Che camuffarsi
tra le foglie di un gelso
sia un rimedio?
Un modo per sentire
il proprio fiato verde?
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volentier torna a ciò che la trastulla.
Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, XVI, vv. 85 - 90.
Irene Navarra, Isonzo / Il mio Fiume, La mia Anima, Fotografia, 21 marzo 2016. |
Il salice in dialogo col fiume
porta l’impronta del mio corpo.
Tra i rami gli occhi sono perle
attratte dalle nubi che si formano,
riformano, trapassano.
Parole mai uguali.
Oziose per le nocche pallide
strette sui nodi biforcuti.
(Pendere poi dai tralci dondolantifino a sfiorare il flusso con i piedi,entrarci d’improvviso.)
Un manto lunghissimo rampolladal palcoscenico di Amleto: damascoche si srotola e si srotola.A drappeggiare Ofeliae il suo destino.
(A costellare il costumino rosso
La giada come latte verde
di gocce scritte con un lapis di cristallo.)
si fa caleidoscopio ribollente
e fremo nella trina indocile
quasi regina
o sposa
verso il traguardo dell’altare.
(Laggiù, oltre le forme azzurredi insenature maestose,nel baratro di spumeastratte più del salto.)
La brezza fresche dita scherza,
s’inventa capriole, carambole di guizzi,
schizza iridata l’acqua sulla serpe
che mi traghetta fuori dalla piena
mentre la felce china a bere
scrive un messaggio indecifrabile.
La mota impasta ali di civetta.
Sale nel golfo della schiena
tra le radici ancora acerbe
per il Volo.
(Dai teneri calcagni nasce pianoil fiore pungente dell’ortica.)
Qui di seguito i Miti che hanno popolato di sogni a occhi aperti la mia giovinezza: l'Amleto di William Shakespeare (Atto IV, Scena VII. Traduzione di Alessandro Serpieri).
C’è un salice che cresce storto sul ruscelloe specchia le sue foglie canute nella corrente di vetro;
Lì ella fece fantastiche ghirlande, di ranuncoli,
ortiche , margherite, e di quei lunghi fiori purpurei
a cui gli osceni pastori danno un nome più volgare,
ma le nostre caste fanciulle chiamano dita di morto.
Lì, sui rami spioventi arrampicandosi ad appendere
le sue coroncine, un maligno ramoscello si spezzò,
e giù caddero i suoi fioriti trofei e lei stessa
nel piangente ruscello. Le sue vesti si allargarono
e come una sirena per un poco la tennero su,
e in quel mentre cantava passi di vecchie canzoni
come una inconsapevole della sua ora disperata,
o come una creatura nata e cresciuta
in quell’elemento. Ma non poteva durare a lungo,
e infine i suoi vestiti, pesanti di quanto avevano bevuto
trassero la povera infelice dal suo melodioso canto
alla fangosa morte.
E il magnifico dipinto di John Everett Millais (1829 - 1896) dal titolo Ophelia (circa 1851); Collezione: Tate Britain; Photo: Tate London 2011.