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martedì 6 giugno 2023

Prosa / La morte della farfalla (da "Davvero così).

 

Irene Navarra, La morte della farfalla, AI e Grafica, 5 Giugno 2023.


    Tienimi la mano, papà.
    Te la sto tenendo.
    Non ti sento.
    Non voglio farti male.
    Stringi, papà. Stringimi come da piccola. Proteggimi. E fammi volare. Mi ricordo, sai, me lo ricordo: tu allacciavi le mani a seggiolino e io mi ci sedevo. Mi appoggiavo sul tuo petto, mi aggrappavo alle tue braccia forti e tu, la mia altalena viva, mi dondolavi canterellando filastrocche o fischiettando. Stringimi, papà. Non mi fai male. Stringimi forte. Tra poco me ne andrò. E non potrai più toccarmi.


    Martina si separava a strappi dal suo corpo così diverso e fermentante. Gli occhi appannati cercavano le persone. La madre, i parenti, il padre si muovevano sulle punte. Fantasmi in transito. Per non disturbarla mentre si liberava dal dolore.
    Ci siamo, pensavano tutti.
    È il momento, pensava Martina.
    Stava bene.
    Dopo un tempo interminabile costellato da aghi, congegni, flebo, nausee, vomito e trafitture atroci nei suoi poveri polmoni. Stava bene per la prima volta in quel mese di maggio sfibrato da un sole già estivo. Non sentiva più il caldo che l’aveva tormentata incollandole i pigiami zuppi di sudore alla pelle bruciante.
    I capelli le erano caduti da una settimana.
    Quei suoi bei capelli neri.
    Li aveva persi a ciocche, e con loro era svanito anche l’interesse per sé. Riusciva a mettersi la bandana senza guardarsi allo specchio e, se non c’erano specchi in giro, poteva fingersi com’era una volta. Forse si trovava in ospedale per caso. Viaggiatrice stralunata in un mondo bianco. Cavia volontaria entrata là nella danza dei suoi diciannove spumeggianti anni, desiderosi di vacanze e di Luca. Luca dagli occhi di mare.
    Inezie ormai.
    Che si sfaldavano stemperandosi in velature brumose.
    La nebbia invadeva la stanza. E nella nebbia fluttuava il volto del padre. Il fermo volto di suo padre.
    Lasciami ora, papà. Devo andare, disse d’un tratto Martina con una voce che non era più la sua.
    E furono le ultime parole.


    Lui scrutava pallido il trascorrere della fine sui lineamenti cianotici della figlia, indugiava sulle guance gonfie, sulle forme goffe sotto il lenzuolo, sulle mani con le unghie dalle lunette blu, sui piedi come ghiaccio rosato a chiazze viola. 
    Un mese fa splendeva di briosa energia, la sua moretta dal carattere scanzonato. E solo un mese fa non c’era un’ombra nella loro esistenza.
    Il successo della carriera politica lo inorgogliva (era il governatore della regione!), il potere lo eccitava e perciò ripeteva spesso che si era fatto da sé, assaporando e riassaporando soddisfatto il gusto di quel suo uscire dai timori, dubbi, fragilità di una sbiadita giovinezza.
    Aveva preso il volo e gli piaceva, con altezzoso umorismo, definirsi una farfalla.
    Una farfalla tenace e battagliera.
    Quella scaturita dal bozzolo più misero, la meno appariscente, ma la più vitale.
    Batto tutti sulla distanza! gridava e mimava con gesti esagerati la scena che aveva in testa preparandosi a sfornare un’altra metafora in aggiunta alla favoletta della farfalla. Tutti mi staccano alla partenza, mangio la loro polvere ma non cedo. Il calcagno dell’avversario è il mio obiettivo e io corro, corro finché non lo azzanno. E non lo mollo. Poi mi concentro sugli altri ancora davanti, fiuto il loro odore e il fiato si raddoppia. Li acchiappo, li acchiappo e me li pappo, gorgheggiava alla fine del suo sketch autocelebrativo.
    Martina si divertiva un sacco ad ascoltare quel ritornello sfrontato. Una burla, secondo lei. Lo baciava sulla fronte, gli tirava il naso scuotendogli con gentilezza la testa e gli spiegava che le farfalle si nutrono di nettare, che sono i lupi mannari a divorare gli uomini, che lui allora era una farfalla-lupo mannaro. Un mostro! Amabile però! Oh, molto amabile. Il suo carissimo mostro. E lo ribaciava, con una serie di schiocchi sonori. Per fargli dimenticare le battaglie giornaliere, le notti insonni, i parassiti che lo assillavano. Gli attenuava l’incomodo delle fughe ipocrite di fronte alle legittime rimostranze, la seccatura dei compromessi diplomatici. Quanti fardelli non confessati, quante ansie da cui lei sola sapeva sollevarlo!
    Lei sola stornava i crucci. I rituali cruenti della selva giornaliera lei li dissolveva con le sue buffe coccole.
    Lei sola.
    E adesso, chi l’avrebbe consolato? si chiedeva considerando l’eventualità della morte di Martina, mai vagliata in precedenza.
    Il problema di mia figlia si risolverà! esclamava sicuro fino a qualche giorno prima. E aggiungeva: Lei guarirà e tornerà a splendere. L’ho affidata ai migliori medici sul mercato. Il professor Bini la salverà, non può sbagliare. Non si scherza con me! Si impegnerà, me lo assicurano i miei colleghi e amici. Personaggi di rilievo. Hanno telefonato…, me l’ha detto il professore…, gli stanno alle costole..., è il giusto modo…, respirargli sul collo…, sfiancarlo…, rodergli la vita serena. Quando l’acchiappo, pure lui mi pappo, berciava oliato dal grasso del potere rivolgendosi alla sua claque fidata.
    E ora il grasso colava sul letto d’ospedale in cui Martina si disfaceva. Colava malgrado gli si riformasse dentro un accenno d’angoscia. Decise di interpellare il professor Bini e di lasciarlo parlare, non crogiolandosi soltanto nella propria sicumera, sforzandosi insomma di evitare l’imposizione senza alternative come unico modo per ottenere.
    Ottenere la guarigione di Martina.
    E il professore avvertì una prostrata intelligenza nell’insolito stile di porsi e ne fu sollevato perché lo incoraggiava a ragguagliarlo sulla situazione di Martina senza doversi nascondere dietro i virtuosismi astuti che la politica esigeva da lui (ché non tagliassero i finanziamenti al reparto!). Colse, insomma, nel padre un interesse alla comunicazione scambievole. Lo colse con un residuo di imbarazzo al pensiero del proprio dissimulare passato – un po’ per pietà, un po’ per codardia, un po’ per inettitudine di fronte alla logorrea convinta del politico –. Turbato, inoltre, dalla tracotanza ancora eccessiva, aveva abbassato gli occhi sui suoi mocassini Tod’s di camoscio beige, allargato le braccia in un gesto impotente e gli aveva detto che loro, i medici, non potevano contrastare il male di Martina.
    Queste parole gli aveva detto: Non possiamo fare nient’altro. Nel corso della malattia, molte volte ho cercato di avvisarla, con le dovute precauzioni, di un probabile, infausto decorso. Lei ne è al corrente, ma non l’ha mai accettata, quest’ipotesi. Mi dispiace, mi dispiace moltissimo. Martina se l’è mangiata un batterio vorace. L’abbiamo trattata con diversi antibiotici, ma è debole, è troppo debole…, la chemio l’ha distrutta, non reagisce…, il sangue non circola…, il tempo è poco. Le stia vicino.
    Il tempo è poco! aveva urlato il padre, le vene della gola tumide. Cosa vuol dire? Lei doveva guarirla. Guarirla!!! Me l’avevano assicurato. Lei sa di chi parlo, vero?
    Il professor Bini aveva indicato con la mano destra il cielo e si era ritirato di fretta nell’ambulatorio annesso allo studio, esterrefatto dal grasso che continuava a trasudare da quell’uomo refrattario a qualsiasi logica non sua.
    Rimase dunque, il padre, in una sensazione di nudità rovinosa. A combattere contro il disagio per la malcelata riprovazione e lo svilimento indotto dal non poter più dominare.
    Si protese nell’avvenire, riaffacciandosi all’orrido da cui si era reputato salvo. Per lui, in bilico sulla lama affilata della verità, restava solo il ritorno al bruco ignobile del passato?
    La fine di Martina o la fine di tutto?
    La fine di tutto.

    Conscio dell’imminente distacco ritornò alla cameretta dove si consumava la veglia inevitabile, tra un biascicare di preghiere che lo infastidirono. L’epilogo felice, lui, l’aveva dettato, apponendovi la sua prestigiosa etichetta. Qualcun Altro invece, ben più potente, Dio o forza naturale che fosse, l’aveva esautorato per impossessarsi del principio d’autorità che presumeva inalienabile. Né ricatti, né bustarelle, né minacce, nessun ti do per avere in cambio gli avrebbero restituito Martina. Posò gli occhi su sua moglie: esangue, come rimpicciolita, pareva lì lì per dissolversi nelle pareti slavate della stanza.
    Da quanto tempo non la guardava veramente? 
    Ora era bianca di capelli.
    Bianca e distante.
    Scosso da un tremito irrefrenabile, si volse alla finestra da cui si riversava la luce. Filtrando tra le tapparelle abbassate, accendeva di lame d’oro le cose della figlia: la letteratura italiana, l’antologia di autori latini, il libro di matematica impilati sul comodino; Sei tu di Federico Moccia sopra la trousse da trucco; le Crocs blu sotto il letto, la vestaglietta rosa shocking appesa dietro la porta con la bandana a fiorellini provenzali sbucante da una tasca.
    Toccò quegli oggetti, attardandosi su ognuno di essi, e tentò di focalizzarsi sul dilemma del suo futuro nel mondo fuori da lì.
    Il nulla, senza Martina.
    O meglio: una patetica subdimensione visitata da larve passeggere.
    Una stilettata gli trapassò il petto.
    Lui, farfalla spillata viva alla teca che gli avversari avrebbero esposto come un loro trofeo, veniva privato dell’ebbrezza del volo nel dispiegarsi pieno della grazia. Seta la materia di supporto della nuova condizione, costosa la cornice, ma paglia nel costato e spaghi in stimmate di mani e piedi.
    La mente nel bitume della sofferenza di Martina.
    Gli occhi tappati dalla cera della fine di Martina.
    La gola ostruita dall’osso dell’assenza di Martina.
    Dallo strappo con lei i giorni sarebbero divenuti pause vuote e intralcio.
    Si piegò sulla figlia, tese una mano a coglierne il rantolare faticoso, se la portò alle labbra e pianse.
    Di un breve pianto scabro, a singhiozzi aspri.
    Poi, acquietatosi, le si sdraiò al fianco palpitando con le braccia nell’aria piena di morte.
    Sempre più blando.
    Finché, posate le ali sul petto di Martina, agonizzò con lei verso il mistero.

Irene Navarra