Di apparenze si può...
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Irene Navarra, Lei è Alfa, AI e Grafica, 5 Giugno 2023. |
Massimo spalancò le persiane della stanza e socchiuse gli occhi per il troppo chiarore. L’aria del mattino si insinuò sotto il pigiama di seta blu, scorrendogli sulla pelle in brividi pungenti. La reazione fu repentina: con studiate movenze tese e allungò i muscoli per ridare alla sua snella figura l’abituale, rilassata armonia. Poi, volse lo sguardo verso gli alberi del giardino, attratto dai loro freschi colori.
Gli ippocastani avevano gemme carnose e piene.
Come seni gonfi di latte.
Alcune spiegavano già dal cuore rosato delle dita esili ondeggianti al vento. Ne avrebbe raccolte un paio, di quelle gemme. Sì, ne avrebbe raccolte un paio e se le sarebbe passate sulle labbra. Per inebriarsi della loro grana di velluto.
Aveva passato parte della notte sul Libro del Profeta Isaia. Un sublime visionario, secondo lui.
Commentare le Scritture era un compito e una passione. Da qualche tempo, però, quando si avvicinava ai sacri testi avvertiva scabrose lusinghe.
Tenui da principio, poi sempre più nitide.
Vedeva volti bruni di donne dalle labbra scarlatte, percepiva mani che gli sfioravano il petto, la gola, lambivano la bocca, si intrecciavano ai capelli artigliandolo alla nuca e rendendolo una corda vibrante.
Pronto all’orgasmo che si sarebbe procurato.
Un piacere frutto di evocazioni della mente in cui amava indugiare, sebbene dopo, in passeggero rammarico per quegli empi accostamenti, si ripromettesse di non ricaderci.
Con un sospiro si volse al Libro del Profeta ancora aperto sullo scrittoio e ne fissò i fogli consunti, i grafismi fitti, le miniature indaco-cinabro-seppia-oro, distorcendo il volto in una smorfia immediatamente dissimulata in ieratica imperturbabilità (o freddo cinismo, come insinuavano i detrattori). Si impose controvoglia di riesaminare le recenti traduzioni e l’esegesi scritte a lettere grandi sul quaderno dalla rilegatura in marocchino che usava per i brogliacci.
Il lavoro era là, con le ore trascorse in veglie agitate: tratti d’inchiostro ciano e sabbia di pensieri stanchi tra le parole.
Si sedette, abbassò gli occhi, tentò di concentrarsi nella lettura.
CAPO XLI
1. Si tacciano le isole dinanzi a me, e le genti si riconfortino; si accostino e parlino: andiamo insieme in giudizio.
Leggeva, meditando sulle isole, conscio di subirne il fascino. Le isole, ovvero le nazioni straniere vicine alla Giudea e ai gentili. Le non convertite. Una metafora di quanti non si erano lasciati conquistare dal Signore poiché non accettavano il suo dominio e rifiutavano il fatto che solo le genti in sintonia con lui avessero la garanzia di essere riconfortate nella sicurezza di un equo giudizio.
2. Chi suscitò dall’Oriente il giusto, e lo chiamò perché lo seguisse? Egli umiliò nel cospetto di lui le nazioni e lo fece superiore ai re, divenuti polvere dinanzi alla sua spada, e stoppia trasportata dal vento dinanzi all’arco di lui.
Il Messia, l’inviato del Padre, sarebbe venuto a sgominare l’arroganza dei potenti e l’idolatria. Armato di spada e arco.
Anche Massimo era stato sua spada e freccia del suo arco. Da giovane si era compiaciuto di avversare il peccato. Era un docile strumento nelle mani del Creatore ed esultava della pur minima vittoria sulla materialità che, con Isaia, definiva erba, la cui gloria è l’effimero fiore dei campi.
Qualcosa però, era cambiato.
Usciva dalle battaglie malvolentieri.
Tornava al culto in crescente disagio, colmo di un’ambigua frenesia che ancora combatteva. Meno convinto, tuttavia. Meno zelante. E si chiedeva se la vita genuina non fosse patrimonio, invece, di chi era immune da qualsiasi concetto di colpa.
3. Egli li incalzerà, andrà avanti senza disastro, orma non si vedrà dei piedi di lui.
Il Salvatore attirerà a sé i gentili dai quattro punti della Terra stendendo la mano in segno di alleanza, profetizzava Isaia. E i popoli esitanti? Li avrebbe banditi dalle regioni della luce? Certo.
E avrebbe spregiato anche lui, che giudicava subdolo, sofisticato a bella posta e rovinoso – una trappola per allocchi – quel procedere invisibile senza disastro.
I dubbi lo intaccavano. Erano un’acqua sotterranea che erodeva, goccia a goccia. E le cellule morte gli restavano dentro, a decomporsi, ad avvelenarlo, mentre le lacrime si facevano di pietra.
Le lacrime!
Da bambino gli inondavano il viso quando, bocconi sulla nuda terra, la premeva in folgorazioni estatiche.
Perduto tra i campi del paese di nascita, si era innamorato del Dio della Terra. Che l’aveva tatuato di un suggello indelebile, stillando in lui con il latte contadino della madre, con le sue Avemarie ripetute in nenia monotona.
Il Dio della Terra, gli spiegava il parroco, era solo l’aspetto fisico del Dio del Cielo.
Amare l’uno significava amare l’altro.
La sua vocazione era chiara.
Doveva seguirla.
Così, lo avevano costretto a deragliare.
4. Chi tali cose operò e condusse a fine? Chi fin dal principio tutte ordinò le generazioni? Io il Signore, il primo e l’ultimo sono io.
Era un dogma della fede.
Inconfutabile.
Aveva adorato il Signore, e accettato la sua sovranità. Lui con tutte le generazioni obbedienti. L’aveva invocato secondo i precetti della dottrina, pur staccandosi, talvolta, dalle sue braccia per entrare nell’ombra proibita dei sensi. Malgrado un graffio di turbamento nell’anima, guarito peraltro alla svelta nell’euforia della scoperta. In quei momenti innalzava un inno spontaneo al Creatore. Con dei versetti imbastiti lì per lì, lo ringraziava di aver plasmato la materia. La meravigliosa materia cui era piacevole cedere.
Povero saltimbanco di paese!
Abbacinato da Colui che era il primo e l’ultimo, si esibiva in funambolismi precari, con un idolo di bronzo nel cuore di paglia.
5. Le isole videro e ne ebbero timore; le genti rinomate rimasero stupefatte, e si ravvicinarono, e si unirono.
Le isole, i popoli non ancora irretiti, ebbero timore del Dio della conquista e della vendetta.
Ammutolito dalla sua potenza, aveva scambiato per amore un sentimento di soggezione.
Era vissuto di paure nascoste dal vestito buono.
Fluivano i pensieri in granelli tra le parole.
Don Massimo chiuse il Libro di Isaia e il quaderno delle note, si alzò dalla sedia e ritornò alla finestra. Nel parcheggio del Seminario brillava al sole la sua Alfa GT rosso lacca. Entro un’ora si sarebbe dovuto trovare all’Arcivescovado.
Era stato convocato da Monsignor De Nordis.
Forse per un incarico di eccellenza.
Dovevano avergli esaltato il suo valore di studioso, l’ottima reputazione di docente alla Facoltà di Teologia del Seminario locale, la fama del Liceo Classico di cui era preside da anni.
Il Monsignore era un tipo eccentrico.
Girava senza scorta con una Fiat Panda ammaccata e rugginosa. Era arrivato da appena sei mesi e già tutti lo conoscevano. Onnipresente e affabile. Sì, affabile. Lo doveva ammettere. A Natale aveva caricato di strenne quel ferraccio e se n’era andato all’Ospizio dei vecchi per fare festa. Il ricordo durava, gli riferiva un parente là ricoverato. Aveva promesso altri incontri, frequenti e alla chetichella. Desiderava farli ridere, parlare del passato, cantare in coro vecchie canzoni con la sua strascicata cadenza veneta. Questo aveva annunciato, accomiatandosi tra abbracci e buffetti premurosi. Bislacco davvero! si ripeteva don Massimo davanti all’armadio aperto, valutando con disappunto l’obbligo di indossare l’abito sacerdotale.
Lo pretendeva Monsignore.
Davanti a lui, almeno.
Sfiorò i maglioni di cachemire appoggiati in ordine sui ripiani, aspirò la tenue traccia di colonia Tuscany del completo di vigogna grigio fumo di Londra da portare con camicie azzurro pallido e cache-col in tinta. Scarpe di cuoio artigianali e cintura uguale erano accessori appropriati. Per il momento doveva rinunziarvi, considerò con rammarico, e diede inizio alla vestizione tradizionale. Alla fine si volse allo specchio interno dell’armadio Biedermeier di ciliegio (un autentico Danhauser) che, con una scrivania a ribalta, due sedie, una libreria e il letto dello stesso stile, arredava la stanza in modo ricercato. Guardò l’immagine riflessa e rabbrividì. Come rabbrividiva se tentava di pregare nella Chiesetta di San Bartolomeo attigua al Seminario, se diceva messa, se impartiva la comunione.
Ma non se confessava.
Gli piaceva confessare.
Provava un godimento supremo nell’ascoltare il Dio della Terra che gli soffiava all’orecchio cose di carne. Un calore stordente lo invadeva e, appoggiata la fronte alla griglia del confessionale, trovava il fiato del mondo nella realtà di colpe bofonchiate con pudore. Colpe dai risvolti piccanti, su cui indagava garantito dall’inviolabilità del ministero. Perché rosso di vergogna chiama rosso di Carità! sentenziava enfatico. Ovvero: la dettagliata confessione dei peccati è in sé un castigo grossolano, ma implica un riconoscimento che riconcilia all’amore di Dio.
Un solluchero sublime per don Massimo, dichiaravano i malcapitati peccatori ansiosi di defilarsi dall’interrogatorio, giurando che in futuro sarebbero stati ben attenti all’identità del confessore.
Nel parcheggio luccicava la sua superba Alfa GT rosso lacca. Una rendita famigliare gli aveva permesso la compera e ne era orgoglioso. La teneva come un gioiello poiché per lui rappresentava molto di più di un assemblaggio di parti meccaniche e carrozzeria.
Era una donna accessibile senza paura di nocivi coinvolgimenti.
Guidarla era magnifico.
In Lei si insinuava, scivolando sul sedile di cuoio nero. Da Lei usciva esausto. Come da un amplesso furioso.
L’Alfa rosso lacca era un’amante focosa, fantasticava don Massimo, provocato sino allo spasimo quando ne respirava la fragranza di femmina sottomessa alle sue voglie guaste.
Aspettò a lungo di essere introdotto nell’ufficio di Monsignor De Nordis. Aspettò, misurando a passi nervosi l’angusta anticamera.
Quando lo fecero entrare, si avviò scontroso verso la scrivania Impero dietro la quale risaltava la massiccia figura del Prelato che, senza staccare gli occhi da dei fogli di carta rosa, gli intimò di accomodarsi con un detestabile aggrottare di sopracciglia. Don Massimo gli si sedette di fronte, su una poltroncina tappezzata di seta giallo ocra, chiedendosi dove potesse ancora arrivare la sua strafottente villania. In segno di disappunto iniziò a tamburellarne i braccioli con i polpastrelli. Quasi a sfidare il deliberato silenzio che permeava la stanza. D’istinto prese poi ad accarezzarli: la stoffa era liscia e soda al tatto.
Turgida stoffa, turgida pelle di ragazza, realizzò tra sé e sé, palpandola con voluttà.
Finalmente Monsignor De Nordis alzò la testa, ancorò gli occhi di acciaio in quelli di don Massimo e disse: Valentina ci ha lasciati. È morta ieri sera. Studiava il violino. Ed era decisa a trovare l’impronta del Signore sulla Terra. Che – lo scrive nella lettera indirizzata a lei – se esiste, dovrà pur manifestarsi. Gliel’aveva chiesto, ricorda don Massimo? Una settimana fa le confidò il desiderio di sentire Dio; la musica la avvicinava al sacro della religione, le disponeva l’anima all’ascolto ma non le era sufficiente. L’anima…, una scintilla di soprannaturale, espressione diretta di Dio, come assicurava lei, don Massimo. Perciò voleva la chiave di quell’equazione indiscutibile. La esigeva da sé e dagli altri, con urgenza, perché temeva di esaurire nei sensi la sua carica vitale. Da queste parole estreme sembra che Valentina disprezzasse il suo corpo. Ricorda, don Massimo?
Massimo era allibito. Parlava di una Valentina…, di Valentina Neri forse. Brancolava, senza darlo a vedere, tra visioni malferme per recuperarne dei fotogrammi. Lei, Valentina, gli aveva chiesto qualcosa…, per i corridoi della scuola…, un appuntamento..., doveva porgli un quesito…, ora rammentava. In modo vago. Avevano parlato, in piedi, in fretta, nella saletta di lettura della biblioteca. Lui la sovrastava e Valentina – pallida, bellissima nei jeans attillati e nella maglietta corta sul ventre perfetto – lo supplicava. Ecco…, sì…, lei, il suo discorso smozzicato emergevano dalla memoria. A impennate. Increspature sulla pelle di un animale braccato dalle narici sature di pericolo.
Monsignore non si sbagliava. Frammenti di quel dialogo si ripresentavano. Il tipico subbuglio adolescenziale travestito da rovelli pseudofilosofici. Gli ormoni in movimento, insomma. Da non farci eccessivo caso. Gli aveva chiesto di aiutarla a trovare la presenza di Dio in Terra. Perché nel creato vedeva solo materia. Pregava garbata. Lui, un teologo tanto esimio, doveva insegnarle a distinguere la voce dell’anima, avvertita spesso, ma flebile, e non sapeva se per uno scherzo della fantasia. Temeva d’ingannarsi.
Insisteva, gentile e risoluta.
Glielo dicesse per favore.
Se c’era, le indicasse la via.
Un espediente equivoco, quell’implorare accorato? Una scena per attrarlo? Così l’aveva interpretata, da narciso qual era, orgoglioso del fascino costruito a incastro, un pezzettino per volta. Una scena subito cancellata come una glossa insignificante, scacciata come una mosca noiosa, per la regola ferrea del non coinvolgimento. Lui l’aveva elevata a disciplina, coltivando la tecnica del distacco nell’espressione calcolata, nella gestualità limata al punto da non far mai trapelare nessuna emozione.
Apparenza, tutta apparenza.
Altro dalla febbre del sangue in tumulto, dalle libidini inconfessabili accuratamente camuffate!
Con un senso di nausea alla bocca dello stomaco, tra la crescente coscienza del fallimento e un’inezia di rimorso, risentiva il suo tono mansueto, ne rivedeva gli occhi stellanti, la linea flessuosa del collo, il sollevarsi e abbassarsi del seno nell’ansia della richiesta.
Come si fa a trovare una traccia sicura del divino nelle cose sensibili, don Massimo?
E lui giocava tra i suoi seni dalle curve morbide.
Come si fa, don Massimo?
I seni dalle curve morbide.
Ma la risposta? Gliel’aveva data?
Non le aveva risposto nulla?
Nulla.
O perlomeno nulla di compromettente.
Non commetteva mai errori del genere.
Si trastullava ancora tra i seni dalle curve morbide di Valentina, lontano dai teoremi involuti della religione, quando lei, giratasi con una mossa sinuosa, si era avviata verso la classe, china su se stessa.
E Monsignore seguitò, lo sguardo ora su Massimo, ora sui fogli rosa: Valentina ha scelto una morte dolce. Ha inghiottito una confezione intera di sonniferi. Chi l’ha trovata credeva dormisse. Il volto era sereno. In questa lettera la ringrazia di averle suggerito delle possibili soluzioni e dato la forza di decidere. Lei le ha detto – pare – che ci sono molti modi per capire e capirsi. Il mitigare l’eccessiva curiosità nella ricerca di Dio potrebbe favorire una maturazione feconda. Accettare i richiami della carne, amalgamare l’intelletto e lo spirito in una sorta di fruttuoso adattamento, l’avrebbero allenata alla rivelazione di sé. Alla fin fine lo sapeva: il corpo è un grande dono. E il suo era un’esplosione di erotismo innato. Ne fruisse con spontaneità, si conformasse all’unicità offertale dall’amore divino. I giovani devono, di regola, ostentarsi contestatori, persino sconvenienti. Il tempo a venire l’avrebbe placata. L’inchiesta intrapresa sembrava troppo complessa, un tranello per gli sprovveduti e i mistici. Perché crearsi complicazioni? I dilemmi, persino i più ingarbugliati, si sciolgono con interventi concreti. I ghiribizzi metafisici sono esche per grulli. Incauti nonsensi.
Monsignore distolse l’attenzione dallo scritto di Valentina, si concentrò su don Massimo e sospese una frase: Asserzioni inammissibili, don Massimo. Inammissibili. E soprattutto scellerate...
Il volto raccontava ripugnanza; le mani, convulse sui fogli rosa, ne denunciavano lo sconcerto.
Riprese a leggere: Accantonare la ricerca del trascendente per la materialità, non può diventare la mia scelta. Anzi! Il suo richiamo come unico criterio di vita, per me è volgare. Meglio morire. Tuffarsi con coraggio nell’ignoto. Che, se il Signore esiste, sarà splendente per la luce purissima dello spirito. Oppure, se dopo la morte c’è solo il vuoto, in caduta libera nell’alchimia del ciclo naturale. Qualsiasi condizione sarà preferibile a questo mio tormento.
Massimo si sentì sopraffatto.
Vide in sé un baratro insondabile e, mentre le mani ghermivano i braccioli della poltroncina, un umore acre gli si sfilava da dentro, urgeva nella gola, pressava sulle labbra. Finché proruppe violento, squassandolo con conati di un vomito come lava caustica, fluente sulla veste.
Monsignor De Nordis appoggiò la lettera sulla scrivania, ne spianò i bordi stropicciati, si alzò, prese Massimo per un gomito, lo tirò su di forza, lo indirizzò alla porta e si accomiatò da lui con una scarna sentenza: La sollevo dagli incarichi nella scuola e alla facoltà di Teologia. Torni a casa, si raccolga in meditazione. Preghi. Preghi molto.
E aggiunse: Dio abbia misericordia di lei.
Poi, prostrato, abbassò il capo, si portò le mani alla fronte quasi a nascondere il suo biasimo, arretrò nello studio e si volse all’ampia finestra spalancata sul giardino lussureggiante, sontuoso di netti contrasti tra ombra e luce.
Epilogo
Massimo è in macchina, immerso nel fetore del vomito. Nessuna ipocrisia o menzogna potrà salvarlo, nessun indumento coprirne la cancrena.
Per la prima volta si è guardato sul serio.
Colpa e condanna assieme, la nuova sostanza.
Un’emorragia d’anima subita negli anni senza mai alzare un dito. Senza tradirsi nemmeno con un battito di ciglia.
Il buono e il bello della fanciullezza…, trame lise da cui trasuda il suo marciume. Panni malconci da scrollare di dosso.
Cercare la verità, quindi. Quella che porta all’unico mondo in cui può ritirarsi.
Lo intuisce.
Come Isaia il trionfo del Signore.
Là c’è Valentina.
Massimo innesta la marcia e parte.
Tra breve sarà alla meta.
Un impatto, lo scoppio della morte, la dissoluzione. Immune dai compromessi, assolto dalle apparenze. Di nuovo freccia, ma insinuata nella voce di Valentina in gara con il vento. E spada, nella guaina insondabile della sua sapienza.
Irene Navarra