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mercoledì 15 marzo 2023

Poesia / Diario: La bellezza collaterale (Ci sono giorni - Tenus ad sidera).


Irene Navarra,  Spiragli, Fotografia.


Lassù

(nel cielo, intendo, 
profondo azzurro e nubi rosse stamattina)

non è per nulla facile arrivarci.

Ci sono giorni in cui hai ali
adatte a voli transmarini
ma sopra e attorno
esiste solo un telo ibrido di muffe
senza lacerazioni o fibre lise
da cui guardare.

Ci sono giorni in cui hai corpo affusolato
e remiganti per tentare le correnti
e dispiegarti nella vastità
che senti tua
ma non la puoi vedere
con le pupille color bianco di neve
e ti disperi
e piangi.
Inutilmente.

Ci sono, invece, giorni di meditazione
in cui non hai né vista né piumaggio
però tu voli e canti e ridi
e ti accompagni agli astri 
più rutilante di una stella
senza spostarti dal tuo sasso di fiume
nella campagna intrisa di silenzio umano.

Sì, questi sono giorni benedetti.
Giorni di Dio.
E un po' del dio nascente in te.

Irene e U-may 


sabato 11 marzo 2023

Poesia / Frammento 43: In Luce Blu (Meditazione cromatica).



Irene Navarra, In Luce Blu, Fotografia, 10 Marzo 2023.


A ondate lente
la Luce della Sera 
sta conquistando il cielo.
Il Blu con la sua quiete è farmaco solenne.
Socchiudo gli occhi 
e aspetto nel silenzio che m'invada.
Mentre le nubi vanno 
in questo pomeriggio tardo
di quasi Primavera.  

sabato 11 giugno 2022

Poesia / sensi residui (poesie da poco): la dendroumana.



Irene Navarra, In giardino: Finestra, Fotografia e Grafica, 10 Giugno 2022.

 

l'altro da me
andrebbe bene

senza recriminare
farei l’esame di coscienza
e mi disporrei
solo se l'altro s'attagliasse ad arte
come nei sogni colorati e più gentili
radici flessuosissime
fusto a fibre lunghe
rami tortuosi
con foglie quasi trasparenti
che si spalancano in finestra
spazzando nubi e cielo
frutti diversi
maturescenti in flusso stabile
continuo

una raggiante dendroumana piena di vigore
occhi di brina
frusci di chioma verde viola
e come pelle scorza di cipresso
mani scrollanti giada chiara
su piedi un po’nodosi
abbarbicati nella terra

madre di linfa
ah

lunedì 5 aprile 2021

Prosa / Adela e lo specchio (da "Davvero così").


Irene Navarra, La finzione e il suo riflesso, Disegno grafico, 2017.

    Nella camera da letto, davanti allo specchio appeso al muro sopra il tavolino da toeletta, Adela si accinse ad allestire la sua recita. Le azioni, programmate con scrupolo, le serbava scritte in testa, sulle pagine di una sorta di sceneggiatura virtuale che sfogliava al risveglio. Dalle 6 alle 7 di ogni sacrosanta mattina, in tête à tête con se stessa, le interpretava da abile attrice, replicandole esatta. Quasi ne dipendesse il filo di equilibrio logoro su cui si reggeva la sua vita.
    Si sedette dunque, guardando alternativamente il viso che lo specchio le rimandava, e le mani che giacevano inerti sul ripiano della toeletta tra gli scarsi oggetti usati per la cura personale. Sul volto sostava pochissimo. Non altrettanto sulle mani. Le mani avevano per lei un fascino tale da costringerla a venerarle. Erano – si raccontava – delle sacerdotesse: le vestali addette alla particolare liturgia che la riconciliava al quotidiano.
   Così, dopo un’impercettibile esitazione, il cerimoniale ebbe inizio. Adela appoggiò gli indici sullo specchio e incominciò a farli scorrere in movimenti simultanei e paralleli lungo la sua effigie riflessa. Con tenerezza sfiorò la fronte alta e liscia, scivolò sulle sopracciglia, sulle palpebre, sulla linea degli occhi, scese, ma a scatti in avanti e ritrazioni, sulle guance. Guance sovrabbondanti. Due tasche mostruose di criceto. Le solcò in uno scarto verso la curva del naso, rallentò, si avvicinò alle labbra, conquistò veloce il mento aguzzo e si arrestò.
    Poi tornò indietro: mento, labbra, naso, guance.
    Poi di nuovo avanti: guance, naso, labbra, mento.
    Obbligata a prendere coscienza delle sue fattezze in quell’esplicita proiezione di sé, cercava di scomporle con malie da illusionista. Le zone incriminate, però, sembravano gonfiarsi, crescere, minacciare l’integrità dei dettagli gradevoli. Su di esse Adela agì, imponendo alle dita un drammatico carosello. Prese a strofinarne i contorni, grattò, tentò di scavare la fredda materia, di eliminare le raccapriccianti escrescenze del suo doppio indecoroso, finché, mentre la mano sinistra le ricadeva in grembo e si risollevava subito in supporto al mento, la destra si aprì a mostrare la linea affusolata, il palmo si allentò e le dita si allargarono a ventaglio per coprire la metà inferiore del volto.
    Allora, lo specchio le restituì una visione davvero incantatrice.
    Il volto, seminascosto ad arte, divenne attraente: gli occhi scintillavano; il naso, diritto e dalle narici lievemente marcate, si armonizzava con gli zigomi enfatizzati dal velo di vene azzurrognole della mano.
    Dietro il riparo mento e guance scomparivano mentre, al ritmo ora estenuato ora frenetico del cuore, i sensi sovvertiti liberavano la chimera rintanata in lei fingendo un tempo, un luogo, una storia:

Notte ed effluvi di gelsomini.
Notte di luna assenzio.
Intatta luna sbocciata con le stelle
nel cuore vasto di un cielo blu pavone.
Seta sottile sul corpo di sirena
splendente nel fascio perla
pura della luna amica.
Luce preziosa e chiara.
Soave l’attesa dell’amante.

      Nella fantasia bugiarda Adela si affrancava dall’aspetto reale e pulsava di una vita altra.  L’apparente diversità le dava ali sublimi con cui sfidare ogni evidenza razionale. Un dio caritatevole avrebbe dovuto renderla di marmo in quella posa: seduta davanti allo specchio, leggermente piegata in avanti, i gomiti puntati sulla toeletta, le braccia verso l’alto, la mano sinistra chiusa a pugno in appoggio al mento, la destra sulla metà aborrita. Al culmine della messinscena, nella penombra della stanza, con il lume che la rischiarava dal busto in su, un riverbero fulvo tra i capelli, lei si nutriva di chiaroscuri, diluendo l’odiata consistenza. Stregata dall’inganno, indugiava nella fiaba surreale persino quando incominciava a far scendere la mano destra, e a scostarla. Un millimetro alla volta. Persuasa del durare di quel portento. Un millimetro alla volta il viso sarebbe apparso rimodellato con guance dalle curve dolci e il mento tondo, segnato da una fossetta. Ricollocati i difetti nel limbo prenatale delle cose superflue, Adela rinasceva e splendeva di bellezza.

    L’abbaglio – dilatato dall’intensità dell’attesa – l’accecava donandole un ineguagliabile ottimismo. Che le faceva scorrere nella mente una pellicola impressa non da sortilegi esotici, ma da storie comuni: un uomo al suo fianco, una casa, dei figli.
    La realtà tuttavia, malignamente in agguato dietro il pietoso schermo, la risucchiava nella sua propria sostanza. Ancora una volta Adela aveva goduto di un artificio raro, necessario come l’acqua nel deserto, ma infido come la sponda di un fiume gelido le cui acque possono ucciderti, se corri l’avventura di scivolarci.
    Da quell’illusione torpida la riscuotevano i lamenti della madre. Nella stanza accanto, incalzante e ossessiva, con versi dissennati lei reclamava attenzione. I gemiti le perforavano il cervello, la permeavano di un fluido attaccaticcio che le usurpava le guance e il mento, rideformandole.
    Era l’Adela di sempre quella che si staccava dalla fragile visione, era l’Adela dalle guance‑tasche mostruose di criceto quella che raggiungeva il letto della madre. La schiena ingobbita, l’espressione vacua, tornava a quel corpo consumato dagli anni e dalla malattia.

    Adela reagì al richiamo ed entrò nel luogo in cui si esaurivano i suoi slanci. Si avvicinò al groviglio di lenzuola e coperte gettate di lato, le scoprì imbrattate e guardò malevola la madre.
    Albina si era insudiciata un’altra volta.
    Non l’avrebbe pulita. Basta con i pannoloni, le piaghe slabbrate e purulente sulla pelle della schiena.
    Non sopportava di averla davanti.
    E se abbassava gli occhi su di lei, un urto le comprimeva lo stomaco.
    Riconosceva se stessa!
    Il mento: un cuneo sporgente e storto.
    Le guance: smodatamente espanse e flaccide.
    Carni e ossa inutili.
    Quante volte da bambina aveva immaginato di cadere e di romperselo, l’odioso mento aguzzo. Lo vedeva scoppiare in minute schegge rossastre e si sentiva libera, per quanto mutilata sotto la bocca dischiusa finalmente al sorriso. Quante volte, durante le veglie di un’adolescenza affogata nelle lacrime, aveva fantasticato di rubare il rasoio del padre e di tagliare con un colpo netto i bubboni grotteschi delle guance. La gravità del gesto li avrebbe costretti, i genitori, a farle ritoccare il viso da un chirurgo plastico. Invece non aveva mai avuto il coraggio di concretizzare il proposito. Non per sé, ma per lei: la madre portatrice dell’archetipo trasmessole con i simboli di una condanna ereditaria.
 
    Quel giorno non riusciva a resistere.
    La puzza delle feci, i rantoli, le mani in moto furibondo, la faccia repellente (il suo disgustoso specchio di carne!) la sconvolsero. Il desiderio di ucciderla la invase, dilatandosi cellula dopo cellula. La stava appestando una schiuma corrosiva, letale per la volontà.
    Si smarrì.
    Si smarrì e protese le mani: avrebbe ghermito il collo della donna chiusa in un’irrimediabile demenza. La detestava con forza inaudita. Lei, Albina (un maledetto specchio di carne purtroppo vitale!), le smaccava in faccia matrimonio e maternità. Malgrado la fisionomia costruita pressoché a scherno, aveva comunque amato e concepito e partorito una sua copia innocente. Non le perdonava i trascorsi normali, non tollerava che vivesse il presente da orribile parassita, accovacciata nel suo pensiero.
    Se l’avesse uccisa, avrebbe avuto l’unica occasione possibile.
    Una volta frantumati gli specchi di casa.
    Senza riflessi si sarebbe accettata.
    Perciò l’avrebbe fatto.
    Sì, l’avrebbe uccisa.
 
    Adela mosse le mani verso il collo della madre, sedotta dal pensiero della stretta imminente. Doveva guarire da quell’esistenza meschina con un atto drastico. Poi avrebbe contemplato il manichino-floscio-Albina.
    Appagata.
    Come un pittore, un quadro appena ultimato.
    Continuò ad allungare le mani verso la madre. Sentiva l’aria rapprendersi attorno alle dita. Le inserì nella matassa di capelli grigi che si disfaceva sul cuscino, serrando la morsa.
    Piano.
    Un canto la penetrava in ictus parossistici, che si espandevano ravvivando il colore stantio delle pareti. Entro breve, fuori da quella stanza, avrebbe goduto appieno, rigenerata dall’elisir della sua storia segreta.
 
Petali di gelsomino, corolle di magnolia
sul volto fragrante di trasfigurazione.
Zaffiri e ambra attorno al collo,
un giglio tra i capelli. La luna.
Splendore nel cielo blu pavone.
 
    Al felice ritmo incalzante la metamorfosi si sarebbe compiuta.
    L’io parallelo stava per incarnarsi in lei.
    I profili coincidevano.
    L’Adela-obbrobrio da fiera cedeva al clone perfetto.
 
    Di colpo, con un vibrìo di mantide che distende le elitre per conquistare l’aria, gorgogliando mugugni metallici, Albina si girò verso la figlia e annaspò dal suo torpore. Quasi all’automa fosse stata data una carica diversa, forse per un riassetto del meccanismo o per un motivo enigmatico di scambi avulso alla comprensione umana. Le sorrise con le labbra tese sulle gengive ceree, intercettò le mani vicinissime al suo collo, le baciò, mosse il mento spingendo oltre la grata della clausura fisica parole estratte da residui di memoria:
«Adela, angelo mio, ho sete. Dammi da bere!».
 
    Adela trasalì, ritrasse le braccia e le lasciò ricadere. La voce della madre le assediò il cervello, vi si insinuò con il lezzo di cui era zuppo l’ambiente. Angelo…, angelo…, angelo…, echeggiava la voce familiare, a cerchi concentrici, come quelli originati da un sasso scagliato in uno stagno. Cerchi famelici, cannibali di altri cerchi. Morgane svanenti al bordo della sua ebbrezza allucinata. Angelo…, ansimava la voce stringendola in solidissime catene. Chiuse gli occhi e si consegnò alla massa di odori e suoni, mentre il coagulo assassino che le aveva intorbidato il cuore si volatilizzava in una caligine scialba.
    E gravitò nella sua coscienza.
    Sopraffatta da un rimorso di calce viva.
 
    Quando le cose risorsero dalla loro morte effimera e furono sagome ordinarie, arredi del carcere domestico, Adela versò dell’acqua nel bicchiere sul comodino, sollevò la testa di Albina e la aiutò a bere.
    Senza guardarla.
    O meglio: senza vederla.
    Rimuovendo il germe del clone perfetto ci sarebbe riuscita.
    A non vederla.
    Niente copioni, apparati scenici, imbrogli delle belle statuine, labirinti onirici, simulazioni, voli.
    Niente di niente.
    Si sarebbe disintossicata da quelle suggestioni. Estraendo l’antidoto dal loro stesso veleno e assumendolo respiro a respiro, pelle a pelle.
 
    Tutto ritornava a posto. Le radici del mondo si assestavano nei loro alvei, e lei, zittito il demone interiore, ripercorreva con le pupille bianche di rassegnazione il limitato perimetro del giorno dopo giorno.
    Battuta per sempre. E reclusa senza appello.
    Tra i mefitici miasmi della tana di Albina.  

martedì 23 marzo 2021

Poesia / Percezioni: Rappresentazione sul Fiume (con Dante Alighieri, William Shakespeare e John Everett Millais).

 
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,

l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volentier torna a ciò che la trastulla.

Dante Alighieri, La Divina CommediaPurgatorio, XVI, vv. 85 - 90.

Quando parlo dell' Isonzo, di quel Fiume possente che cinge come una cintura di lapislazzulo la mia città, parlo anche dell'Anima che è stata insufflata in me al momento della nascita. Il Fiume è la mia Anima. È stato così sin dall'infanzia e lo è tuttora. La lirica in calce lo spiega raccontando il mio legame con l'Isonzo. Anima-Fiume, quindi. Ma Anima fanciulla. come mi ha insegnato il caro Padre Dante, le cui parole mi risuonano dentro assieme alla voce di mio Padre mentre le leggeva, spiegava e commentava.
Se contemplo il mio Fiume, Dante è con me. Mio Padre è con me.
Loro mi hanno insegnato a percorrere sentieri esistenziali di Dignità e Fede, ad accettare i casi avversi senza mai piegare la testa sotto il peso delle ingiustizie. curando con attenzione quanto di sottile e ingenerato abbiamo in noi: la vera essenza che ci rende unici.
Lei, l'anima semplicetta della mia fanciullezza, si esaltava in meraviglia giocosa davanti allo spettacolo del Fiume. Lo vedeva come un manto di damasco cangiante e mi portava in avventure di cui Lui era non un elemento naturale ma il liquido palcoscenico in cui sperimentare tuffi, nuotate, acrobatiche giravolte... il tutto condiviso con personaggi spesso letterari.
L'Anima che piangendo e ridendo pargoleggia ritorna sempre davanti allo spettacolo dell'Isonzo, rinnovando le sensazioni di allora. Il Fiume era, dunque, teatro di azioni teatrali che interpretavo sempre da protagonista. Mi immaginavo incedere su quel nastro azzurro  e verde e malva come una Regina, o un'aristocratica Sposa dallo strascico lunghissimo, lo sguardo teso verso luoghi lontani e accompagnata da uno stuolo di esseri naturali: il salice, la serpe, la felce, la civetta… Tra di essi potevo diventare anche un'Ofelia felice, immersa vitalmente in acque come giada latte verde e ben diversa dall'eroina tragica dell'Amleto di Shakespeare. Opera che, a quei tempi, divoravo con fame insaziabile di visioni da alterare a mio piacimento. Il ricordo dell'Ophelia di John Everett Millais è - me ne rendo conto ora rileggendo la lirica - alla base di queste fantasie che riappaiono prepotenti mentre riscopro questa piccola biografia in versi, la mia Rappresentazione sul Fiume.

Irene Navarra, Isonzo / Il mio Fiume, La mia Anima, Fotografia, 21 marzo 2016.

Il salice in dialogo col fiume
porta l’impronta del mio corpo.
Tra i rami gli occhi sono perle
attratte dalle nubi che si formano,
riformano, trapassano.
Parole mai uguali.
Oziose per le nocche pallide
strette sui nodi biforcuti.

(Pendere poi dai tralci dondolanti
fino a sfiorare il flusso con i piedi,
entrarci d’improvviso.)

Un manto lunghissimo rampolla
dal palcoscenico di Amleto: damasco
che si srotola e si srotola.
A drappeggiare Ofelia
e il suo destino.

(A costellare il costumino rosso
di gocce scritte con un lapis di cristallo.)

La giada come latte verde
si fa caleidoscopio ribollente
e fremo nella trina indocile
quasi regina
o sposa
verso il traguardo dell’altare.

(Laggiù, oltre le forme azzurre
di insenature maestose,
nel baratro di spume
astratte più del salto.)

La brezza fresche dita scherza,
s’inventa capriole, carambole di guizzi,
schizza iridata l’acqua sulla serpe
che mi traghetta fuori dalla piena
mentre la felce china a bere
scrive un messaggio indecifrabile.
La mota impasta ali di civetta.
Sale nel golfo della schiena
tra le radici ancora acerbe
per il Volo.

(Dai teneri calcagni nasce piano
il fiore pungente dell’ortica.)

 

Qui di seguito i Miti che hanno popolato di sogni a occhi aperti la mia giovinezza: l'Amleto di William Shakespeare (Atto IV, Scena VII. Traduzione di Alessandro Serpieri).

         C’è un salice che cresce storto sul ruscello
e specchia le sue foglie canute nella corrente di vetro;
Lì ella fece fantastiche ghirlande, di ranuncoli,
ortiche , margherite, e di quei lunghi fiori purpurei
a cui gli osceni pastori danno un nome più volgare,
ma le nostre caste fanciulle chiamano dita di morto.
Lì, sui rami spioventi arrampicandosi ad appendere
le sue coroncine, un maligno ramoscello si spezzò,
e giù caddero i suoi fioriti trofei e lei stessa
nel piangente ruscello. Le sue vesti si allargarono
e come una sirena per un poco la tennero su,
e in quel mentre cantava passi di vecchie canzoni
come una inconsapevole della sua ora disperata,
o come una creatura nata e cresciuta
in quell’elemento. Ma non poteva durare a lungo,
e infine i suoi vestiti, pesanti di quanto avevano bevuto
trassero la povera infelice dal suo melodioso canto
alla fangosa morte. 

E il magnifico dipinto di John Everett Millais (1829 - 1896) dal titolo Ophelia (circa 1851); Collezione: Tate Britain; Photo: Tate London 2011.

John Everett Millais - Ophelia - Google Art Project
John Everett Millais, Ophelia, Public domain, via Wikimedia Commons.
 

lunedì 1 marzo 2021

Poesia / Frammento 28: L'ombra di un cane (con Haiku).

Qui si racconta di un'esperienza specialissima vissuta con il mio Magnifico Setter Pippo in una Sera limpida di Febbraio.

Un canto sale lento nell’indaco che si incupisce.
Pippo respira piano.
Ascolta il suono della Sera.
Io vedo solo un’ombra trasparente davanti a me.
Ci stemperiamo in melodia
innamorati del nostro stesso farci lievi.

Irene Navarra, Sovrimpressioni, Fotografia e Grafica, 16 Febbraio 2021.

Fiuta il mio cane
la Sera di Febbraio
E l’assapora piano.

D'ombra soave
il morbido mantello〰
Si scioglie un canto.

mercoledì 16 settembre 2020

Poesia / L'opera incompiuta: Nel verde.


Siamo al Terzo Tempo de L'opera incompiuta. Nel verde. Qui tento la trasformazione panica. Divento foglia. Ma non una foglia qualsiasi. Sono la foglia, ovvero un essere immaginario diverso dal me precedente. Mi faccio Altro. Tuttavia solo nella mente. La chiave del cambiamento è data da un assioma ora come ora inconfutabile:

IMMAGINO QUINDI SONO.

Così sia.

Irene Navarra, Metamorfizzando, Fotografia e Grafica, 2020.


Nel verde
(solo qualche inusitata volta)
riconosco l’assetto delle cose.

Anche di me
che sono un ibrido
di indipendenze brusche
dal conformismo unanime
e ammiccamenti occasionali.
Inconsapevoli dapprima.
Poi rei di adattamenti eccentrici.
Anomali in materia e forma. Impersonali.

(Ora m’inerpico sui bordi di una foglia. 
Con polpastrelli di smeraldo attingo
l’umore naturale come fosse vino.
Drenando sangue e linfa
so la bellezza duratura
delle vene della Terra.)

 

lunedì 14 settembre 2020

Poesia / L'opera incompiuta: E adesso che si forma/sforma.


Secondo Tempo.

E adesso che si forma/sforma
sopra il palmo una materia rara,
un fibrillante tossico d’arsenico,
come frenare la trasformazione
sapendo il mio destino da esiliata
senza riferimenti e tradizioni?

(Lasciarsi andare nel mutato aspetto.
Sperando un decantarsi favoloso
da miracolo immediato.)


Irene Navarra, Screenshot da Dentro / L'anima avvolta - video, 17 novembre 2016.


La lirica E adesso che si forma/sforma costituisce il secondo momento della raccolta L'opera incompiuta. Strettamente collegata a Il nocciolo della questione, ne è lo svolgimento naturale. E lo dichiaro, affermando decisa: Sono qui, non lo voglio ma sono qui, diversa perché privata di gran parte della mia energia vitale, sono qui orfana, ferita, sminuita. Sono qui in trasformazione da perdita. Sono qui perdio! E se anche tento di adeguarmi alla nuova condizione, se anche mi plasmo e riplasmo, rimango incompiuta per necessità ineluttabile. Quindi imperfetta.
La sostanza che si enuclea da questo sciupio di vigore è un fibrillante tossico d'arsenico.
Veleno puro che mi tiene con la sua minaccia al di qua di ogni salvezza?
Sì, forse. Ma non mi resta altro che nutrirmi di questo impensabile cibo mentre il presente va in scena con il suo estremo paradosso: gli esseri incompiuti hanno futuro, i compiuti, no.
Scelgo, dunque, la dimensione del sogno in cui tutto può avvenire ed essere limpidamente  come "infinita ombra del Vero" (cit. da Giovanni Pascoli, Poemi convivialiAlexandros, v. 20).
Seguendo la legge dei visionari, posso esistere.