Sono Pablo, il golden retriever di Irene. Sto riflettendo sullo stato dei miei simili meno fortunati di me. In generale oggi vi dico che nessuno ci guarda per davvero. L’ho imparato nelle precedenti famiglie in cui sono sopravvissuto per miracolo e dai veterinari che mi hanno visitato senza arrivare all’osso dei miei problemi.
Mi chiedo: che cosa dobbiamo inventarci per essere considerati creature che provano emozioni a tutti gli effetti? Tentiamo con la cultura. Quella da intellettuali noiosi.
Qualche giorno fa, durante la solita passeggiata pomeridiana in campagna, Irene mi ha parlato di George Orwell e del suo libro “La fattoria degli animali” in cui gli animali riescono ad averla vinta sugli uomini. Scritto nel 1945 ma ancora utile – dice lei –. Dal punto di vista degli animali spero – penso io –. Premettendo quanto mi ha spiegato, cioè che il racconto è una critica in forma metaforica contro il totalitarismo (?), il culto della personalità, il travisamento della realtà da parte del potere, e fermo restando che il mio cervello di cane ha capito solo in parte le sue parole, mi è piaciuta molto una massima recitata dai protagonisti (maiali, pecore, cani…): “quattro gambe buono, due gambe cattivo!”. Tra i buoni ci sono comunque anche gli alati, malgrado le due zampe.
Questo post si ispira, dunque, allo scabroso tema del rapporto tra i due gambe responsabili del nostro benessere e noi medesimi.
I bipedi credono di capirci toccandoci.
Così ci girano, rigirano, sondano, palpano ma sempre senza guardarci negli occhi. Decidono con un paio di strisciate di polpastrelli sul nostro corpo, se stiamo bene o male. In seconda battuta d’indagine (eh, sì! siamo COSE da analizzare con distacco) ci offrono un biscotto. Se non lo accettiamo significa che qualcosa non va, se invece lo accettiamo, è tutto ok. E noi, per lo più, lo accettiamo. Non perché siamo stupidi, bensì perché spesso abbiamo fame e poi perché ci sembra che crei un contatto che speriamo continui.
Usciti di casa loro, però, gli investigatori oggettivi del nostro stato – volontari, cinovigili, veterinari e chi più ne ha più ne metta –, oplà! eccoci di nuovo fuori. Via da sotto il sedere la cuccia calda in cucina che ci pareva un sogno, niente più coccole, bocconcini, sguardi similaffettuosi.
Niente di niente.
Ritorna il solito vuoto.
E una scatola di cartone fradicio per contenitore che ci isoli dal gelo del cemento su cui ci costringono. Questo d’inverno. Immaginatevi il contrario d’estate. FUORI! ci urlano, mentre i nostri occhi prima brillanti di speranza si coprono di nuovo di una patina inespressiva e, strascicando le nostre quattro gambe, recuperiamo la consueta, amara solitudine.
Ritorna, quindi, il tran tran uggioso col suo carico di freddo intenso, umidità marcia o caldo torrido che sia.
Viviamo in un imbuto di trascuratezza.
Allora, voi capocce di granito e cuori di ferro ruggine che non siete altro, voi bipedi che non ci meritate, lasciate la vostra supponenza per un momento e guardateci negli occhi.
Vi sveleremo misteri ineguagliabili.
Noi cani, l’enigma del creato lo conosciamo d’istinto.