Pensai fosse un uomo trasformato in albero. Costretto a sentirsi la pelle di corteccia, ingabbiato in quel fusto nemmeno maestoso per qualche colpa innominabile.
Se me ne stavo in giardino, intenta a una delle tante necessarie faccende quotidiane, sentivo i suoi occhi puntati addosso come le canne doppie di un fucile da caccia.
Occhi che, naturalmente, intuivo solo io.
Ero convinta che mi odiasse.
E mi tenevo alla larga.
Poi, però, qualcosa iniziò a cambiare.
Impercettibilmente.
Scivolavamo piano verso una comprensione sovrumana.
Il primo passo lo feci io, quando gli lessi alcuni pensieri dedicati alla sua fragilità di vetusta pianta ancora tanto generosa di doni fragranti in Agosto.
Doni che raccoglieva mia madre.
Solo lei.
Credo che si capissero profondamente.
Slava lei, un po' sciamana; di origine serba lui - mi avevano detto -, un po' stregone. Forse figlio del Kresnik.
Gli lessi, dunque, qualche riga di quelle solite mie, nutrite di empatia naturale.
Intendevo la sua solitudine, affermai. E lo adornai di un nastro rosso che faceva da contrasto ai suoi frutti viola scuro, sfarinati di bianco lucente e con una punta giallo sole all'attaccatura del picciolo.
Mentre parlavo e agivo, lui scuoteva rami e foglie. In assoluta mancanza di vento.
Colsi l'assenso.
E continuai il rito.
Impreziosendolo di nastri di vario colore.
Susino abbassò le difese e mi accolse tra le sue braccia sottili.
Mai avvenne tra due creature diverse
abbraccio più affettuoso e carezza più dolce.
Fui l'amica intima di Susino per molto tempo, finché...
Si era d'Autunno.
Il 29 di Novembre.
Correva l'anno 2009.
Quella mattina, mentre lo rivestivo di veli color ambra, adatti all'ambiente pennellato di arancio e giallo, sentii che si stava compiendo il suo ciclo vitale. E il cuore mi si spaccò come una melagrana matura.
Le guance si inondarono di lacrime brucianti.
Mi volsi al cespuglio d'alloro, che gli era stato compagno, quasi a cercare aiuto.
Immobilmente sgocciolava linfa limpida.
Nel giardino ormai di cristallo: cince e merli muti; in cielo: nubi sbozzate dal marmo, una luce gelida sopra la casetta di legno dietro Susino.
Allora posai le mani sul suo tronco per accompagnarlo nell'andare.
E disperata lo guardai mentre gli si apriva il costato ormai scarno.
Si apriva con uno scrosciare di noci spaccate.
Mi appoggiai allo steccato e chiusi gli occhi.
Il saluto si snodava e fluiva in correnti traslucide da me a Lui.
Quando, finalmente, riaffiorai dal dolore e socchiusi le palpebre, assistetti a qualcosa di immenso: una figura di giovane donna interamente ricoperta di veli ambrati nasceva dai poveri resti di Susino.
Lei splendeva di una bellezza purissima.
Uscì con grazia dalle amabili spoglie, mi sorrise e s'involò verso la sua Vera Vita.
La mattina dopo, svegliandomi da un sonno agro, trovai sul cuscino un piccolo ramo legato da un nastro rosso.
Il primo che gli avevo regalato.