vita - tanto allettante quanto lontana - negatale
all’età di trentaquattro anni, quando fu ricoverata all’Ospedale psichiatrico
Pini di Milano. Vi restò dal 1965 al 1972, con ritorni parziali in famiglia.
Fino al 1979 perdurò il suo dramma di cadute e recuperi. Furono anni, quelli,
naufragati nella palude dei diversi, in una delle tante “città dei matti”
dell’Italia del tempo; trascorsi – almeno all’inizio - nell’inerzia della
catatonia da sedazione, privi sì di nesso e di coscienza, ma anche,
istintivamente, campati da ragna che tesse e ritesse paziente la sua tela più
volte distrutta per scarti di mani impietose. Là infatti, nel Manicomio, grazie
a una paradossale purificazione per mute violente e sottili metamorfosi, Alda
Merini sarebbe riuscita a spogliarsi di tutto, nella consapevolezza che
l’anonimato può salvare se si sublima in epica quotidiana di motivi intimi
minimali dal raccordo pronto a svelarsi. Non appena un fluire di sillabe le
avesse forzato le labbra.
Chi
è poeta per destino sa che la sopravvivenza è legata all’oscuro ed esaltante
numinoso che ti parla dentro: l’ispirazione divina. Cioè Dio. E non importa
quale Dio. Può essere il Cristiano che trabocca in San Francesco, oppure il
Pagano che apre la fonte della parola in Orfeo.
Il
suo Vuoto d’amore, quel libro straordinario in cui scopriamo Il
volume del canto e La Terra Santa, io lo portavo in tasca, come un
viatico di viaggio, e lo materializzavo all’improvviso, facendolo balenare
sotto gli occhi dei miei studenti in piccole performance emozionate. Il
risultato? Ragazzi che leggevano liriche, le capivano, ne componevano a gara.
Gratificante poi ritrovarsi l’opera e la poetica di Alda Merini come traccia
per la prova orale dell’Esame di Stato.
Questo, il trascorso.
Veniamo però al presente, ormai orfano di
lei da quel primo di novembre 2009 in cui se n’è andata a possedere
l’infinito; spingiamoci inoltre anche nel futuro.
Il
presente: leggerla, cantarne il coraggio di dire, dialogare con lei in questo giorno di riflessione e ricordo come se ci fosse accanto.
Il
futuro: continuare a raccontarla, tramandarne l’energia.
Attraverso la misura
del suo canto.
(Da Voce Isontina / Speciale Cultura.)
Guarda il video di Poesia recitata che le ho dedicato.
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