Una visione.
O un sogno lucido.
Oppure una realtà talmente affascinante da trasformarsi in visione.
Premonizione di eventi futuri tramite storie oniriche articolate.
Ancore di salvezza nelle parole di poesia che mi si avvicinarono in dono, quando, ormai adulta, ricercavo in me chiavi perdute, che aprissero porte di coscienza.
Parlo della silloge di Margini (B & V Editori) dal titolo Il giardino di pietra.
L'ambientazione è al Sud.
Nella campagna campana, in un paese di poche case.
Ai piedi di un monte che chiamai Calvo per la conformazione arida del terreno e la sua cima estesa e todeggiante.
Assolato e deserto.
Sull'erta scoscesa: fichi d'India, qualche ulivo, erbe secche e dure, cardi.
Un profumo intenso di timo sembrava serpeggiare tra i rami scarni dei pochi alberi.
Immaginai che al di là ci fosse il mare.
Il solo pensiero dell'azzurro luccicante che sarebbe apparso una volta arrivata lassù, mi convinse ad affrontare la salita.
Ricordo che lo scalai calzando sandali leggeri.
Non mi protessero dalle spine.
Così li impiastricciai di sangue.
Che fa, pensavo.
L'importante è salire per conquistare quanto sta al di là.
E di là c'era la distesa infinita dell'acqua più azzurra che avessi mai visto.
L'erta affocata dal meriggio,nei sandali erba dura e cardiverde-argento sulle cosce nude.Graffi luminescenti sottole palpebre socchiuse.Fichi d'India d'intorno:un fiume convergenteverso l'alto con spinetrasparenti e polpa rossa.
E poi la cima. Una spianatacalva e ruggine con la cinturavitrea dei fichi d'India. Comela corona per un Dio cheha scelto di morire.
Lontano la marina di cristalloimmobile.
Nella distanza il maregetta sempre il suo mantellodi squame intermittenti.
Sul Monte Calvo unSilenzio atroce.
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