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mercoledì 11 dicembre 2024

Poesia / Ambigua-Mente-Lirica: Catturare il Sole.




P_Irene Navarra, Catturare il Sole, AIArt e GraphicArt, 11 Dicembre 2024.



Catturo il Sole
con le mie ali di farfalla aliena.
Lui l'accetta
e se ne fa splendore
che m'acceca.
Io mi sento Luce.


venerdì 30 agosto 2024

Poesia / Ambigua-Mente-Lirica: La geografia del cielo.

 
(Nel mio giardino, il 29 agosto 2024, alle ore 16.30.)


P_Irene Navarra, Farfalla e Geranio, AIArt e GraphicArt, 30 Agosto 2024


Farfalla galleggiante

sulle chiazze dei gerani,
sul verde taumaturgico dell'erba.
Farfalla come un fiore tra le fratte.
Farfalla come sprazzi di sereno
tra i faggi che profilano il mio Eden.
Gentile creatura prodigiosa
rende perfetto lo sfondo in cui volteggia.
E vi si adatta

Carta velina le sue ali.
Serici fiocchi
sulla mappa del giardino.
Divagano.
A lineette e punti
a piccoli sussulti
a impennate
per darci forse l'arco
di un segreto
perso lassù.
Più in alto.

La geografia del cielo è un codice
di criptici grafismi
che si ripete complice e innocente.

(Nella Distanza sta la limpidezza.)


P_Irene Navarra, Tra i faggi, AIArt e GraphicArt, 30 Agosto 2024.



giovedì 22 agosto 2024

Poesia / Cronaca: Essere farfalla.



P_Irene Navarra, Nel mio giardino, AIArt e GraphicArt, 22 Agosto 2024.



Stamattina tra i fiori del giardino
un tripudiare di farfalle.
Mi segnavano il percorso di una mappa.
Gentile aria di polline leggero
e velo d'ali che non fa rumore
ma lascia traccia.
Per chi sa vedere.
Osservo e so l'andare mio
come se fossi appena nata
da traslucida crisalide.
Io.
Ancora tenera di recente sboccio
seguo la scia di questo trasvolare.
mentre la pelle illustra l'essere mio vero
con nitidi tatuaggi di farfalle.
Sorrido e fluttuo.
Sono creatura che s'anima di brezza
e dialogo col cielo.
Niente dolori, niente cure.
La vita effimera di una farfalla
ora è il mio Credo.


martedì 18 luglio 2023

Poesia / Frammento 60: Farfalle.

 

Irene Navarra, Farfalle, AI e Grafica, 17 Luglio 2023 + filtro



Farfalle gemine.
Cortesi replicanti proiettate
in forme fragili
fuori da me.
Sono la trasformazione
che mi accompagna
nella recente nascita.
 Medito la mia via di Luce
tra battiti lievi d'ali
e piccoli accenni di blu cielo.
Fanno da scorta.
Daimon trionfanti
su quanto la materia esclude.

Capelli bianchi al vento
e bocca chiusa sul silenzio
che mi rende bella,
traghetto la mia essenza
verso il cuore delle cose.
Cuore delle cose anch'io
nel mare d'energia universale.


lunedì 17 luglio 2023

Poesia / Frammento 59: Imparerò a volare.

 

Irene Navarra, E volerò con ali di farfalla, AI e Grafica, 17 Luglio 2023.




Eccomi.
Rinata dalle mie stesse mani
rese acquasantiera
nell'innocenza trasparente dell'anima
che bamboleggia che che sa nulla
se non il bene del Primo Fattore
che la curò come una figlia
e la diede al mondo.

Mentre io ascolto impulsi di cristallo
e minimizzo ogni mia cellula 
per rifugiarmi sopra il palmo 
di quel Dio di Creazione 
Unico Padre Vero -,
avviene il Tutto.
Collegamenti impercettibili
sempre più stringenti
mi cambiano in crisalide perfetta.
Scaturirò con ali ancora umide,
leggere, da quel nido celeste.
E volerò altalenando carole
tra i tronchi della selva
dove non trovo più dimora.
Come farfalla d'ali rosa
che vuole ibischi e ortensie
cerco un giardino quieto
in cui posarmi e stare.


martedì 6 giugno 2023

Prosa / La morte della farfalla (da "Davvero così).

 

Irene Navarra, La morte della farfalla, AI e Grafica, 5 Giugno 2023.


    Tienimi la mano, papà.
    Te la sto tenendo.
    Non ti sento.
    Non voglio farti male.
    Stringi, papà. Stringimi come da piccola. Proteggimi. E fammi volare. Mi ricordo, sai, me lo ricordo: tu allacciavi le mani a seggiolino e io mi ci sedevo. Mi appoggiavo sul tuo petto, mi aggrappavo alle tue braccia forti e tu, la mia altalena viva, mi dondolavi canterellando filastrocche o fischiettando. Stringimi, papà. Non mi fai male. Stringimi forte. Tra poco me ne andrò. E non potrai più toccarmi.


    Martina si separava a strappi dal suo corpo così diverso e fermentante. Gli occhi appannati cercavano le persone. La madre, i parenti, il padre si muovevano sulle punte. Fantasmi in transito. Per non disturbarla mentre si liberava dal dolore.
    Ci siamo, pensavano tutti.
    È il momento, pensava Martina.
    Stava bene.
    Dopo un tempo interminabile costellato da aghi, congegni, flebo, nausee, vomito e trafitture atroci nei suoi poveri polmoni. Stava bene per la prima volta in quel mese di maggio sfibrato da un sole già estivo. Non sentiva più il caldo che l’aveva tormentata incollandole i pigiami zuppi di sudore alla pelle bruciante.
    I capelli le erano caduti da una settimana.
    Quei suoi bei capelli neri.
    Li aveva persi a ciocche, e con loro era svanito anche l’interesse per sé. Riusciva a mettersi la bandana senza guardarsi allo specchio e, se non c’erano specchi in giro, poteva fingersi com’era una volta. Forse si trovava in ospedale per caso. Viaggiatrice stralunata in un mondo bianco. Cavia volontaria entrata là nella danza dei suoi diciannove spumeggianti anni, desiderosi di vacanze e di Luca. Luca dagli occhi di mare.
    Inezie ormai.
    Che si sfaldavano stemperandosi in velature brumose.
    La nebbia invadeva la stanza. E nella nebbia fluttuava il volto del padre. Il fermo volto di suo padre.
    Lasciami ora, papà. Devo andare, disse d’un tratto Martina con una voce che non era più la sua.
    E furono le ultime parole.


    Lui scrutava pallido il trascorrere della fine sui lineamenti cianotici della figlia, indugiava sulle guance gonfie, sulle forme goffe sotto il lenzuolo, sulle mani con le unghie dalle lunette blu, sui piedi come ghiaccio rosato a chiazze viola. 
    Un mese fa splendeva di briosa energia, la sua moretta dal carattere scanzonato. E solo un mese fa non c’era un’ombra nella loro esistenza.
    Il successo della carriera politica lo inorgogliva (era il governatore della regione!), il potere lo eccitava e perciò ripeteva spesso che si era fatto da sé, assaporando e riassaporando soddisfatto il gusto di quel suo uscire dai timori, dubbi, fragilità di una sbiadita giovinezza.
    Aveva preso il volo e gli piaceva, con altezzoso umorismo, definirsi una farfalla.
    Una farfalla tenace e battagliera.
    Quella scaturita dal bozzolo più misero, la meno appariscente, ma la più vitale.
    Batto tutti sulla distanza! gridava e mimava con gesti esagerati la scena che aveva in testa preparandosi a sfornare un’altra metafora in aggiunta alla favoletta della farfalla. Tutti mi staccano alla partenza, mangio la loro polvere ma non cedo. Il calcagno dell’avversario è il mio obiettivo e io corro, corro finché non lo azzanno. E non lo mollo. Poi mi concentro sugli altri ancora davanti, fiuto il loro odore e il fiato si raddoppia. Li acchiappo, li acchiappo e me li pappo, gorgheggiava alla fine del suo sketch autocelebrativo.
    Martina si divertiva un sacco ad ascoltare quel ritornello sfrontato. Una burla, secondo lei. Lo baciava sulla fronte, gli tirava il naso scuotendogli con gentilezza la testa e gli spiegava che le farfalle si nutrono di nettare, che sono i lupi mannari a divorare gli uomini, che lui allora era una farfalla-lupo mannaro. Un mostro! Amabile però! Oh, molto amabile. Il suo carissimo mostro. E lo ribaciava, con una serie di schiocchi sonori. Per fargli dimenticare le battaglie giornaliere, le notti insonni, i parassiti che lo assillavano. Gli attenuava l’incomodo delle fughe ipocrite di fronte alle legittime rimostranze, la seccatura dei compromessi diplomatici. Quanti fardelli non confessati, quante ansie da cui lei sola sapeva sollevarlo!
    Lei sola stornava i crucci. I rituali cruenti della selva giornaliera lei li dissolveva con le sue buffe coccole.
    Lei sola.
    E adesso, chi l’avrebbe consolato? si chiedeva considerando l’eventualità della morte di Martina, mai vagliata in precedenza.
    Il problema di mia figlia si risolverà! esclamava sicuro fino a qualche giorno prima. E aggiungeva: Lei guarirà e tornerà a splendere. L’ho affidata ai migliori medici sul mercato. Il professor Bini la salverà, non può sbagliare. Non si scherza con me! Si impegnerà, me lo assicurano i miei colleghi e amici. Personaggi di rilievo. Hanno telefonato…, me l’ha detto il professore…, gli stanno alle costole..., è il giusto modo…, respirargli sul collo…, sfiancarlo…, rodergli la vita serena. Quando l’acchiappo, pure lui mi pappo, berciava oliato dal grasso del potere rivolgendosi alla sua claque fidata.
    E ora il grasso colava sul letto d’ospedale in cui Martina si disfaceva. Colava malgrado gli si riformasse dentro un accenno d’angoscia. Decise di interpellare il professor Bini e di lasciarlo parlare, non crogiolandosi soltanto nella propria sicumera, sforzandosi insomma di evitare l’imposizione senza alternative come unico modo per ottenere.
    Ottenere la guarigione di Martina.
    E il professore avvertì una prostrata intelligenza nell’insolito stile di porsi e ne fu sollevato perché lo incoraggiava a ragguagliarlo sulla situazione di Martina senza doversi nascondere dietro i virtuosismi astuti che la politica esigeva da lui (ché non tagliassero i finanziamenti al reparto!). Colse, insomma, nel padre un interesse alla comunicazione scambievole. Lo colse con un residuo di imbarazzo al pensiero del proprio dissimulare passato – un po’ per pietà, un po’ per codardia, un po’ per inettitudine di fronte alla logorrea convinta del politico –. Turbato, inoltre, dalla tracotanza ancora eccessiva, aveva abbassato gli occhi sui suoi mocassini Tod’s di camoscio beige, allargato le braccia in un gesto impotente e gli aveva detto che loro, i medici, non potevano contrastare il male di Martina.
    Queste parole gli aveva detto: Non possiamo fare nient’altro. Nel corso della malattia, molte volte ho cercato di avvisarla, con le dovute precauzioni, di un probabile, infausto decorso. Lei ne è al corrente, ma non l’ha mai accettata, quest’ipotesi. Mi dispiace, mi dispiace moltissimo. Martina se l’è mangiata un batterio vorace. L’abbiamo trattata con diversi antibiotici, ma è debole, è troppo debole…, la chemio l’ha distrutta, non reagisce…, il sangue non circola…, il tempo è poco. Le stia vicino.
    Il tempo è poco! aveva urlato il padre, le vene della gola tumide. Cosa vuol dire? Lei doveva guarirla. Guarirla!!! Me l’avevano assicurato. Lei sa di chi parlo, vero?
    Il professor Bini aveva indicato con la mano destra il cielo e si era ritirato di fretta nell’ambulatorio annesso allo studio, esterrefatto dal grasso che continuava a trasudare da quell’uomo refrattario a qualsiasi logica non sua.
    Rimase dunque, il padre, in una sensazione di nudità rovinosa. A combattere contro il disagio per la malcelata riprovazione e lo svilimento indotto dal non poter più dominare.
    Si protese nell’avvenire, riaffacciandosi all’orrido da cui si era reputato salvo. Per lui, in bilico sulla lama affilata della verità, restava solo il ritorno al bruco ignobile del passato?
    La fine di Martina o la fine di tutto?
    La fine di tutto.

    Conscio dell’imminente distacco ritornò alla cameretta dove si consumava la veglia inevitabile, tra un biascicare di preghiere che lo infastidirono. L’epilogo felice, lui, l’aveva dettato, apponendovi la sua prestigiosa etichetta. Qualcun Altro invece, ben più potente, Dio o forza naturale che fosse, l’aveva esautorato per impossessarsi del principio d’autorità che presumeva inalienabile. Né ricatti, né bustarelle, né minacce, nessun ti do per avere in cambio gli avrebbero restituito Martina. Posò gli occhi su sua moglie: esangue, come rimpicciolita, pareva lì lì per dissolversi nelle pareti slavate della stanza.
    Da quanto tempo non la guardava veramente? 
    Ora era bianca di capelli.
    Bianca e distante.
    Scosso da un tremito irrefrenabile, si volse alla finestra da cui si riversava la luce. Filtrando tra le tapparelle abbassate, accendeva di lame d’oro le cose della figlia: la letteratura italiana, l’antologia di autori latini, il libro di matematica impilati sul comodino; Sei tu di Federico Moccia sopra la trousse da trucco; le Crocs blu sotto il letto, la vestaglietta rosa shocking appesa dietro la porta con la bandana a fiorellini provenzali sbucante da una tasca.
    Toccò quegli oggetti, attardandosi su ognuno di essi, e tentò di focalizzarsi sul dilemma del suo futuro nel mondo fuori da lì.
    Il nulla, senza Martina.
    O meglio: una patetica subdimensione visitata da larve passeggere.
    Una stilettata gli trapassò il petto.
    Lui, farfalla spillata viva alla teca che gli avversari avrebbero esposto come un loro trofeo, veniva privato dell’ebbrezza del volo nel dispiegarsi pieno della grazia. Seta la materia di supporto della nuova condizione, costosa la cornice, ma paglia nel costato e spaghi in stimmate di mani e piedi.
    La mente nel bitume della sofferenza di Martina.
    Gli occhi tappati dalla cera della fine di Martina.
    La gola ostruita dall’osso dell’assenza di Martina.
    Dallo strappo con lei i giorni sarebbero divenuti pause vuote e intralcio.
    Si piegò sulla figlia, tese una mano a coglierne il rantolare faticoso, se la portò alle labbra e pianse.
    Di un breve pianto scabro, a singhiozzi aspri.
    Poi, acquietatosi, le si sdraiò al fianco palpitando con le braccia nell’aria piena di morte.
    Sempre più blando.
    Finché, posate le ali sul petto di Martina, agonizzò con lei verso il mistero.

Irene Navarra