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sabato 17 febbraio 2024

Prosa / Racconto breve: Riccardo e il papavero.

 
P_Irene Navarra, Riccardo e il papavero, AIArt e GraphicArt, 18 Maggio 2023.




    Riccardo fermò di colpo la macchina sul ciglio del viottolo quasi sommerso da campi con erba alta e minuscoli fiori bianchi e gialli. Appoggiò le braccia sul volante, la testa sulle braccia e pianse. Singhiozzando convulsamente.
    Poi si riprese.
    Raddrizzò il busto, abbandonò le mani in grembo e, piano piano, si ritrovò a respirare a fondo. Trattenendo l'aria a lungo. Il suo Maestro di meditazione gliel'aveva insegnata bene, quella forma di rilassamento.
    Riccardo inalava boccate d'aria con voracità. Come se fossero garanzia di salvezza.
    Inspirare ed espirare erano le uniche azioni che riuscisse a sostenere in quel momento.
    Lo fece finché sentì che il cuore si calmava e capì che doveva muoversi, dare ossigeno verde al corpo, camminare.
    Così scese dalla macchina e iniziò ad avanzare nel mare d'erbe di un campo in leggera discesa verso le sponde del fiume la cui voce s'insinuava nel frusciare del vento sulla rustica natura di quel luogo.
    Riccardo alzò gli occhi al cielo privo di nubi, li rivolse poi all'orizzonte di cespugli d'acacia e riuscì a non avere pensieri. Lina e la loro storia di anni non c'erano più. Il dolore provato all'annuncio che lei aveva un altro amore, che la sua vita era finalmente diventata elettrica (così aveva detto: elettrica), la ferita che gli si era aperta nel cuore alle sue parole, tutto, proprio tutto dileguava nel fascino 
semplice del paesaggio che lo accoglieva rassicurante.
    Lo conosceva bene quel posto.
    Ci veniva fin da cucciolo. Era l'angolo di mondo adatto a lui. Solitario di carattere, alquanto schivo, amava leggere al riparo dei salici che là, sulle rive impervie del fiume, crescevano rigogliosi. Ce n'era uno, in particolare, che lui chiamava Furio per i rami flessibili, sibilanti a ogni brezza come fruste, tra le cui forti braccia stava sempre da re. Ci passava le ore inseguendo sogni d'artista. Di pittura e poesia. Probabilmente in un'ansa del tronco tormentato c'era ancora la scatolina di latta con dentro il disegno su carta pergamena di una ragazza in bicicletta, capelli bruni al vento e vestito leggero rosso a fiori azzurri.
    Ragazza che lui credeva sarebbe arrivata magicamente per farlo innamorare.
    Doveva recuperarlo, quel disegno.
    Il tempo poteva averlo sbiadito ma non distrutto.
    Gli appariva chiaro nel ricordo. Rappresentava la sua anima e le sue speranze.
    Si avviò. Deciso a riconquistare quei sogni che Lina gli aveva negato, preda com'era del desiderio di vivere una vita concreta, ricca di cose, cose, cose. Ritenute irrinunciabili emblemi di successo sociale.
    Con quel disegno si sarebbe riappropriato della sua vera essenza.
    A passi rapidi, dunque, Riccardo iniziò a scendere verso il fiume. Finito il campo d'erbe, si avventurò tra pietre e rovi fino ai salici. E Furio lo riaccolse come se non si fossero mai lasciati. I rami a mimare un saluto mentre lui accarezzava il tronco solido e incominciava a sondarne le pieghe.
    La trovò, la scatolina. Era ancora là, rabbrunita dalle intemperie, tuttavia ben chiusa sul prezioso contenuto. La aprì, forzando deciso, e ne estrasse il disegno che ripulì, spianò, lisciò. E guardò sospeso.
    Lei era bellissima.
    E con lei ritornò il tempo dei sogni.
    La ammirò ancora e ancora. Rapito da tanta grazia.
    La portò alle labbra per riappropriarsene, e se la mise nel taschino dei jeans, mentre il cuore gli batteva impazzito.
    Un ultimo sguardo a Furio, e prese la via del ritorno, arrampicandosi veloce sulla sponda.
    Fu nel campo d'erbe, tra i minuscoli fiori bianchi e gialli che sfiorava con le mani aperte, procedendo lentamente. Finché non vide una macchia rossa, unica e speciale, alta sulle altre piante.
    Era un papavero che doveva essersi aperto da poco, pensò quasi incredulo.
    Era sbocciato alle sue spalle.
    Sfacciato, allegro, solitario papavero. Anche arrogante in quel suo svettare da re sulla platea di umili sudditi bianchi e gialli.
    Un segno, decise Riccardo.
    E cercò con gli occhi, d'istinto, la strada dove, in quel preciso attimo, stava passando una ragazza in bicicletta. Capelli bruni al vento e vestito leggero azzurro a fiori rossi.

18 Maggio 2023

Irene Navarra 

martedì 18 luglio 2023

Prosa / 145474: Io ortica? Racconto breve di Silvia Valenti.

 

Irene Navarra, Io ortica, AI e Grafica, 3 Luglio 2023.
    


    L’ortica è dimessa.
    L’ortica è oblio.
    L’ortica è il pensiero che fluisce tra muri dimenticati.
    La intuisci infida ma sai che le sue spine fastidiose stanno al suo verde meraviglia come il sole all’estate.
    Nasce in famiglie più o meno numerose e si moltiplica conquistando l’ombra e rubando spazio vitale.
    Si nasconde facendo capolino dal mio glicine. Lui dolce e tintinnante, lei dimessa ma infida. Infida e perfida come la peggiore delle donne. Si coalizza e infesta. Non bastano pani e risotti conditi con le sue foglie perfide per sterminarla. Ha messo radici anche nel mio cuore di bambina che leggeva I cigni selvatici di Hans Christian Andersen. Amavo la principessa che liberava i suoi fratelli tessendo per loro undici tuniche d’ortica.
    Credevo che il dolore delle donne fosse muto.
    La mia ortica svetta spavalda da sotto il mio glicine.
    Non la colgo più.
    Mi inquieta.
    La preferisco quando occhieggia dietro l’angolo di un rudere, fa capolino dal fosso dove le anatre si rinfrescano, quando resiste alla calura estiva e PERDURA.
    Beh, io non sono come l’ortica.
    Peccato.

lunedì 19 giugno 2023

Prosa / 145474: Incantamento fatale. Racconto di Riccardo Bortolami.

 

Irene Navarra, Il Violinista  / Storia di una malia collettiva, AI e Grafica, 19 Giugno 2023.




    La sua musica attirava tutti.
    Li faceva sentire galanti.
    Ognuno, dal contadino più umile al più ricco dei re, si ingentiliva al solo ascolto.
    Le corde melodiose del suo violino portavano la gente in un mondo diverso, dove non c’erano ostacoli, imposizioni, vincoli.
    Questo perché le note liberate dallo strumento agivano come una droga.
    I cuori battevano più velocemente, le emozioni diventavano intense e prendevano il volo alla ricerca dell’origine di quel prodigio. Ed esse, le emozioni, una volta trovata la fonte del concerto che le aveva generate, si lasciavano catturare ed entravano nel nucleo del violino stesso, aumentandone il potere.
    Si intuisce, quindi, che quel violino incatenava le suggestioni per nutrirsene.
    Anche gli animali, sia domestici sia selvaggi, erano affascinati dai suoi suoni, così come un bimbo lo è dai giocattoli colorati.
    Tra le creature a quattro zampe gravitanti attorno a quello strumento, che pareva avere vita propria, c’era un gatto. Dapprima timido, poi sempre più temerario, si era avvicinato imprudente alla fonte dell'armonia meravigliosa, seguendone la traccia nell’aria.
    E fu la sua condanna perché, quando arrivò al musicista che la produceva, si attaccò alla sua gamba e rimase lì giorno e notte, senza alcuna cura di sé.
    Dimentico della sua famiglia, del nutrimento adeguato, dei sonnellini tra l’erba, delle cacce diurne e notturne, incominciò a deperire, nel silenzio assoluto di una sorta di luttuoso incantamento.
    Anche il quartiere, un tempo vivace, ora giaceva muto e immobile.
    Gli abitanti avevano ceduto al brivido inquieto del violinista, che continuava a suonare, e a suonare, e a suonare.

    Morirono uno a uno.
    Morirono di musica.
    L’unico piacere che bramavano.
    Niente cibo né acqua, solo il loro amore per la musica reso schiavo.
    Mentre il violinista pazzo, ignaro della distruzione che aveva causato, muoveva l’archetto sullo strumento perso nelle sue note, 
la città si fermò e prese a coprirsi di uno strato di polverina grigia.
    Così, non percependo nessuna vibrazione vitale attorno a lui, il Violinista si avviò verso altri luoghi ancora pieni di energia.
    Si avviò con il suo talento, la sua passione, il suo violino ipnotico.

mercoledì 7 giugno 2023

Prosa / Racconto breve: Paco in dialogo con la Signora dal sorriso radioso.

 

Salutando Paco.


Irene Navarra, Paco, AI e Grafica, 7 Giugno 2023.


Paco - Senti, Signora dal sorriso radioso, devo farti una domanda. Non ti ho mai vista a casa mia. Che ci fai qui? E come sei entrata? Le mie acutissime orecchie di cane non hanno sentito aprirsi nessuna porta.
Signora - Cane, cane tontolone, ma non vedi che sono pura Luce? Non ho bisogno di aprire porte per entrare. La materia non è affare mio. Non mi interessa. Io amo la vera bellezza di voi creature della Terra. E la vera bellezza sta nascosta. Il mio compito è di farla brillare, come il sole che scintilla sui ghiaccioli pendenti dagli alberi nelle giornate di gelo.
Tu, poi, sei pieno di bellezza. È arrivato il momento, caro Paco, fra breve splenderai. Sarai un fulgore abbagliante.
Paco - Non vedo l'ora. Anche perché questo corpo mi dà parecchi problemi ultimamente. Respiro male. Il cuore è stanco. E sanguina. Vorrei che smettesse. Di sanguinare, intendo.
Signora - E se smettesse di battere? Staresti meglio, no?
Paco - Non so. Può darsi. Basta che io continui a vedere i miei cari umani. Sai, Signora bella, sono i miei Amori. Sì, Silvia, Federico e Riccardo sono i miei Amori speciali. I Custodi del mio Universo. Sono quelli che mi hanno ridato la dignità dopo anni di gabbia da riproduzione in un allevamento, e dopo la mia esperienza distruttiva in una casa dove non potevo fare niente. Nemmeno in giardino. Rodevo chiavistelli, saltavo reti e scappavo. Ma quando sono arrivato qui perché i miei padroni, ehm... schiavisti, dovevano andare in vacanza e non sapevano cosa fare di me visto che non accettavo la prigionia da innocente qual ero, quando sono arrivato qui, ho capito.
Era il mio Paradiso.
Dappertutto colava il miele più dolce: la pappa era buonissima, le carezze intense e morbide, c'erano i baci, la poltrona vicino al camino, il tappeto che s'intonava con i miei colori di splendido Golden biondo. Ovvero il tappeto Blu e Oro su cui medito ogni giorno. C'era anche una canina Bianco-Nera 
di nome Asia. Una Border Collie. Davvero unica. Sai che le facevo la pipì nella ciotola all'inizio? Volevo che fosse tutto mio. E sai la cosa più più, nessuno mi ha mai sgridato. Che meraviglia! mi sono detto. E ho iniziato a vivere davvero.
Signora - Li conosco. Anzi, te lo devo proprio dire per tranquillizzarti, li ho tenuti d'occhio prima che tu arrivassi. Così ho dato il mio placet allo spostamento. Ero certa che qui saresti stato alla grande e saresti maturato, crescendo nella scala della Luce.
Paco - La scala della Luce? Ma cos'è, Signora placet? Conosco il significato di placet, me l'ha insegnato Silvia. È latino. Se uno te lo dice, ti dà il consenso. Io qui ho ricevuto solo placet. Ho dalla mia un sacco di placet.
Signora - Vedi? Ti hanno amato. È brava gente, gente che... placet. Ah! Mi viene anche da scherzare con te. Sei proprio carino e a modo.
Paco - Adesso però, Signora dal sorriso radioso, dimmi parole che siano semplici. La mia Silvia ha tentato di spiegarmi che occorre andare nel profondo per capire quanto vali. E per espormi bene il concetto, sapendo che amavo la musica in generale e la lingua inglese in particolare (sono bislacco, eh?), mi faceva delle domande sulla base di alcuni versi di Shallow, la famosa canzone di Lady Gaga e Bradley Cooper, con il cambio nel testo di boy in dog, naturalmente. Mi precisava che non è giusto essere Shallow, cioè superficiali. Per decenza te la propongo nella versione originale:

(e qui Paco canta)
    Tell me something, boy:
    Aren’t you tired tryin’ to fill that void?
    Or do you need more?
    Ain’t it hard keeping it so hardcore

 

Dimmi qualcosa, ragazzo:

Non sei stanco di cercare di riempire quel vuoto?

O hai bisogno di più?
Non è difficile resistere così tenacemente?

E mi raccontava, poi, che non bisogna accontentarsi, che bisogna andare a fondo in tutto. E io così ho fatto con loro, ho approfondito tanto la mia relazione che ci ero tutto dentro. E non vedevo la superficie. Che avventura stupenda! Ogni giorno era migliore del precedente. Forse troppo? Non si deve mai esagerare, perché quando arriva la fine sei di sicuro troppo triste.
Signora - Ti senti molto triste, adesso?
Paco - No. In verità. Mi sento luminoso. E questo mi piace. Guarda le mie zampe: sembrano simili alle tue mani in un certo senso. Sprizzano Oro. Un'evoluzione del mio magnifico pelo?
Anche la coda pare un ventaglio di pagliuzze dorate. Che roba! Mi sto impreziosendo.
Signora - E ti pare poco? Stai approfondendo. Oggi comprenderai del tutto il messaggio della tua Silvia, Che resterà tua per sempre. Tu sarai legato con una cordicella di Luce a Silvia, Federico e Riccardo. È una cordicella che non trattiene e non strappa, ti avvisa solo con uno scampanellio dolcissimo che è il momento di correre da loro.
Paco - Questo mi rallegra. Allora, facciamoci Luce! Si sta alla grande senza corpo. Però, Signora, cancellami  un po' di ricordi. Quelli brutti. Potrebbero rovinarmi lo splendore. Quelli belli fa' che restino. Rendono la mia Luce calda calda. Piena di Grazia.

La Signora dal sorriso radioso annuì e gli grattolò la testa, spargendo porporina attorno.
Così Paco prese la via del cielo in un brillare accecante.
E, mentre approfondiva la relazione nuova, intonava versi suoi sul ritmo di Shallow. I v
ersi, in effetti, furono percepiti all'unisono dai suoi tre adorati umani. Senza, peraltro, che paresse loro strano. Alla fine si colse un abbaiare soffiato e lontanante: Sto creando meraviglie sulla musica di Shallow. Arrangio anche qualcosina.
Provate a cantarle se non ci credete.
Ma solo se la vostra voce è buona.

Avete mai visto brillare la Luce?
Ecco, così respiro io,
Paco, in corsa con il frisbee
di luccichio in luccichio.

7 Giugno 2023



Da Shallow, canzone interpretata da Lady Gaga e Bradley Cooper per il film “A Star Is Born”, presentato in anteprima mondiale fuori concorso durante la Mostra del Cinema di Venezia 2018.
“Shallow” ha vinto l’Oscar 2019 come Miglior Canzone.





martedì 6 giugno 2023

Prosa / La morte della farfalla (da "Davvero così).

 

Irene Navarra, La morte della farfalla, AI e Grafica, 5 Giugno 2023.


    Tienimi la mano, papà.
    Te la sto tenendo.
    Non ti sento.
    Non voglio farti male.
    Stringi, papà. Stringimi come da piccola. Proteggimi. E fammi volare. Mi ricordo, sai, me lo ricordo: tu allacciavi le mani a seggiolino e io mi ci sedevo. Mi appoggiavo sul tuo petto, mi aggrappavo alle tue braccia forti e tu, la mia altalena viva, mi dondolavi canterellando filastrocche o fischiettando. Stringimi, papà. Non mi fai male. Stringimi forte. Tra poco me ne andrò. E non potrai più toccarmi.


    Martina si separava a strappi dal suo corpo così diverso e fermentante. Gli occhi appannati cercavano le persone. La madre, i parenti, il padre si muovevano sulle punte. Fantasmi in transito. Per non disturbarla mentre si liberava dal dolore.
    Ci siamo, pensavano tutti.
    È il momento, pensava Martina.
    Stava bene.
    Dopo un tempo interminabile costellato da aghi, congegni, flebo, nausee, vomito e trafitture atroci nei suoi poveri polmoni. Stava bene per la prima volta in quel mese di maggio sfibrato da un sole già estivo. Non sentiva più il caldo che l’aveva tormentata incollandole i pigiami zuppi di sudore alla pelle bruciante.
    I capelli le erano caduti da una settimana.
    Quei suoi bei capelli neri.
    Li aveva persi a ciocche, e con loro era svanito anche l’interesse per sé. Riusciva a mettersi la bandana senza guardarsi allo specchio e, se non c’erano specchi in giro, poteva fingersi com’era una volta. Forse si trovava in ospedale per caso. Viaggiatrice stralunata in un mondo bianco. Cavia volontaria entrata là nella danza dei suoi diciannove spumeggianti anni, desiderosi di vacanze e di Luca. Luca dagli occhi di mare.
    Inezie ormai.
    Che si sfaldavano stemperandosi in velature brumose.
    La nebbia invadeva la stanza. E nella nebbia fluttuava il volto del padre. Il fermo volto di suo padre.
    Lasciami ora, papà. Devo andare, disse d’un tratto Martina con una voce che non era più la sua.
    E furono le ultime parole.


    Lui scrutava pallido il trascorrere della fine sui lineamenti cianotici della figlia, indugiava sulle guance gonfie, sulle forme goffe sotto il lenzuolo, sulle mani con le unghie dalle lunette blu, sui piedi come ghiaccio rosato a chiazze viola. 
    Un mese fa splendeva di briosa energia, la sua moretta dal carattere scanzonato. E solo un mese fa non c’era un’ombra nella loro esistenza.
    Il successo della carriera politica lo inorgogliva (era il governatore della regione!), il potere lo eccitava e perciò ripeteva spesso che si era fatto da sé, assaporando e riassaporando soddisfatto il gusto di quel suo uscire dai timori, dubbi, fragilità di una sbiadita giovinezza.
    Aveva preso il volo e gli piaceva, con altezzoso umorismo, definirsi una farfalla.
    Una farfalla tenace e battagliera.
    Quella scaturita dal bozzolo più misero, la meno appariscente, ma la più vitale.
    Batto tutti sulla distanza! gridava e mimava con gesti esagerati la scena che aveva in testa preparandosi a sfornare un’altra metafora in aggiunta alla favoletta della farfalla. Tutti mi staccano alla partenza, mangio la loro polvere ma non cedo. Il calcagno dell’avversario è il mio obiettivo e io corro, corro finché non lo azzanno. E non lo mollo. Poi mi concentro sugli altri ancora davanti, fiuto il loro odore e il fiato si raddoppia. Li acchiappo, li acchiappo e me li pappo, gorgheggiava alla fine del suo sketch autocelebrativo.
    Martina si divertiva un sacco ad ascoltare quel ritornello sfrontato. Una burla, secondo lei. Lo baciava sulla fronte, gli tirava il naso scuotendogli con gentilezza la testa e gli spiegava che le farfalle si nutrono di nettare, che sono i lupi mannari a divorare gli uomini, che lui allora era una farfalla-lupo mannaro. Un mostro! Amabile però! Oh, molto amabile. Il suo carissimo mostro. E lo ribaciava, con una serie di schiocchi sonori. Per fargli dimenticare le battaglie giornaliere, le notti insonni, i parassiti che lo assillavano. Gli attenuava l’incomodo delle fughe ipocrite di fronte alle legittime rimostranze, la seccatura dei compromessi diplomatici. Quanti fardelli non confessati, quante ansie da cui lei sola sapeva sollevarlo!
    Lei sola stornava i crucci. I rituali cruenti della selva giornaliera lei li dissolveva con le sue buffe coccole.
    Lei sola.
    E adesso, chi l’avrebbe consolato? si chiedeva considerando l’eventualità della morte di Martina, mai vagliata in precedenza.
    Il problema di mia figlia si risolverà! esclamava sicuro fino a qualche giorno prima. E aggiungeva: Lei guarirà e tornerà a splendere. L’ho affidata ai migliori medici sul mercato. Il professor Bini la salverà, non può sbagliare. Non si scherza con me! Si impegnerà, me lo assicurano i miei colleghi e amici. Personaggi di rilievo. Hanno telefonato…, me l’ha detto il professore…, gli stanno alle costole..., è il giusto modo…, respirargli sul collo…, sfiancarlo…, rodergli la vita serena. Quando l’acchiappo, pure lui mi pappo, berciava oliato dal grasso del potere rivolgendosi alla sua claque fidata.
    E ora il grasso colava sul letto d’ospedale in cui Martina si disfaceva. Colava malgrado gli si riformasse dentro un accenno d’angoscia. Decise di interpellare il professor Bini e di lasciarlo parlare, non crogiolandosi soltanto nella propria sicumera, sforzandosi insomma di evitare l’imposizione senza alternative come unico modo per ottenere.
    Ottenere la guarigione di Martina.
    E il professore avvertì una prostrata intelligenza nell’insolito stile di porsi e ne fu sollevato perché lo incoraggiava a ragguagliarlo sulla situazione di Martina senza doversi nascondere dietro i virtuosismi astuti che la politica esigeva da lui (ché non tagliassero i finanziamenti al reparto!). Colse, insomma, nel padre un interesse alla comunicazione scambievole. Lo colse con un residuo di imbarazzo al pensiero del proprio dissimulare passato – un po’ per pietà, un po’ per codardia, un po’ per inettitudine di fronte alla logorrea convinta del politico –. Turbato, inoltre, dalla tracotanza ancora eccessiva, aveva abbassato gli occhi sui suoi mocassini Tod’s di camoscio beige, allargato le braccia in un gesto impotente e gli aveva detto che loro, i medici, non potevano contrastare il male di Martina.
    Queste parole gli aveva detto: Non possiamo fare nient’altro. Nel corso della malattia, molte volte ho cercato di avvisarla, con le dovute precauzioni, di un probabile, infausto decorso. Lei ne è al corrente, ma non l’ha mai accettata, quest’ipotesi. Mi dispiace, mi dispiace moltissimo. Martina se l’è mangiata un batterio vorace. L’abbiamo trattata con diversi antibiotici, ma è debole, è troppo debole…, la chemio l’ha distrutta, non reagisce…, il sangue non circola…, il tempo è poco. Le stia vicino.
    Il tempo è poco! aveva urlato il padre, le vene della gola tumide. Cosa vuol dire? Lei doveva guarirla. Guarirla!!! Me l’avevano assicurato. Lei sa di chi parlo, vero?
    Il professor Bini aveva indicato con la mano destra il cielo e si era ritirato di fretta nell’ambulatorio annesso allo studio, esterrefatto dal grasso che continuava a trasudare da quell’uomo refrattario a qualsiasi logica non sua.
    Rimase dunque, il padre, in una sensazione di nudità rovinosa. A combattere contro il disagio per la malcelata riprovazione e lo svilimento indotto dal non poter più dominare.
    Si protese nell’avvenire, riaffacciandosi all’orrido da cui si era reputato salvo. Per lui, in bilico sulla lama affilata della verità, restava solo il ritorno al bruco ignobile del passato?
    La fine di Martina o la fine di tutto?
    La fine di tutto.

    Conscio dell’imminente distacco ritornò alla cameretta dove si consumava la veglia inevitabile, tra un biascicare di preghiere che lo infastidirono. L’epilogo felice, lui, l’aveva dettato, apponendovi la sua prestigiosa etichetta. Qualcun Altro invece, ben più potente, Dio o forza naturale che fosse, l’aveva esautorato per impossessarsi del principio d’autorità che presumeva inalienabile. Né ricatti, né bustarelle, né minacce, nessun ti do per avere in cambio gli avrebbero restituito Martina. Posò gli occhi su sua moglie: esangue, come rimpicciolita, pareva lì lì per dissolversi nelle pareti slavate della stanza.
    Da quanto tempo non la guardava veramente? 
    Ora era bianca di capelli.
    Bianca e distante.
    Scosso da un tremito irrefrenabile, si volse alla finestra da cui si riversava la luce. Filtrando tra le tapparelle abbassate, accendeva di lame d’oro le cose della figlia: la letteratura italiana, l’antologia di autori latini, il libro di matematica impilati sul comodino; Sei tu di Federico Moccia sopra la trousse da trucco; le Crocs blu sotto il letto, la vestaglietta rosa shocking appesa dietro la porta con la bandana a fiorellini provenzali sbucante da una tasca.
    Toccò quegli oggetti, attardandosi su ognuno di essi, e tentò di focalizzarsi sul dilemma del suo futuro nel mondo fuori da lì.
    Il nulla, senza Martina.
    O meglio: una patetica subdimensione visitata da larve passeggere.
    Una stilettata gli trapassò il petto.
    Lui, farfalla spillata viva alla teca che gli avversari avrebbero esposto come un loro trofeo, veniva privato dell’ebbrezza del volo nel dispiegarsi pieno della grazia. Seta la materia di supporto della nuova condizione, costosa la cornice, ma paglia nel costato e spaghi in stimmate di mani e piedi.
    La mente nel bitume della sofferenza di Martina.
    Gli occhi tappati dalla cera della fine di Martina.
    La gola ostruita dall’osso dell’assenza di Martina.
    Dallo strappo con lei i giorni sarebbero divenuti pause vuote e intralcio.
    Si piegò sulla figlia, tese una mano a coglierne il rantolare faticoso, se la portò alle labbra e pianse.
    Di un breve pianto scabro, a singhiozzi aspri.
    Poi, acquietatosi, le si sdraiò al fianco palpitando con le braccia nell’aria piena di morte.
    Sempre più blando.
    Finché, posate le ali sul petto di Martina, agonizzò con lei verso il mistero.

Irene Navarra


lunedì 5 giugno 2023

Prosa / Apparenze ( da "Davvero così").


Di apparenze si può...

Irene Navarra, Lei è Alfa, AI e Grafica, 5 Giugno 2023.
    
    

    Massimo spalancò le persiane della stanza e socchiuse gli occhi per il troppo chiarore. L’aria del mattino si insinuò sotto il pigiama di seta blu, scorrendogli sulla pelle in brividi pungenti. La reazione fu repentina: con studiate movenze tese e allungò i muscoli per ridare alla sua snella figura l’abituale, rilassata armonia. Poi, volse lo sguardo verso gli alberi del giardino, attratto dai loro freschi colori.
    Gli ippocastani avevano gemme carnose e piene.
    Come seni gonfi di latte.
    Alcune spiegavano già dal cuore rosato delle dita esili ondeggianti al vento. Ne avrebbe raccolte un paio, di quelle gemme. Sì, ne avrebbe raccolte un paio e se le sarebbe passate sulle labbra. Per inebriarsi della loro grana di velluto.

    Aveva passato parte della notte sul Libro del Profeta Isaia. Un sublime visionario, secondo lui.
    Commentare le Scritture era un compito e una passione. Da qualche tempo, però, quando si avvicinava ai sacri testi avvertiva scabrose lusinghe.
    Tenui da principio, poi sempre più nitide.
    Vedeva volti bruni di donne dalle labbra scarlatte, percepiva mani che gli sfioravano il petto, la gola, lambivano la bocca, si intrecciavano ai capelli artigliandolo alla nuca e rendendolo una corda vibrante.
    Pronto all’orgasmo che si sarebbe procurato.
    Un piacere frutto di evocazioni della mente in cui amava indugiare, sebbene dopo, in passeggero rammarico per quegli empi accostamenti, si ripromettesse di non ricaderci.
    Con un sospiro si volse al Libro del Profeta ancora aperto sullo scrittoio e ne fissò i fogli consunti, i grafismi fitti, le miniature indaco-cinabro-seppia-oro, distorcendo il volto in una smorfia immediatamente dissimulata in ieratica imperturbabilità (o freddo cinismo, come insinuavano i detrattori). Si impose controvoglia di riesaminare le recenti traduzioni e l’esegesi scritte a lettere grandi sul quaderno dalla rilegatura in marocchino che usava per i brogliacci.
    Il lavoro era là, con le ore trascorse in veglie agitate: tratti d’inchiostro ciano e sabbia di pensieri stanchi tra le parole. 
    Si sedette, abbassò gli occhi, tentò di concentrarsi nella lettura.

    CAPO XLI
    1. Si tacciano le isole dinanzi a me, e le genti si riconfortino; si accostino e parlino: andiamo insieme in giudizio.
    Leggeva, meditando sulle isole, conscio di subirne il fascino. Le isole, ovvero le nazioni straniere vicine alla Giudea e ai gentili. Le non convertite. Una metafora di quanti non si erano lasciati conquistare dal Signore poiché non accettavano il suo dominio e rifiutavano il fatto che solo le genti in sintonia con lui avessero la garanzia di essere riconfortate nella sicurezza di un equo giudizio.

    2. Chi suscitò dall’Oriente il giusto, e lo chiamò perché lo seguisse? Egli umiliò nel cospetto di lui le nazioni e lo fece superiore ai re, divenuti polvere dinanzi alla sua spada, e stoppia trasportata dal vento dinanzi all’arco di lui.
    Il Messia, l’inviato del Padre, sarebbe venuto a sgominare l’arroganza dei potenti e l’idolatria. Armato di spada e arco.
    Anche Massimo era stato sua spada e freccia del suo arco. Da giovane si era compiaciuto di avversare il peccato. Era un docile strumento nelle mani del Creatore ed esultava della pur minima vittoria sulla materialità che, con Isaia, definiva erba, la cui gloria è l’effimero fiore dei campi.
    Qualcosa però, era cambiato.
    Usciva dalle battaglie malvolentieri.
    Tornava al culto in crescente disagio, colmo di un’ambigua frenesia che ancora combatteva. Meno convinto, tuttavia. Meno zelante. E si chiedeva se la vita genuina non fosse patrimonio, invece, di chi era immune da qualsiasi concetto di colpa.

    3. Egli li incalzerà, andrà avanti senza disastro, orma non si vedrà dei piedi di lui.
    Il Salvatore attirerà a sé i gentili dai quattro punti della Terra stendendo la mano in segno di alleanza, profetizzava Isaia. E i popoli esitanti? Li avrebbe banditi dalle regioni della luce? Certo.
    E avrebbe spregiato anche lui, che giudicava subdolo, sofisticato a bella posta e rovinoso – una trappola per allocchi – quel procedere invisibile senza disastro.
    I dubbi lo intaccavano. Erano un’acqua sotterranea che erodeva, goccia a goccia. E le cellule morte gli restavano dentro, a decomporsi, ad avvelenarlo, mentre le lacrime si facevano di pietra.
    Le lacrime!
    Da bambino gli inondavano il viso quando, bocconi sulla nuda terra, la premeva in folgorazioni estatiche.
    Perduto tra i campi del paese di nascita, si era innamorato del Dio della Terra. Che l’aveva tatuato di un suggello indelebile, stillando in lui con il latte contadino della madre, con le sue Avemarie ripetute in nenia monotona.
    Il Dio della Terra, gli spiegava il parroco, era solo l’aspetto fisico del Dio del Cielo.
Amare l’uno significava amare l’altro.
    La sua vocazione era chiara.
    Doveva seguirla.
    Così, lo avevano costretto a deragliare.

    4. Chi tali cose operò e condusse a fine? Chi fin dal principio tutte ordinò le generazioni? Io il Signore, il primo e l’ultimo sono io.
    Era un dogma della fede.
    Inconfutabile.
    Aveva adorato il Signore, e accettato la sua sovranità. Lui con tutte le generazioni obbedienti. L’aveva invocato secondo i precetti della dottrina, pur staccandosi, talvolta, dalle sue braccia per entrare nell’ombra proibita dei sensi. Malgrado un graffio di turbamento nell’anima, guarito peraltro alla svelta nell’euforia della scoperta. In quei momenti innalzava un inno spontaneo al Creatore. Con dei versetti imbastiti lì per lì, lo ringraziava di aver plasmato la materia. La meravigliosa materia cui era piacevole cedere.
    Povero saltimbanco di paese!
    Abbacinato da Colui che era il primo e l’ultimo, si esibiva in funambolismi precari, con un idolo di bronzo nel cuore di paglia.

    5. Le isole videro e ne ebbero timore; le genti rinomate rimasero stupefatte, e si ravvicinarono, e si unirono.
    Le isole, i popoli non ancora irretiti, ebbero timore del Dio della conquista e della vendetta.
    Ammutolito dalla sua potenza, aveva scambiato per amore un sentimento di soggezione.
Era vissuto di paure nascoste dal vestito buono.

    Fluivano i pensieri in granelli tra le parole.

    Don Massimo chiuse il Libro di Isaia e il quaderno delle note, si alzò dalla sedia e ritornò alla finestra. Nel parcheggio del Seminario brillava al sole la sua Alfa GT rosso lacca. Entro un’ora si sarebbe dovuto trovare all’Arcivescovado.
    Era stato convocato da Monsignor De Nordis.
    Forse per un incarico di eccellenza.
    Dovevano avergli esaltato il suo valore di studioso, l’ottima reputazione di docente alla Facoltà di Teologia del Seminario locale, la fama del Liceo Classico di cui era preside da anni.
    Il Monsignore era un tipo eccentrico.
    Girava senza scorta con una Fiat Panda ammaccata e rugginosa. Era arrivato da appena sei mesi e già tutti lo conoscevano. Onnipresente e affabile. Sì, affabile. Lo doveva ammettere. A Natale aveva caricato di strenne quel ferraccio e se n’era andato all’Ospizio dei vecchi per fare festa. Il ricordo durava, gli riferiva un parente là ricoverato. Aveva promesso altri incontri, frequenti e alla chetichella. Desiderava farli ridere, parlare del passato, cantare in coro vecchie canzoni con la sua strascicata cadenza veneta. Questo aveva annunciato, accomiatandosi tra abbracci e buffetti premurosi. Bislacco davvero! si ripeteva don Massimo davanti all’armadio aperto, valutando con disappunto l’obbligo di indossare l’abito sacerdotale.
    Lo pretendeva Monsignore.
    Davanti a lui, almeno.
    Sfiorò i maglioni di cachemire appoggiati in ordine sui ripiani, aspirò la tenue traccia di colonia Tuscany del completo di vigogna grigio fumo di Londra da portare con camicie azzurro pallido e cache-col in tinta. Scarpe di cuoio artigianali e cintura uguale erano accessori appropriati. Per il momento doveva rinunziarvi, considerò con rammarico, e diede inizio alla vestizione tradizionale. Alla fine si volse allo specchio interno dell’armadio Biedermeier di ciliegio (un autentico Danhauser) che, con una scrivania a ribalta, due sedie, una libreria e il letto dello stesso stile, arredava la stanza in modo ricercato. Guardò l’immagine riflessa e rabbrividì. Come rabbrividiva se tentava di pregare nella Chiesetta di San Bartolomeo attigua al Seminario, se diceva messa, se impartiva la comunione.
    Ma non se confessava.
    Gli piaceva confessare.
    Provava un godimento supremo nell’ascoltare il Dio della Terra che gli soffiava all’orecchio cose di carne. Un calore stordente lo invadeva e, appoggiata la fronte alla griglia del confessionale, trovava il fiato del mondo nella realtà di colpe bofonchiate con pudore. Colpe dai risvolti piccanti, su cui indagava garantito dall’inviolabilità del ministero. Perché rosso di vergogna chiama rosso di Carità! sentenziava enfatico. Ovvero: la dettagliata confessione dei peccati è in sé un castigo grossolano, ma implica un riconoscimento che riconcilia all’amore di Dio.
    Un solluchero sublime per don Massimo, dichiaravano i malcapitati peccatori ansiosi di defilarsi dall’interrogatorio, giurando che in futuro sarebbero stati ben attenti all’identità del confessore.

    Nel parcheggio luccicava la sua superba Alfa GT rosso lacca. Una rendita famigliare gli aveva permesso la compera e ne era orgoglioso. La teneva come un gioiello poiché per lui rappresentava molto di più di un assemblaggio di parti meccaniche e carrozzeria.
    Era una donna accessibile senza paura di nocivi coinvolgimenti.
    Guidarla era magnifico.
    In Lei si insinuava, scivolando sul sedile di cuoio nero. Da Lei usciva esausto. Come da un amplesso furioso.
    L’Alfa rosso lacca era un’amante focosa, fantasticava don Massimo, provocato sino allo spasimo quando ne respirava la fragranza di femmina sottomessa alle sue voglie guaste.

    Aspettò a lungo di essere introdotto nell’ufficio di Monsignor De Nordis. Aspettò, misurando a passi nervosi l’angusta anticamera.
    Quando lo fecero entrare, si avviò scontroso verso la scrivania Impero dietro la quale risaltava la massiccia figura del Prelato che, senza staccare gli occhi da dei fogli di carta rosa, gli intimò di accomodarsi con un detestabile aggrottare di sopracciglia. Don Massimo gli si sedette di fronte, su una poltroncina tappezzata di seta giallo ocra, chiedendosi dove potesse ancora arrivare la sua strafottente villania. In segno di disappunto iniziò a tamburellarne i braccioli con i polpastrelli. Quasi a sfidare il deliberato silenzio che permeava la stanza. D’istinto prese poi ad accarezzarli: la stoffa era liscia e soda al tatto.
Turgida stoffa, turgida pelle di ragazza, realizzò tra sé e sé, palpandola con voluttà.
    Finalmente Monsignor De Nordis alzò la testa, ancorò gli occhi di acciaio in quelli di don Massimo e disse: Valentina ci ha lasciati. È morta ieri sera. Studiava il violino. Ed era decisa a trovare l’impronta del Signore sulla Terra. Che – lo scrive nella lettera indirizzata a lei – se esiste, dovrà pur manifestarsi. Gliel’aveva chiesto, ricorda don Massimo? Una settimana fa le confidò il desiderio di sentire Dio; la musica la avvicinava al sacro della religione, le disponeva l’anima all’ascolto ma non le era sufficiente. L’anima…, una scintilla di soprannaturale, espressione diretta di Dio, come assicurava lei, don Massimo. Perciò voleva la chiave di quell’equazione indiscutibile. La esigeva da sé e dagli altri, con urgenza, perché temeva di esaurire nei sensi la sua carica vitale. Da queste parole estreme sembra che Valentina disprezzasse il suo corpo. Ricorda, don Massimo?
    Massimo era allibito. Parlava di una Valentina…, di Valentina Neri forse. Brancolava, senza darlo a vedere, tra visioni malferme per recuperarne dei fotogrammi. Lei, Valentina, gli aveva chiesto qualcosa…, per i corridoi della scuola…, un appuntamento..., doveva porgli un quesito…, ora rammentava. In modo vago. Avevano parlato, in piedi, in fretta, nella saletta di lettura della biblioteca. Lui la sovrastava e Valentina – pallida, bellissima nei jeans attillati e nella maglietta corta sul ventre perfetto – lo supplicava. Ecco…, sì…, lei, il suo discorso smozzicato emergevano dalla memoria. A impennate. Increspature sulla pelle di un animale braccato dalle narici sature di pericolo.
    Monsignore non si sbagliava. Frammenti di quel dialogo si ripresentavano. Il tipico subbuglio adolescenziale travestito da rovelli pseudofilosofici. Gli ormoni in movimento, insomma. Da non farci eccessivo caso. Gli aveva chiesto di aiutarla a trovare la presenza di Dio in Terra. Perché nel creato vedeva solo materia. Pregava garbata. Lui, un teologo tanto esimio, doveva insegnarle a distinguere la voce dell’anima, avvertita spesso, ma flebile, e non sapeva se per uno scherzo della fantasia. Temeva d’ingannarsi.
    Insisteva, gentile e risoluta.
    Glielo dicesse per favore.
    Se c’era, le indicasse la via.
    Un espediente equivoco, quell’implorare accorato? Una scena per attrarlo? Così l’aveva interpretata, da narciso qual era, orgoglioso del fascino costruito a incastro, un pezzettino per volta. Una scena subito cancellata come una glossa insignificante, scacciata come una mosca noiosa, per la regola ferrea del non coinvolgimento. Lui l’aveva elevata a disciplina, coltivando la tecnica del distacco nell’espressione calcolata, nella gestualità limata al punto da non far mai trapelare nessuna emozione.
    Apparenza, tutta apparenza.
    Altro dalla febbre del sangue in tumulto, dalle libidini inconfessabili accuratamente camuffate!
    Con un senso di nausea alla bocca dello stomaco, tra la crescente coscienza del fallimento e un’inezia di rimorso, risentiva il suo tono mansueto, ne rivedeva gli occhi stellanti, la linea flessuosa del collo, il sollevarsi e abbassarsi del seno nell’ansia della richiesta.
    Come si fa a trovare una traccia sicura del divino nelle cose sensibili, don Massimo?
    E lui giocava tra i suoi seni dalle curve morbide.
    Come si fa, don Massimo?
    I seni dalle curve morbide.
    Ma la risposta? Gliel’aveva data?
    Non le aveva risposto nulla?
    Nulla.
    O perlomeno nulla di compromettente.
    Non commetteva mai errori del genere.
    Si trastullava ancora tra i seni dalle curve morbide di Valentina, lontano dai teoremi involuti della religione, quando lei, giratasi con una mossa sinuosa, si era avviata verso la classe, china su se stessa.

    E Monsignore seguitò, lo sguardo ora su Massimo, ora sui fogli rosa: Valentina ha scelto una morte dolce. Ha inghiottito una confezione intera di sonniferi. Chi l’ha trovata credeva dormisse. Il volto era sereno. In questa lettera la ringrazia di averle suggerito delle possibili soluzioni e dato la forza di decidere. Lei le ha detto – pare – che ci sono molti modi per capire e capirsi. Il mitigare l’eccessiva curiosità nella ricerca di Dio potrebbe favorire una maturazione feconda. Accettare i richiami della carne, amalgamare l’intelletto e lo spirito in una sorta di fruttuoso adattamento, l’avrebbero allenata alla rivelazione di sé. Alla fin fine lo sapeva: il corpo è un grande dono. E il suo era un’esplosione di erotismo innato. Ne fruisse con spontaneità, si conformasse all’unicità offertale dall’amore divino. I giovani devono, di regola, ostentarsi contestatori, persino sconvenienti. Il tempo a venire l’avrebbe placata. L’inchiesta intrapresa sembrava troppo complessa, un tranello per gli sprovveduti e i mistici. Perché crearsi complicazioni? I dilemmi, persino i più ingarbugliati, si sciolgono con interventi concreti. I ghiribizzi metafisici sono esche per grulli. Incauti nonsensi.
Monsignore distolse l’attenzione dallo scritto di Valentina, si concentrò su don Massimo e sospese una frase: Asserzioni inammissibili, don Massimo. Inammissibili. E soprattutto scellerate...
    Il volto raccontava ripugnanza; le mani, convulse sui fogli rosa, ne denunciavano lo sconcerto.
    Riprese a leggere: Accantonare la ricerca del trascendente per la materialità, non può diventare la mia scelta. Anzi! Il suo richiamo come unico criterio di vita, per me è volgare. Meglio morire. Tuffarsi con coraggio nell’ignoto. Che, se il Signore esiste, sarà splendente per la luce purissima dello spirito. Oppure, se dopo la morte c’è solo il vuoto, in caduta libera nell’alchimia del ciclo naturale. Qualsiasi condizione sarà preferibile a questo mio tormento.
    Massimo si sentì sopraffatto.
    Vide in sé un baratro insondabile e, mentre le mani ghermivano i braccioli della poltroncina, un umore acre gli si sfilava da dentro, urgeva nella gola, pressava sulle labbra. Finché proruppe violento, squassandolo con conati di un vomito come lava caustica, fluente sulla veste.
    Monsignor De Nordis appoggiò la lettera sulla scrivania, ne spianò i bordi stropicciati, si alzò, prese Massimo per un gomito, lo tirò su di forza, lo indirizzò alla porta e si accomiatò da lui con una scarna sentenza: La sollevo dagli incarichi nella scuola e alla facoltà di    Teologia. Torni a casa, si raccolga in meditazione. Preghi. Preghi molto.
    E aggiunse: Dio abbia misericordia di lei.
    Poi, prostrato, abbassò il capo, si portò le mani alla fronte quasi a nascondere il suo biasimo, arretrò nello studio e si volse all’ampia finestra spalancata sul giardino lussureggiante, sontuoso di netti contrasti tra ombra e luce.


    Epilogo

    Massimo è in macchina, immerso nel fetore del vomito. Nessuna ipocrisia o menzogna potrà salvarlo, nessun indumento coprirne la cancrena.
    Per la prima volta si è guardato sul serio.
    Colpa e condanna assieme, la nuova sostanza.
    Un’emorragia d’anima subita negli anni senza mai alzare un dito. Senza tradirsi nemmeno con un battito di ciglia.
    Il buono e il bello della fanciullezza…, trame lise da cui trasuda il suo marciume. Panni malconci da scrollare di dosso.
    Cercare la verità, quindi. Quella che porta all’unico mondo in cui può ritirarsi.
    Lo intuisce.
    Come Isaia il trionfo del Signore.
    Là c’è Valentina.
    Massimo innesta la marcia e parte.
    Tra breve sarà alla meta.
    Un impatto, lo scoppio della morte, la dissoluzione. Immune dai compromessi, assolto dalle apparenze. Di nuovo freccia, ma insinuata nella voce di Valentina in gara con il vento. E spada, nella guaina insondabile della sua sapienza.

Irene Navarra

venerdì 2 giugno 2023

Prosa / Racconto breve: L'orto di Elena.


Per un'Amica che compie gli anni.
Lo spunto me l'ha dato lei con le sue passioni.
Alcune le ha trasmesse anche a me.
Tra queste: la meditazione.
E non finirò mai di ringraziarla per avermi indotto a impararne le tecniche di base.
Nel racconto troverete degli eventi, naturalmente.
Alcuni ci accompagnano lungo strade già battute dal personaggio di cui si fa la storia.
Altri sono di pura fantasia.
siate gentili e perdonate le intemperanze.
Ciò che conta, comunque, è sempre e solo la magia

A Elena Arcese, con affetto.
Nostalgicamente.


Irene Navarra, La Suora orticoltrice, AI e Grafica 2 Giugno 2023.

     Ha nelle mani a coppa una manciatina di semi di prezzemolo. Li guarda, Elena, con affetto. Sono della generazione dell'anno prima. Una buona generazione che aveva dato risultati eccellenti. Tenendoli con delicatezza osserva le zucchine che sprizzano bontà solo alla vista, vestite come sono di un verde chiaro con il cappellino dei fiori arancio. Le Pallide, le chiama Elena o Le mie Predilette per la generosa dolcezza e la morbida grana.
    Trasferisce i semi da una mano all'altra, stando attenta a non perderne nemmeno uno, e si volge ai pomodori già così turgidi da far presentire saporose insalate e salse e complementi ghiotti di melanzane e peperoni.
    Quando entra nell'orto, avverte un piacevole senso di vertigine e arrivano le voci. Gli ortaggi e i frutti le parlano in fruscii, schiocchi secchi, sospiri, gocce di miele lasciate cadere al suo indaffarato andirivieni. I fichi lo fanno. Le regalano la loro dolcezza appena lei è in giro.
    C'è dialogo tra di loro.
    Elena ne sa il motivo. Tutte le piante dell'orto le aveva portate lei in una sorta di dote al Convento in cui era entrata poco più che adolescente. Erano patrimonio atavico della sua famiglia di tradizioni contadine, e lei sin dall’infanzia le trattava da congiunte carissime. A cui confidava gioie e dolori, traendo conforto dal loro appesantire bacche quando facevano piegare i racemi in segno compiacente di ascolto, oppure annuivano con le chiome. In questo era specialista il basilico: dimenava le foglie per spargere nell'aria il suo odore speziato e consentire con l'interlocutore.
    Con lei, almeno.
    E questo allora, e ora che ha oramai un’età davvero adulta.
    Sospetta, però, che spesso non siano uniformi nel comportamento. Il basilico si mostra fiero del suo temperamento regale e, se qualcuno non gli va a genio, rende amare le foglie al momento della raccolta e rovina l'intingolo a cui viene aggiunto. Fatto risaputo, peraltro, dalle consorelle. Il pesto, in effetti, può comporlo solo lei, per ordine della Superiora, e risulta essere, a detta di tutti, un capolavoro di avvolgente, squisita, inebriante cremosità.
    Che le Suore invasano e vendono.
    I semi ancora nel tiepido calore dei suoi palmi irruviditi dalla terra, Elena si accinge a preparare il suolo per porli a dimora. Li depone in un cartoccio di carta da zucchero, appoggia con attenzione il cartoccio a terra e si mette a zappettare rapida, a scavare i rituali ricoveri in file ordinate e infine a sistemare i semi nelle loro stanzette di germinazione. Poi bagna la sezione d'orto appena lavorata, ammira le lattughe vicine dalle forme tanto prosperose da essere degne di un dipinto di Botero, i cetrioli che si arrampicano scomposti e belli da morire per i frutti pendenti e i fiori giallo sole.
    Con gli occhi pieni di bellezza Elena si siede sulla panca di legno che è il suo trono personale. Una volta accomodata, si toglie il velo, si ravvia i capelli con le dita e offre il volto al cielo. Da lassù, Maria la Semplice le sorride.
    Che meraviglia sentire il calore del Sole sulla pelle!
    Oh, mio infinito e buon Signore! esclama spontaneamente con le parole di Sant'Agostino. In un ringraziamento di umiltà profonda, di riconoscimento dell'incommensurabile potenza divina.
   Con la sacra formula, ripetuta in dolcissimo mormorio, comincia la parte spirituale del tempo dedicato all'orticoltura.
    È il momento della Meditazione cromatica. Ogni volta la tinta o la sfumatura prescelta risultano diverse. Oggi tocca al rosso-rosa dei pomodori Cuore di bue. Ne spicca uno dalla pianta, se lo porta al viso e ne inala l’essenza pungente. Adora il profumo di quelle creature paffute con l’ombelico in evidenza. Se ne sarebbe estratta la base per una colonia, stabilisce ridendo.
    E il buonumore le permette di rilassare il corpo, pulendo la mente. Appoggia, quindi, le mani l'una dentro l'altra e si fa scintilla nel vuoto, al seguito di una scia rosso-rosa e di una fragranza verde e matura assieme.
    Le piante in silenzio perfetto, armonizzano accordi con Elena che sta veleggiando in una dimensione dischiusa solo alla natura incontaminata.
    Lei è ormai un palloncino cui hanno tagliato il filo di ancoraggio. Si libra lieve tra fave novelle e piante aromatiche in fertili, pastosi cespugli che espandono effluvi stordenti.
    Vola, vola Elena, finché la scuote brutalmente una sgradevole voce in richiamo dalle cucine della Comunità: Elena ma che cavolo fai? Ti sei persa, anima sciocca che non sei altro? Porta la verdura. È quasi ora di pranzo.
    I toni sguaiati della cuoca! bisbiglia Elena, tra sé e sé mentre, faticosamente, si alza, raccoglie il cesto ricolmo di ogni ben di Dio e si affretta verso le cucine imboccando la porticina che dall'orto conduce alla zona dei servizi, e immettendosi nel passaggio cieco che è itinerario obbligato per le cucine.
    Si orienta a stento nel corridoio senza luce alcuna. Con un senso d'oppressione.

    In quella specie di cunicolo mal areato le succede qualcosa. Questa volta una mano invisibile le si poggia sulla gola e stringe fino a farle male.
    Ali ai piedi come rimedio, è una formula magica che può andare bene.
    Ma non sempre.
    Oggi no.
    Le cose stanno diversamente, oggi.
    Il respiro viene meno.
    Tanto da perdere quasi i sensi.
    Si appoggia al muro e scivola a terra mentre dal cesto cadono fave e piselli, zucchine, pomodori e lattughe. Un manipolo vegetale che sembra schierarsi in formazione di difesa attorno al suo corpo. Così lei crede in un barlume di semilucidità.
    Poi si lascia andare.
    Con i sovrasensi, rafforzati dalla meditazione, trova una dimensione chiara che le ridona l’aria.
    E ricorda l'infanzia.
    Vede la casa di nascita immersa nel verde rigoglioso della campagna laziale, gli spazi immensi in cui scorazza libera, cavalcando a pelo il suo amato baio di nome Barone. Riprova l’ebbrezza delle esplorazioni scandite dagli zoccoli dell’amico lungo le sponde selvagge del fiume Liri, dove nuotare, tuffarsi e giocare con fratelli e amici era una splendida routine, fragrante come il pane appena sfornato.
    Nelle narici il sentore fresco dell’acqua corrente, nei polpastrelli il contatto vitale con il suo cavallo, ricomincia adagio a respirare. Piena di quel senso sconfinato di devozione che l'aveva unita alla natura sin dalla nascita. Tutti l'avevano notato: in giardino sorrideva,  al chiuso piangeva. Cani, gatti, creature alate erano compagni abituali e s'intendevano a vicenda. Il piacere dello stare insieme brillava. Lei sapeva amare con trasporto il mondo circostante; cose, animali, uomini le entravano nel cuore e vi si insediavano gioiosi.
    Ricambiandola.
    Anche il Signore, lo amava allo stesso modo.
    Infinito. Totalizzante.
    Lui era il Creatore dell'Universo intero.
    Con Lui sarebbe stata felice.

    Elena si riprende a poco a poco. Si trova a terra, capisce che le è successo di nuovo. Il salto temporale la sfinisce fisicamente ogni volta, ma ora sa. Ricompatta i ranghi delle verdure, le ricolloca nel cesto con cura e le porta in cucina affidandole, a malincuore, alla cuoca, torna sui suoi passi e nell'orto, dove accarezza le piante, sussurrando parole dolci.
    Non ne dimentica una, delle sue protette.
    Si dirige, poi, verso il muro di cinta in cui c'è un cancelletto di ferro affacciato su una stradina rustica che volge al mare.
    Non lontano c'è il mare, si ripete mentre il cuore accelera i battiti e i piedi vanno veloci. Il luccicare delle onde all'orizzonte la chiama.
    Risponde correndo.
    E arriva.
    Si toglie i sandali, si siede sulla sabbia e inizia a decidere della sua vita.
    Dei semi non si fa problemi.
    La seguiranno sulle ali del vento dovunque voglia andare.
    Liberamente.
    Il buon sangue vegetale non mente.
    Questo ha ricordato alle piante in un saluto soffocato, allontanandosi dal Monastero.

    1 - 2 Giugno 2023

Irene Navarra

giovedì 1 giugno 2023

Prosa / Racconto: Sogni incrociati (da "Davvero così").

 
Lo dico sempre:
l' importante nella vita è saper cogliere i segni.

Irene Navarra, Emma, AI e Grafica, 1 Giugno 2023.

    Sono proprio pagliuzze d’oro quelle che rilucono negli occhi ambrati di fronte a me.
    Seduta a terra sotto il portico di casa, accarezzo il muso della mia Emma. Ci guardiamo con amore. Il gioco del naso contro naso si ripete sereno, e poi: un bacio sulla testa dove il pelo biondo si incurva in un’onda spessa, le corse sul prato, la passeggiata fino al fiume, il bagno in un’ansa riparata, il riposo all’ombra del vecchio salice con il suo docile corpo tra le braccia.    

    Il tempo di Emma mi gratifica di una tranquillità mai goduta prima, in balia com’ero stata sempre di una schiera di parenti pretenziosi e del lavoro, ladro di sonno e salute.

    Da quando era morto mio padre non avevo conosciuto altro all’infuori della fatica. Lottavo nello studio d’avvocato di proprietà della famiglia da centocinquant’anni, tramandato di padre in figlio, o di padre in figlia come nel mio caso avendo mio fratello preferito la professione di chirurgo.
    Mi ci avevano trascinata per i capelli nei tribunali.
    Amavo la campagna. Desideravo vivere in una fattoria con una cavallina dal mantello ramato. Una stupenda cavallina che sin dall’infanzia continuavo a sognare ogni notte e che, la mattina, svaniva nel volare dei minuti e tra le panie dei codici.
    Cos’era, dunque, la mia vita?
    Destreggiarsi tra beghe continue cercando di placare i clienti e due figli capricciosi, accontentare un marito lavativo e impudente.
    Ecco cos’era la mia vita.
    Meglio di così non ti potrebbe andare, mi dicevano. Io assentivo, vittima dei miei aguzzini. E del dovere: un senso sviluppatissimo in me. Frutto degli insegnamenti di chi – la buon’anima di papà – mi aveva educata nel rigore severo e nel rispetto del prossimo. Se invece azzardavo un bilancio esistenziale, intuivo che gli altri mi si erano installati dentro.
    Abitandomi comodi.
    Pasciuti e satolli di me.
    Vuoi la luna? mi replicava mia madre, indaffarata in organizzazioni di balli per beneficenza e partite a canasta, appena la coinvolgevo nelle mie paranoie.
    Non volevo di certo la luna, ma la poesia delle cose! Le illusioni della giovinezza, affondate in un opprimente trantran.
    Volevo me stessa.
    Avevo tuttavia una fifa mostruosa di ritrovarmi a tu per tu con la scelta di un futuro diverso.
    Ero una falena abbacinata e sbattevo contro lampadine roventi, bruciandomi le ali.

    Per molto continuai a strascicarmi nella beffa degli incontri scanditi dai sintetici promemoria di Gabriella, la mia segretaria. Mi rotolavo nel fango colloso delle cause da studiare, dei cavilli da scovare, infastidita e imbelle. Quando, però, mi capitava di soffermarmi sulle derisioni spavalde di quanti mi succhiavano le forze, ero sopraffatta da un’incresciosa impressione: se avessi cercato di avvicinarmi per strattonarli e farli smettere, avrei toccato solo la parete di una cella trasparente montata apposta per me.
    Vedere gli altri vivere la vita e non riuscire a vivere la mia mi lacerava.
    Potevo forse cambiare quella situazione?
    Ciascuno incalzava con i conti da pagare, con la tempesta delle pretese. A nulla valevano i segni di logorio sulla mia persona in febbrile declino. Nessuno raccoglieva le note roche nella mia voce considerata ormai un ronzio d’ambiente.
    Farsi ciechi e sordi al disagio altrui è la norma per chi si è autoeletto al rango di sole attorno a cui devono orbitare i pianeti-sudditi. Io avevo accettato da tempo la mia condizione subordinata, di soli però ne avevo troppi.
    La mia galassia eccedeva di soli.
    In conflitto tra loro, eppure, all’occorrenza, alleati fedelissimi contro di me.
    Da ciò mi salvò mio marito con la sua energica prodigalità bighellona e irresponsabile.

    Un tardo pomeriggio primaverile funestato da un malessere improvviso, il rientro anticipato dal lavoro, il letto di casa mia – della mia bellissima casa arredata con mobili Liberty –, il mio annoiato marito, la mia migliore amica, la scena d’adulterio intravista dietro la preziosa vetrata Tiffany autentico.
    Ovvia, squallida storia con fuga finale, alla cieca via dalla città.
    Infuriata e irragionevolmente leggera.
    Un’eroina da commedia nostrana al volante della sua macchina sui tornanti delle colline e a piedi verso il fiume per sentieri di polvere bianca, sassi, sterpi, rovi sotto un cielo squarciato da un fiore di cobalto tra nubi corrucciate.
    Un fiore che mi fece fermare, i tacchi a spillo piantati nel terreno, il naso all’insù.
    Polarizzava la mia attenzione con un’incredibile luce attraversata da bagliori. Le nubi si inarcavano, si contorcevano ma il fiore restava incolume, orlato da sbuffi violacei.
    Restava per me: bonario e sornione.
    Mi stesi a terra ipnotizzata da tanta bellezza.
    Scivolai insensibilmente nel sonno.
    Sotto l’immenso, umido sguardo del cielo.
    Di quella notte ricordo con evidenza il sogno.
    All’inizio lo stesso di sempre: la rustica casa bianca sul fiume, i prati rigogliosi, il recinto, la cavallina ramata dai fianchi robusti, il suo dolcissimo sguardo, una sensazione di casto godimento.

La cavallina dai fianchi robusti
piega il collo possente,
abbassa il muso e nitrisce.
La chiamo.
E la voce trascorre la folta criniera.
Io sono la voce, un brivido sul giovane muso,
lungo la groppa, i garretti nervosi.
E sono il salso del suo sudore.
Il galoppo, il galoppo battente.
Lo slancio.
Al fiore cobalto del cielo.

    Il sogno di sempre. Con qualcosa di aggiunto, comunque: segmenti a incastro con altri segmenti.
    Purezza e marciume. Compenetrati in modo tale da non poterli scindere. Un incubo intriso di tremori incontenibili.

Io sono terrore.
Ferite sul collo.
E lance di fuoco nei fianchi.
Dolore nell’occhio del cielo.

    Mi svegliai che il catrame della notte cominciava a sbiadire. Una pioggia fine cadeva in brusio smorzato. Quando tentai di muovermi, mi accorsi di avere la spalla destra bloccata. Qualcosa m’incombeva addosso. Girai cauta la testa e d’istinto lo toccai, quello strano qualcosa. Tenero al tatto, sembrava il corpo di un animale. Orecchie cascanti e inzaccherate, gola stretta da un collare metallico, fianchi tutt’ossa incrostati di fango. Spostai delicatamente la sfortunata creatura e mi sollevai. Al barlume dell’alba la ripulii alla buona strofinandola con i palmi inumiditi nell’erba. A poco a poco percepii il miele e il crema del manto. Era un cane. Un esemplare malconcio di golden retriever.
    I suoi occhi si dischiusero inquieti.
    Lo palpai per capirne il sesso. Femmina. Mi ridistesi al suo fianco, lei allungò le zampe e me le posò sul seno. Restammo immobili. Le sue zampe sul mio seno, le mie dita sulla sua pancia tiepida, sul petto color della luna.
    Il tempo? Non so quanto fu.
    Quando ci alzammo e ci avviammo affiancate verso la vettura, niente sguardi tra di noi. Non erano necessari. Insieme saremmo state invincibili.
    Come un massaggio salutare la speranza di un avvenire migliore scioglieva tensioni. Per noi la vita sarebbe cambiata. Dal rifiuto di una schiavitù imposta e dall’arcano incrociarsi di due sogni stava nascendo un’inattesa realtà.

    La mia spettacolare Jaguar XJ Autobiography ci accolse lussossa di cuoio, radica e acciaio. Adagiai l’infelice amica sul sedile posteriore, la liberai dalla catena, mi rannicchiai accanto a lei e coprii entrambe con il soprabito là dimenticato. Dormimmo finché il sole, dardeggiando sui cristalli dell’automobile, ci invitò alla sua festa.
    In lontananza la città si era accesa di guizzi nei campanili ricoperti da lamine di bronzo, nei tetti di cotto fulvo. Il nastro del fiume serpeggiava a dividere spazi. Azzurra, l’acqua. Argento, la terra ancora madida di guazza.
    Un nuovo orizzonte ci si dispiegava davanti.
    Noi respirammo a fondo per impossessarci di un’aria finalmente nostra.
    Ti chiamerò Emma, le dissi.
    Lei approvò premendomi il muso sulla coscia.

(Una figura umana dall’andatura sbilenca
e una animale dalla coda allegra
uniformavano i passi.
Il patto era stato saldato
con il sentimento dell’analogia.)

    Epilogo

    I miei figli potranno raggiungermi.
    Ma non subito.
    Non è ancora il caso.
    Voglio semmai naufragare negli occhi di Emma per accettare i relitti del passato, mescolandoli ai suoi. Solo allora, ritemprata da sorsate di semplicità, offrirò a Sara e David l’occasione di imparare il succedersi lieto dei giorni nella mia casa presso il fiume, in compagnia di una cavallina dal mantello di rame fulgente. E con Emma.

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