martedì 23 marzo 2021

Poesia / Percezioni: Rappresentazione sul Fiume (con Dante Alighieri, William Shakespeare e John Everett Millais).

 
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,

l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volentier torna a ciò che la trastulla.

Dante Alighieri, La Divina CommediaPurgatorio, XVI, vv. 85 - 90.

Quando parlo dell' Isonzo, di quel Fiume possente che cinge come una cintura di lapislazzulo la mia città, parlo anche dell'Anima che è stata insufflata in me al momento della nascita. Il Fiume è la mia Anima. È stato così sin dall'infanzia e lo è tuttora. La lirica in calce lo spiega raccontando il mio legame con l'Isonzo. Anima-Fiume, quindi. Ma Anima fanciulla. come mi ha insegnato il caro Padre Dante, le cui parole mi risuonano dentro assieme alla voce di mio Padre mentre le leggeva, spiegava e commentava.
Se contemplo il mio Fiume, Dante è con me. Mio Padre è con me.
Loro mi hanno insegnato a percorrere sentieri esistenziali di Dignità e Fede, ad accettare i casi avversi senza mai piegare la testa sotto il peso delle ingiustizie. curando con attenzione quanto di sottile e ingenerato abbiamo in noi: la vera essenza che ci rende unici.
Lei, l'anima semplicetta della mia fanciullezza, si esaltava in meraviglia giocosa davanti allo spettacolo del Fiume. Lo vedeva come un manto di damasco cangiante e mi portava in avventure di cui Lui era non un elemento naturale ma il liquido palcoscenico in cui sperimentare tuffi, nuotate, acrobatiche giravolte... il tutto condiviso con personaggi spesso letterari.
L'Anima che piangendo e ridendo pargoleggia ritorna sempre davanti allo spettacolo dell'Isonzo, rinnovando le sensazioni di allora. Il Fiume era, dunque, teatro di azioni teatrali che interpretavo sempre da protagonista. Mi immaginavo incedere su quel nastro azzurro  e verde e malva come una Regina, o un'aristocratica Sposa dallo strascico lunghissimo, lo sguardo teso verso luoghi lontani e accompagnata da uno stuolo di esseri naturali: il salice, la serpe, la felce, la civetta… Tra di essi potevo diventare anche un'Ofelia felice, immersa vitalmente in acque come giada latte verde e ben diversa dall'eroina tragica dell'Amleto di Shakespeare. Opera che, a quei tempi, divoravo con fame insaziabile di visioni da alterare a mio piacimento. Il ricordo dell'Ophelia di John Everett Millais è - me ne rendo conto ora rileggendo la lirica - alla base di queste fantasie che riappaiono prepotenti mentre riscopro questa piccola biografia in versi, la mia Rappresentazione sul Fiume.

Irene Navarra, Isonzo / Il mio Fiume, La mia Anima, Fotografia, 21 marzo 2016.

Il salice in dialogo col fiume
porta l’impronta del mio corpo.
Tra i rami gli occhi sono perle
attratte dalle nubi che si formano,
riformano, trapassano.
Parole mai uguali.
Oziose per le nocche pallide
strette sui nodi biforcuti.

(Pendere poi dai tralci dondolanti
fino a sfiorare il flusso con i piedi,
entrarci d’improvviso.)

Un manto lunghissimo rampolla
dal palcoscenico di Amleto: damasco
che si srotola e si srotola.
A drappeggiare Ofelia
e il suo destino.

(A costellare il costumino rosso
di gocce scritte con un lapis di cristallo.)

La giada come latte verde
si fa caleidoscopio ribollente
e fremo nella trina indocile
quasi regina
o sposa
verso il traguardo dell’altare.

(Laggiù, oltre le forme azzurre
di insenature maestose,
nel baratro di spume
astratte più del salto.)

La brezza fresche dita scherza,
s’inventa capriole, carambole di guizzi,
schizza iridata l’acqua sulla serpe
che mi traghetta fuori dalla piena
mentre la felce china a bere
scrive un messaggio indecifrabile.
La mota impasta ali di civetta.
Sale nel golfo della schiena
tra le radici ancora acerbe
per il Volo.

(Dai teneri calcagni nasce piano
il fiore pungente dell’ortica.)

 

Qui di seguito i Miti che hanno popolato di sogni a occhi aperti la mia giovinezza: l'Amleto di William Shakespeare (Atto IV, Scena VII. Traduzione di Alessandro Serpieri).

         C’è un salice che cresce storto sul ruscello
e specchia le sue foglie canute nella corrente di vetro;
Lì ella fece fantastiche ghirlande, di ranuncoli,
ortiche , margherite, e di quei lunghi fiori purpurei
a cui gli osceni pastori danno un nome più volgare,
ma le nostre caste fanciulle chiamano dita di morto.
Lì, sui rami spioventi arrampicandosi ad appendere
le sue coroncine, un maligno ramoscello si spezzò,
e giù caddero i suoi fioriti trofei e lei stessa
nel piangente ruscello. Le sue vesti si allargarono
e come una sirena per un poco la tennero su,
e in quel mentre cantava passi di vecchie canzoni
come una inconsapevole della sua ora disperata,
o come una creatura nata e cresciuta
in quell’elemento. Ma non poteva durare a lungo,
e infine i suoi vestiti, pesanti di quanto avevano bevuto
trassero la povera infelice dal suo melodioso canto
alla fangosa morte. 

E il magnifico dipinto di John Everett Millais (1829 - 1896) dal titolo Ophelia (circa 1851); Collezione: Tate Britain; Photo: Tate London 2011.

John Everett Millais - Ophelia - Google Art Project
John Everett Millais, Ophelia, Public domain, via Wikimedia Commons.
 

1 commento:

  1. Carissima Irene, anche tu sei diventata un fiume in piena nello scrivere. Brava|

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