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Irene Navarra, La finzione e il suo riflesso, Disegno grafico, 2017. |
Nella camera da letto, davanti allo specchio appeso
al muro sopra il tavolino da toeletta, Adela si accinse ad allestire la sua
recita. Le azioni, programmate con scrupolo, le serbava scritte in testa, sulle
pagine di una sorta di sceneggiatura virtuale che sfogliava al risveglio. Dalle
6 alle 7 di ogni sacrosanta mattina, in tête à tête con se stessa, le
interpretava da abile attrice, replicandole esatta. Quasi ne dipendesse il filo
di equilibrio logoro su cui si reggeva la sua vita.
Si sedette dunque, guardando alternativamente il
viso che lo specchio le rimandava, e le mani che giacevano inerti sul ripiano
della toeletta tra gli scarsi oggetti usati per la cura personale. Sul volto
sostava pochissimo. Non altrettanto sulle mani. Le mani avevano per lei un
fascino tale da costringerla a venerarle. Erano – si raccontava – delle
sacerdotesse: le vestali addette alla particolare liturgia che la riconciliava
al quotidiano.
Così, dopo un’impercettibile esitazione, il
cerimoniale ebbe inizio. Adela appoggiò gli indici sullo specchio e
incominciò a farli scorrere in movimenti simultanei e paralleli lungo la sua
effigie riflessa. Con tenerezza sfiorò la fronte alta e liscia, scivolò sulle
sopracciglia, sulle palpebre, sulla linea degli occhi, scese, ma a scatti in
avanti e ritrazioni, sulle guance. Guance sovrabbondanti. Due tasche mostruose di
criceto. Le solcò in uno scarto verso la curva del naso,
rallentò, si avvicinò alle labbra, conquistò veloce il mento aguzzo e si
arrestò.
Poi tornò indietro: mento, labbra, naso, guance.
Poi di nuovo avanti: guance, naso, labbra,
mento.
Obbligata a prendere coscienza delle sue
fattezze in quell’esplicita proiezione di sé, cercava di scomporle con malie da
illusionista. Le zone incriminate, però, sembravano gonfiarsi, crescere,
minacciare l’integrità dei dettagli gradevoli. Su di esse Adela agì, imponendo
alle dita un drammatico carosello. Prese a strofinarne i contorni, grattò,
tentò di scavare la fredda materia, di eliminare le raccapriccianti escrescenze
del suo doppio indecoroso, finché, mentre la mano sinistra le ricadeva in
grembo e si risollevava subito in supporto al mento, la destra si aprì a
mostrare la linea affusolata, il palmo si allentò e le dita si allargarono a
ventaglio per coprire la metà inferiore del volto.
Allora, lo specchio le restituì una visione
davvero incantatrice.
Il volto, seminascosto ad arte, divenne
attraente: gli occhi scintillavano; il naso, diritto e dalle narici lievemente
marcate, si armonizzava con gli zigomi enfatizzati dal velo di vene
azzurrognole della mano.
Dietro il riparo mento e guance scomparivano
mentre, al ritmo ora estenuato ora frenetico del cuore, i sensi sovvertiti
liberavano la chimera rintanata in lei fingendo un tempo, un luogo, una storia:
Notte ed effluvi di gelsomini.
Notte di luna assenzio.
Intatta luna sbocciata con le stelle
nel cuore vasto di un cielo blu pavone.
Seta sottile sul corpo di sirena
splendente nel fascio perla
pura della luna amica.
Luce preziosa e chiara.
Soave l’attesa dell’amante.
Nella fantasia bugiarda Adela si affrancava
dall’aspetto reale e pulsava di una vita altra. L’apparente diversità le dava
ali sublimi con cui sfidare ogni evidenza razionale. Un dio caritatevole avrebbe dovuto renderla di
marmo in quella posa: seduta davanti allo specchio, leggermente piegata in
avanti, i gomiti puntati sulla toeletta, le braccia verso l’alto, la mano
sinistra chiusa a pugno in appoggio al mento, la destra sulla metà aborrita. Al
culmine della messinscena, nella penombra della stanza, con il lume che la
rischiarava dal busto in su, un riverbero fulvo tra i capelli, lei si nutriva
di chiaroscuri, diluendo l’odiata consistenza. Stregata dall’inganno, indugiava nella fiaba
surreale persino quando incominciava a far scendere la mano destra, e a scostarla.
Un millimetro alla volta. Persuasa del durare di quel portento. Un millimetro
alla volta il viso sarebbe apparso rimodellato con guance dalle curve dolci e
il mento tondo, segnato da una fossetta. Ricollocati i difetti nel limbo prenatale delle cose superflue, Adela rinasceva e splendeva di bellezza.
L’abbaglio – dilatato dall’intensità dell’attesa
– l’accecava donandole un ineguagliabile ottimismo. Che le faceva scorrere
nella mente una pellicola impressa non da sortilegi esotici, ma da storie comuni:
un uomo al suo fianco, una casa, dei figli.
La realtà tuttavia, malignamente in agguato
dietro il pietoso schermo, la risucchiava nella sua propria sostanza. Ancora
una volta Adela aveva goduto di un artificio raro, necessario come l’acqua nel
deserto, ma infido come la sponda di un fiume gelido le cui acque possono
ucciderti, se corri l’avventura di scivolarci.
Da quell’illusione torpida la riscuotevano i
lamenti della madre. Nella stanza accanto, incalzante e ossessiva, con versi
dissennati lei reclamava attenzione. I gemiti le perforavano il cervello, la
permeavano di un fluido attaccaticcio che le usurpava le guance e il mento,
rideformandole.
Era l’Adela di sempre quella che si staccava
dalla fragile visione, era l’Adela dalle guance‑tasche mostruose di criceto
quella che raggiungeva il letto della madre. La schiena ingobbita,
l’espressione vacua, tornava a quel corpo consumato dagli anni e dalla
malattia.
Adela reagì al richiamo ed entrò nel luogo in
cui si esaurivano i suoi slanci. Si avvicinò al groviglio di lenzuola e coperte
gettate di lato, le scoprì imbrattate e guardò malevola la madre.
Albina si era insudiciata un’altra volta.
Non l’avrebbe pulita. Basta con i pannoloni, le
piaghe slabbrate e purulente sulla pelle della schiena.
Non sopportava di averla davanti.
E se abbassava gli occhi su di lei, un urto le
comprimeva lo stomaco.
Riconosceva se stessa!
Il mento: un cuneo sporgente e storto.
Le guance: smodatamente espanse e flaccide.
Carni e ossa inutili.
Quante volte da bambina aveva immaginato di
cadere e di romperselo, l’odioso mento aguzzo. Lo vedeva scoppiare in minute
schegge rossastre e si sentiva libera, per quanto mutilata sotto la bocca
dischiusa finalmente al sorriso. Quante volte, durante le veglie di
un’adolescenza affogata nelle lacrime, aveva fantasticato di rubare il rasoio
del padre e di tagliare con un colpo netto i bubboni grotteschi delle guance.
La gravità del gesto li avrebbe costretti, i genitori, a farle ritoccare il
viso da un chirurgo plastico. Invece non aveva mai avuto il coraggio di
concretizzare il proposito. Non per sé, ma per lei: la madre portatrice
dell’archetipo trasmessole con i simboli di una condanna ereditaria.
Quel giorno non riusciva a resistere.
La puzza delle feci, i rantoli, le mani in moto
furibondo, la faccia repellente (il suo disgustoso specchio di carne!) la
sconvolsero. Il desiderio di ucciderla la invase, dilatandosi cellula dopo
cellula. La stava appestando una schiuma corrosiva, letale per la volontà.
Si smarrì.
Si smarrì e protese le mani: avrebbe ghermito il
collo della donna chiusa in un’irrimediabile demenza. La detestava con forza
inaudita. Lei, Albina (un maledetto specchio di carne purtroppo vitale!), le
smaccava in faccia matrimonio e maternità. Malgrado la fisionomia costruita
pressoché a scherno, aveva comunque amato e concepito e partorito una sua
copia innocente. Non le perdonava i trascorsi normali, non tollerava che
vivesse il
presente da orribile parassita, accovacciata nel suo pensiero.
Se l’avesse uccisa, avrebbe avuto l’unica
occasione possibile.
Una volta frantumati gli specchi di casa.
Senza riflessi si sarebbe accettata.
Perciò l’avrebbe fatto.
Sì, l’avrebbe uccisa.
Adela mosse le mani verso il collo della madre,
sedotta dal pensiero della stretta imminente. Doveva guarire da quell’esistenza
meschina con un atto drastico. Poi avrebbe contemplato il
manichino-floscio-Albina.
Appagata.
Come un pittore, un quadro appena ultimato.
Continuò ad allungare le mani verso la madre.
Sentiva l’aria rapprendersi attorno alle dita. Le inserì nella matassa di
capelli grigi che si disfaceva sul cuscino, serrando la morsa.
Piano.
Un canto la penetrava in ictus parossistici, che
si espandevano ravvivando il colore stantio delle pareti. Entro breve, fuori da
quella stanza, avrebbe goduto appieno, rigenerata dall’elisir della sua storia
segreta.
Petali di gelsomino, corolle di magnolia
sul volto fragrante di trasfigurazione.
Zaffiri e ambra attorno al collo,
un giglio tra i capelli. La luna.
Splendore nel cielo blu pavone.
Al felice ritmo incalzante la metamorfosi si
sarebbe compiuta.
L’io parallelo stava per incarnarsi in lei.
I profili coincidevano.
L’Adela-obbrobrio da fiera cedeva al clone
perfetto.
Di colpo, con un vibrìo di mantide che distende
le elitre per conquistare l’aria, gorgogliando mugugni metallici, Albina si
girò verso la figlia e annaspò dal suo torpore. Quasi all’automa fosse stata
data una carica diversa, forse per un riassetto del meccanismo o per un motivo
enigmatico di scambi avulso alla comprensione umana. Le sorrise con le labbra
tese sulle gengive ceree, intercettò le mani vicinissime al suo collo, le
baciò, mosse il mento spingendo oltre la grata della clausura fisica parole
estratte da residui di memoria:
«Adela, angelo mio, ho sete. Dammi da bere!».
Adela trasalì, ritrasse le braccia e le lasciò
ricadere. La voce della madre le assediò il cervello, vi si insinuò con il
lezzo di cui era zuppo l’ambiente. Angelo…, angelo…, angelo…, echeggiava la
voce familiare, a cerchi concentrici, come quelli originati da un sasso
scagliato in uno stagno. Cerchi famelici, cannibali di altri cerchi. Morgane
svanenti al bordo della sua ebbrezza allucinata. Angelo…, ansimava la voce
stringendola in solidissime catene. Chiuse gli occhi e si consegnò alla massa
di odori e suoni, mentre il coagulo assassino che le aveva intorbidato il cuore
si volatilizzava in una caligine scialba.
E gravitò nella sua coscienza.
Sopraffatta da un rimorso di calce viva.
Quando le cose risorsero dalla loro morte
effimera e furono sagome ordinarie, arredi del carcere domestico, Adela versò
dell’acqua nel bicchiere sul comodino, sollevò la testa di Albina e la aiutò a
bere.
Senza guardarla.
O meglio: senza vederla.
Rimuovendo il germe del clone perfetto ci
sarebbe riuscita.
A non vederla.
Niente copioni, apparati scenici, imbrogli delle
belle statuine, labirinti onirici, simulazioni, voli.
Niente di niente.
Si sarebbe disintossicata da quelle suggestioni. Estraendo l’antidoto dal loro stesso veleno e assumendolo respiro a respiro,
pelle a pelle.
Tutto ritornava a posto. Le radici del mondo si
assestavano nei loro alvei, e lei, zittito il demone interiore, ripercorreva
con le pupille bianche di rassegnazione il limitato perimetro del giorno dopo
giorno.
Battuta per sempre. E reclusa senza appello.
Tra i mefitici miasmi della tana di Albina.