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mercoledì 16 marzo 2022

Prosa / Tra le labbra livide della notte ( Da "Davvero così").

 

Irene Navarra, Rossana, Disegno grafico, 2022.

    Appoggiata rigidamente allo schienale della bergère su cui si era appena seduta, Rossana fissava il cellulare che teneva chiuso tra le mani giunte a conchiglia. Quasi pregasse. In uno stato di forte tensione, attendeva l’accendersi del display. Le note del Bolero di Ravel avrebbero scosso il silenzio e lei avrebbe pigiato il tastino di risposta trasalendo di gioia.
Nel tinello attiguo al salotto la tavola era preparata per la cena. Un allestimento perfetto che Rossana non degnava d’attenzione. Come se non la riguardasse, pur essendone l’autrice. La tovaglia di fiandra verde pallido cadeva compatta fino a terra, le candide porcellane di Limoges e i bicchieri in vetro soffiato Venini scintillavano, due minibouquet d’edera e bucaneve ornavano i tovaglioli riprendendo i motivi floreali del tessuto, le posate d’argento dalla foggia estrosa completavano la raffinata ricercatezza dell’apparato.
    Tutto era pronto anche nella minuscola cucina lucida di smalti, già rassettata con cura maniacale.
    Sul bancone dal ripiano di marmo se ne stavano allineate in bell’ordine le pietanze: il fagiano arrosto, la purea di patate, la salsa al ribes, il radicchio canarino al gratin, la crostata di mele odorosa di vaniglia. Un aromatico Manzoni rosso avrebbe accompagnato la selvaggina, un Ramandolo barricato in rovere bianco, il dolce. Il primo l’aveva scaraffato per l’ossigenazione in un prezioso decanter Lalique della linea Roxane, dono di nozze di una cugina per l’omonimia casuale con il suo nome, Rossana appunto. Il secondo, invece, era nel frigo-cantina affinché mantenesse la temperatura ideale di 14°.
    All’arrivo di Guido, suo marito, le sarebbe bastato pochissimo per riscaldare il cibo: un velo di panna e uno spruzzo di cognac sulla carne, una noce di burro e una lacrima di latte nella purea. Pochissimo…, si ripeteva distratta cincischiando il tubino nero che le aderiva alle curve prosperose, e strusciando sul parquet i piedi sottili calzati di ballerine di vernice.
    Si sentiva bella, pronta per un’occasione importante, ma il cellulare non dava segni di vita.
    Mancava meno di mezz’ora al rientro di Guido e l’apparecchietto sembrava provocarla con un’assoluta immobilità da scarabeo in letargo.
    Marco, l’altro, forse non aveva nessuna intenzione di chiamarla.
    Il panico le chiuse la gola.
    Così decise: ancora dieci secondi e avrebbe disattivato l’aggeggio infernale dimenticando quell’appuntamento che durava da un mese. Tutti i giorni tranne il sabato e la domenica, quando il marito era a casa.
    Quando il marito era a casa, lei aveva la sensazione di sdoppiarsi: la Rossana di Guido soggiaceva, stucchevole e solerte. La Rossana di Marco, acquattata in una piega della mente, soppesava quel suo clone codardo con vibrazioni da cacciatrice, disprezzandolo per i sorrisi, i riti, le ovvietà.
    Sminuzzava metodica nella tana il tempo che la separava dal lunedì.
    Come si sbriciola un pezzo di pane.
    Gli occhi colmi di disagio e nascosti sotto il velo delle palpebre.

    Marco tese d’impulso la mano verso il telefono dal contenitore trasparente, chiaro per la fosforescenza dei circuiti nell’ufficio conquistato dall’ombra della sera. A metà gesto si pentì. E la mossa si alterò scomponendosi in rapide fasi: un elusivo baluginare, un brusco indugio a mezz’aria, l’arretramento, il blocco. La macchia immobile della mano sul ripiano della scrivania sembrava dichiarare il proprio arbitrio. Gli ribadiva il dovere della presa di coscienza con la sua ostentata inerzia.
    Durò un po’ la stasi.
    Poi, repentinamente, le dita incominciarono a battere un loro alfabeto, trasmettendogli un messaggio: Cose da non farsi…, da non farsi…, da non farsi. E le sillabe, frutto senza dubbio di sovreccitazione, si combinavano in echi enigmatici. Lo inondavano di turbamento per la passione accesasi in lui quando, mentre Guido gli presentava Rossana, si era sentito rovistare fino in fondo all’anima dai suoi occhi di giada.
    Ogni sera era la stessa storia.
    All’uscita di Guido dall’azienda in cui entrambi lavoravano le telefonava e, nell’attesa del suo
Finalmente!, centellinava le emozioni, collocandole una per una nella casella giusta, accanto all’immagine giusta, in desideri fiammanti.
    I capelli fulvi di Rossana: una cascata di papaveri sopra il suo petto.
    Le labbra di Rossana: fichi maturi da mordere, succhiando umori speziati.
    La voce di Rossana: un’acqua ribollente sulla pelle.
    Il solo pensare alla sua voce gli dava una sorta di struggimento spossato, la preparazione necessaria all’ebbrezza sensuale che straripava nell’istante in cui lei, dopo tre squilli, gli rispondeva.
    Durante la giornata Marco inseguiva Guido in modo programmato. Gli stava alle costole per cercarvi un’impronta di Rossana, gli si avvicinava per evocarne la fragranza. Si figurava a far l’amore con lei. E stava male.
    Fino all’ora della telefonata.
    Dieci minuti dopo l’uscita di Guido.


    Nell’ufficio buio il telefono brilla a palpiti, annunciando un artificio erotico costruito solo di pulsioni astruse. Ma l’atto fisico dell’attirarsi, allacciarsi, unirsi da amanti insaziabili, può averlo? No. Rossana era stata chiara: non sarebbe riuscita a lasciare il marito e non voleva tradirlo. Marco deve accontentarsi di uno squallido sesso virtuale. Che non gli basta.
    Meglio chiudere!
    Tagliare di netto il legame.
    Cancellarne il tormento protratto ormai da un mese.
    Di giorno e di notte.


    (Uno schiocco e la luminescenza impudica dei circuiti si spegne.)

    Rossana sentì girare la chiave nella toppa.
    A occhi chiusi sentì girare la chiave nella toppa e il marito entrare nel grande atrio rigoglioso di piante, districarsi nella foresta casalinga di ficus, filodendri, orchidee, appoggiare la borsa da lavoro sulla sedia di lato alla porta, togliersi il cappotto e appenderlo nell’armadio dalle ante scorrevoli tappezzate di seta grezza color écru.
    Gesti calibrati ed eleganti.
    Nessun eccesso.
    Gradevole, senza affettazione alcuna.
    Capelli biondi. Di un biondo chiarissimo.
    Alto e slanciato.
    Taciturno.
    L’interesse era nato da un casuale scambio di parole durante una festa di fine inverno. Poi, negli appuntamenti successivi, Rossana lo aveva giudicato: gentile, tenero, rispettoso, molto cavaliere insomma: una persona d’altri tempi. Ne ammirava il candore apprezzando il trasporto con cui le si affidava.
    Iniziò a dire di essersene innamorata. Grazie al suo carattere, e inoltre perché - confessava all’amica più cara - possedeva altri pregi: una stimata famiglia d’origine, una buona cultura e l’atteggiamento sdegnoso di chi ha classe da vendere. Motivi, questi, sufficienti per un matrimonio, riteneva Rossana imbevuta di futilità convenzionali.
    E lo sposò.
    In quattro e quattr’otto.
    Con l’appoggio della madre e del padre bendisposti verso Guido: il compagno adatto alla loro umoralissima figlia. Ne avrebbe disciplinato la giovinezza focosa a picchi emotivi imprevedibili, assicurandole un decoroso domani nei migliori ambienti della città grazie al suo prestigio sociale e a un patrimonio florido. I giorni le sarebbero fluiti senza le sventatezze e i rimorsi tardivi cancellati dai velocissimi colpi di spugna suoi tipici. Tratti che l’età adulta avrebbe temperato, smussandone le spinosità.
    Questo le avevano prospettato i genitori a garanzia di un vivere secondo criterio. Questo aveva creduto lei fino a quel fatidico pomeriggio, quando, scrutando il collega che il marito le presentava, tese la mano e mormorò Rossana al suo energico Marco. Scossa da brividi come cuspidi elettriche. Perché, in una frazione di secondo e per incanto, si era sentita perdere in quegli sfrontati occhi scuri capaci di esorcizzare il malocchio zuccheroso in cui l’avevano invischiata la madre, il padre, Guido.

    I giorni a seguire furono dissestati da reazioni ambigue. Lei, troppo legata alle banali consuetudini per capire e scegliere, troppo debole per avere la forza di rompere schemi, era vissuta secondo cadenze altrui, lontanissime dalle sue. Negli occhi di Marco si era riconosciuta e ritrovata. L’essenza genuina adesso poteva trionfare, spazzare prepotente la polvere della sua quotidianità. Non era più il robot anestetizzato, drogato di perbenismo e incentivato con regali costosi, viaggi, vita mondana di una ripetitività stomachevole. Non avrebbe ulteriormente sopportato le ipocrisie del matrimonio a cui si era arresa.
    La sua diversità prorompeva.
    Il suo odore, per un processo di maturazione talmente intenso da darle il capogiro, denunciava uno scombussolio radicale. Si stava trasformando in una femmina primitiva, avida e focosa. E lei si inebriava del recente stato, come una lupa del suo calore. Il sangue le turbinava nelle vene con l’impeto di un fiume che non si adegua all’alveo artificiale, si ribella, travolge le dighe progettate ed erette dall’uomo.
    L’aspettava un’esperienza selvaggia.
    Attorno a lei c’era un mondo da esplorare in cui si sarebbe avventurata per intridersi di balsami e veleni.
    E non voleva altro, preda di un violento spasimo che si irradiava dalla bocca dello stomaco a conquistarla tutta.

    Cosa posso fare? si arrovellava Rossana servendo la cena. Un automa sorridente e oliato a dovere, la Rossana di Guido. Un fantasma contratto e smanioso, la Rossana di Marco. E Guido parlava, felice della festa a sorpresa, grato delle cure insperate.
    La lodava, le diceva: Ti amo, ti amo moltissimo, più della mia stessa vita.
    L’amava più della sua stessa vita.
    Parole insopportabili, esca per un effetto esplosivo. Le si ripercossero dentro fino a strapparle ogni percezione comune. E quando Guido si alzò, le si accostò e fece per abbracciarla, Rossana reagì con la ferocia di una belva aggredita. Sentiva il battito del cuore tempestarle contro il petto. La vera natura, sepolta sotto cumuli di scorie, tentava di scavare un varco per guadagnarsi l’aria.
    In un momento il passato fu raschiato via, la Rossana di Guido, rimossa. Al suo posto andava enucleandosi una creatura inesorabile.
    La nuova Rossana respinse Guido, scaraventandolo contro le ampie portefinestre. E mentre lui annaspava esterrefatto tra il vaporoso bisso che le schermava, abbrancò dalla credenza un antico scaldavivande a fornello e glielo gettò contro. Il liquido infiammabile fuoruscì in spruzzi e impregnò la camicia di Guido e i tendaggi.
    Per Rossana fu un segnale.
    Vorticando in una sorta di sabba allucinato, afferrò a una a una le numerose candele accese disseminate per la stanza e le scagliò sul combustibile versato. Intanto, piatti e bicchieri finivano a terra in schegge immonde di cibo.
    Le fiamme si appiccarono voraci. Attizzate da un soffio sovrumano, strisciarono con artigli blu-arancio sui muri intonacati a calce, sugli infissi di legno, sui mobili. Se ne impadronirono con un boato ruggente. Davanti a lei, stravolta dall’eccitazione, il fuoco esultò stringendo Guido in una trappola mortale.

    Rossana è oltre la sua stessa materia, in una galassia parallela dove tutto si può commettere senza restarne contaminati.
    Le finestre della casa sono occhi vermigli dalle ciglia dense d’ombra, le vampe sono capelli che ondeggiano in riccioli catramosi. E lei, in trance davanti allo spettacolo, va cantilenando ritornelli propiziatori mai osati. Si riscuote solo al tocco delle lingue ardenti che le leccano le ballerine di vernice, quasi a raccomandarle di andarsene dalla stanza in cui i mazzi di rose secche crepitano e gli ironici animali nelle incisioni acquerellate di William Beard si contorcono, sfarinandosi in cenere.
    Cenere: la sostanza giusta per il passato da ripudiare. Paradossale cenere fluida, in marea montante a coprire il nauseabondo odore di buono cesellatole addosso. A cancellare l’amore di un uomo che l’ama più della sua stessa vita e che ora, nell’occhio di una spirale scarlatta, si dibatte, incapace di salvarsi per il suo stesso stordimento.

    Si riscosse, dunque, e si precipitò in giardino.
    Planò sull’erba scricchiolante di gelo, si voltò a guardare il nucleo del barbaro olocausto – solo per una frazione di secondo –, ruotò su se stessa e incominciò a correre.
    L’itinerario del destino si snodava tortuoso.
    E lei lo seguiva.
    Tenebra al fondo della strada.
    L’ansimare del seno nella corsa e una pulsazione oscena che la penetrava invadendola tutta. Parossistica come un orgasmo.
    Una lingua vibrante le avrebbe dischiuso il futuro.
    Tra le labbra livide della notte.


mercoledì 23 febbraio 2022

Prosa / Il Bambinello delle Arpie (da "Davvero così").

 

Andrea del Sarto, La Madonna delle Arpie, 1517, Uffizi - Firenze.

    

    La cassetta della posta straripava. Alcune buste erano cadute a terra e portavano l'impronta sporca di varie scarpe. Nessuno dei coinquilini le aveva raccolte. Anzi! Chiara riusciva senza sforzo a immaginarne le facce schifate. Si vedeva la signora Cusmani biascicare tra sé e sé: Lettere per terra? Saranno senz'altro della pazza dell'attico. Uhm..., insozziamole per benino.
    Fanculo! mugugnò Chiara.
    Raccattò carte imbrattate e carte immacolate, le ficcò nella borsa e incominciò a salire le scale, rimuginando sui motivi di quell’atteggiamento. Eh sì, doveva ammetterlo: non ritirava la posta con regolarità. Se ne dimenticava per giorni. Dipendeva dagli impegni, dalle storie in cui era coinvolta. Il rapporto con Matteo l’aveva assorbita molto.
    Ma faceva del male forse?
    Rari rientri a tarda notte, un paio di piroette per sgranchirsi le gambe dopo ore e ore di lavoro a tavolino o al cavalletto, quattro cene tra amici…, doveva respirare, insomma! Se volevano la guerra, gliel’avrebbe dichiarata ben volentieri a quei rompicoglioni!   Figuriamoci se avessero dovuto sorbirsi qualcuna delle sue scapigliate mattane! Allora sì, che avrebbero avuto ragione di lagnarsi.
    Là, comunque, non era mai capitato.
    Eppure ci abitava da un po’.
    Erano in verità già passati sette mesi da quando il padre l’aveva trascinata a quell’appartamento in vendita in Via degli Olmi. Sapeva del desiderio di Chiara di vivere da sola e l’aveva accettato. Sembrava proprio la casa giusta per lei: un locale mansardato pieno di luce per due ampi lucernari e grandi vetrate sul parco della neoclassica Villa Ritter. Uno studio d’artista, non un alloggio tradizionale. Adatto a lei. Questo si comunicarono con un’occhiata eloquente al termine della visita.
    Poco dopo Chiara si era trasferita in Via degli Olmi con l’ingombrante bagaglio da pittrice e il minimo indispensabile di elementi d’arredo.
    Delimitata la zona notte con paraventi in midollino e bacchette di sambuco, srotolati sul pavimento dei tatami di paglia di riso e un futon, aveva affrescato il soffitto spiovente in diverse nuance di azzurro. A linee curve, come di flutti in corsa verso un sottile orizzonte turchese.
    Quel mare astratto era il fantastico spazio in cui rifugiarsi nei momenti di disagio o di stanchezza.
    Lasciando filtrare tra le ciglia il suo speciale cielo-mare, si librava leggera.


    Chiara entrò in casa davvero stizzita. Si sbarazzò subito delle scarpe e della borsa con un lancio alla cieca e si coricò sul futon – le lettere, le fatture, gli inviti sparsi a terra –. Intrecciò le mani sotto la testa, socchiuse gli occhi, si fece di cielo e di mare.

    Cielo e mare sopra di lei.
    Onde mutevoli sfumano in giochi languidi.
    Chiara segue il loro snodarsi.

    Nella caverna buia del sonno si accendono delle parvenze. A tratti spessi di sostanza alabastrina. Sono occhi quei baleni, sono guizzi di mani e di piedi minuscoli. Lampeggiano e spariscono. Finché la sensazione di dita sul viso la trae a forza dall’incoscienza, le guance calde per un’inspiegabile emozione.


    Aveva sognato un bimbo.
    Era il bimbo visto agli Uffizi neanche un mese prima. Da allora si sentiva diversa.
    Rammentava di essersi incantata davanti alla Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto.        Le era parso singolare quel titolo inciso sulla targhetta d’ottone accanto al dipinto, che non era un ricordo di Liceo o di Accademia. Ne era sicura. Da quando la faccia del Cristo infante in braccio alla Madre aveva polarizzato la sua attenzione, in lei si era guastato qualcosa. Le si era inceppato l’ingranaggio della serenità. E i dettagli ritornavano con precisione millimetrica. La veste policroma di Maria, il corpo seminudo del figlio, l’oscurità smaltata della nicchia, i Santi e gli Angeli sullo sfondo, i volti, il concentrarsi dei gesti in fulcri prospettici, ogni particolare le riappariva.
    E il bambino la perseguitava con lo splendore sovrumano degli occhi e il candido incarnato.
    La perseguitava notte dopo notte.
    Adesso però sapeva!
    Era il Bambinello delle Arpie, l’esserino del sogno. Poteva cercare di capirne il senso, decise Chiara passandosi una mano sul volto. Volle alzarsi ma la stanza le vorticò attorno.     Ricadde e chiuse gli occhi sul mondo oscillante.
    Un sopore greve la invase.


    Al risveglio, nello sfolgorio del tardo mattino, Chiara balzò subito in piedi e si mise al lavoro, tentando di ignorare una persistente nausea. Esaminò i bozzetti di una serie di acquerelli paesaggistici commissionati dalla Galleria Corsini, li giudicò buoni e decise che era giunto il momento di iniziarne la realizzazione sui grandi fogli di carta di seta preparati per accoglierli.
    Questo nelle intenzioni.
    In realtà, invece, prese il blocco degli schizzi e iniziò a tracciarvi disegni astrusi con la matita sanguigna. Non di cespugli, fiori, rovine, laghetti tra ortensie e azalee, muri scrostati ed edere, finestre spalancate su cascate di petunie, ma di mani gracili e adunche, braccia ossute, schiene distorte, costati scheletrici, spallucce aguzze, guance smunte, occhiaie enormi.
    Occhiaie come voragini che la inghiottivano.
    Lasciò cadere la matita.
    Cosa significava quell’impotenza?
    Aveva già organizzato tutto.
    Sul tavolo aspettavano i bicchieri per l’acqua, le vaschette di ceramica, i pennelli vecchi e nuovi, i godet selezionati per tinte. Il progetto era sotto i suoi occhi. In bella vista su un leggio antico, dono della madre.
    1° acquerello: Villa Ritter e il parco.
    Colori da usare: rosso indiano, garanza rosa d’alizarina, garanza bruna d’alizarina, terra di Siena naturale e bruciata, verde vescica, blu cobalto, grigio di Payne, ocra gialla, giallo di cadmio.
    Un sistema pedante ma collaudato. Se l’era imposto per darsi un ordine. Salvo poi derogarvi sul filo di un estro fulmineo. Perché l’arte, spiegava Chiara, nasce se con un sussulto, travalica i confini di una pignoleria smodata. Sta nel sollievo dell’ispirazione che si libera.
    La commissione firmata da Corsini: … dodici acquerelli a soggetto paesaggistico…, era da qualche parte sotto scatole e oggetti disparati, rassicurante e vera. L’occasione della vita, non se la sarebbe sciupata. Il grande gallerista, non la vorrà una seconda volta. Lo conosceva: o ci sei lì per lì, o ti trovi escluso.
    E allora, cosa le capitava? Come mai era capace di creare solo mostruose alterazioni del Bambinello celeste? Dove si era eclissata la sua spensieratezza? E l’energia che l’aveva salvata dallo sconforto nelle situazioni più critiche?
    Si chiude la testa tra le mani e incomincia a piangere. Un dolore acuto le migra dal petto verso il ventre, vi si annida. Pulsazioni intense la fanno piegare su se stessa. Le gambe non la reggono. Crolla sulle ginocchia e si raggomitola, le mani incuneate nel ventre, a scavarlo.
    Poi scivola nel nulla.


    Il ritorno alla coscienza è nel livore al neon di una camera d’ospedale. Accanto a lei, il padre. Lo interroga con un cenno. Hai avuto un aborto spontaneo, le racconta piano. Ti ho trovata stamattina, verso le undici. Per un presentimento mi ero precipitato a casa tua. Ho bussato e ribussato alla porta senza ricevere risposta. Dieci minuti di panico. Dovevi esserci, me l’avevi assicurato, non saresti uscita. Eri carica di lavoro. Spaventato dal silenzio, ho pregato il custode di aprire con la sua chiave. Siamo arrivati appena in tempo. I medici hanno bloccato l’emorragia. Riposa adesso, tesoro.
    Chiara ha l’impressione di contrarsi in un nodo. Infetto. Sotto la sferza della disperazione mugola e lo colpisce, quel nodo nel grembo sfiorito.
    E l’intelligenza di quanto è stato si fa delirio. Suo figlio aveva reclamato la vita e lei gliel’aveva rifiutata. Matteo era fuggito. Inseguiva le sue, di chimere, lui. Oltreoceano, con numeri e cifre, master in economia e stage in prestigiose aziende.
    Traguardi magnifici!
    Ma non per lei.
Lei voleva una famiglia, dei figli, amare ed essere amata. Confessandolo a Matteo, aveva compreso subito l’errore. Terreo, indurito nella voce, le aveva detto di non molestarlo. Lui aveva altro per la testa. Cose molto importanti. Il futuro. Senza di lei.
    Lo afferrava?
    Senza di te! aveva urlato.


    L’ultimo colloquio con Matteo.
    Circa un mese e mezzo fa, realizza Chiara.
    Lo aveva terrorizzato.
    E costretto a scappare.
    Quanto male si era fatta nei giorni successivi passati a macerarsi! Tanto da uccidere suo figlio. Da negargli la vita appena abbozzata.
    Chiusa in stupide banalità, non si accorgeva di essere al centro di un prodigio. E suo figlio, un tenero germoglio sano, era morto di ottusa indifferenza.
    Di ottusa indifferenza.
    Impossibile ricorrere al riparo ormai inospitale del cuore. Pareva pompare acido al posto del sangue.
    Che senso aveva respirare ancora?
    Doveva morire.
    Di una morte in dedica alla creatura che l’aveva chiamata da distanze incommensurabili.
    Forte di quella scelta, si volge al padre.
    E vede la pena degli occhi un tempo cerulei, sbiancati laghi di ghiacciaio adesso. Considera la sua tristezza dalla scomparsa della mamma, ma contenuta per non turbare lei, Chiara, unico affetto rimastogli. In lui parla l’Amore. Malgrado le ferite. Mai un’espressione indocile. Solo le mani, spesso premute giù nelle tasche o chiuse a pugno dietro la schiena, denunciano un’inquietudine rodente.
    Può ignorarlo come ha ignorato suo figlio?
    Tocca a lei sciogliere il cappio di quel patire.


    Così, si legò alla speranza del padre, la inalò per cercarne il profumo, se la fece rotolare dentro con i colori della sua tavolozza, diede forma a un sorriso e disse:
    Non avere paura, papà, continuerò a vivere.

lunedì 14 febbraio 2022

Prosa / Il ritorno (da "Davvero così").


Fotografia di kissearth (Pixabay).


    Premessa
    Un uomo cammina adagio lungo la strada maestra per il paese di R****, sorto in epoche lontane attorno a un modesto castelliere di passo ed estesosi poi, tra erosi massi bianchi, fino ai prati dell’altipiano omonimo.
    Sta per arrivare.
    Là, dopo la curva dai cigli a roveti, c’è la dimora di nascita, in cui ha trascorso una scanzonata fanciullezza da figlio unico, futuro erede di un nome illustre e di un’imponente fortuna, e dove, per uno scarto del destino, è rovinato in un’incrinatura insondabile.
    Qualche centinaio di passi ancora ed entrerà nel parco secolare.
    In sprazzi di lucidità crescente lo ricorda misto di essenze arboree autoctone come le querce, i faggi, i carpini; e piantate dall’uomo con cura irrispettosa dell’habitat originale come i cedri del Libano, gli olivi, le palme.
    Entrerà e prenderà il sentiero di sinistra dopo il cancello, taglierà per la boscaglia di ruschi, e si fermerà davanti alla grotta chiusa dall’inferriata ad arzigogoli pomposi rivista, da quando se n’è andato, solo nei sogni frenetici in cui talvolta scivola malgrado la scelta irremovibile di veglia. Appena la sfinitezza gli appesantisce le palpebre, essa appare in infinite varianti: accesa dal riverbero del tramonto, baluginante nell’argento soffuso di una notte di luna, umida per le piogge autunnali, brinata di gelo, infuocata alla calura di agosto, ingentilita dai teneri tralci di viti ed edere in primavera.
    Si materializza sospesa in coordinate fantastiche. Il prodigioso varco verso un mondo buono e gradevole. Consolante.
     

    Da che luogo viene?
    Da una subdimensione chiamata con una parola semplice e assieme minacciosa, quanto il supplizio che evoca.
    Manicomio.
    Questa è la parola.
    Melodiosa alla pronuncia, con una sola durezza al centro: “c”. Un carattere dalla foggia grafica di cerchio interrotto. Ossia cerchio imperfetto.
    Un microcosmo ostile, in cui la voragine delle allucinazioni ha la consistenza azzurra del volto di una donna dal profilo di nuvola.
    O verde come la campagna vietata oltre le sbarre delle finestre.
    O nera come la mano di chi scava e scava per ritrovare la figlia custodita nel cuore della terra.
    Ha il raro sorriso dell’infermiera e l’espressione tronfia del medico piegato su di te a sperimentare l’efficacia terapeutica di oblii artificiali.
    Bramoso di capire.
    Capire…, cosa capire?
    Che tu sei là per uno schianto del tuo passato.
    Che tutto vorresti fuorché trovarti là, oppure che tutto vuoi fuorché non essere là.
    Che ci sei arrivato con le dita insanguinate per lo spasmodico aggrapparti. Con le palpebre cucite per poter vedere solo le tue visioni. Con le labbra sigillate per parlare solo ai tuoi fantasmi così veri da farci l’amore. Notte dopo notte, tra estasi e ribrezzo. E gridare, poi, e ridere, e piangere esausto nel tuo letto solitario.
    Il Manicomio è la Grande Casa traboccante di occhi dilatati sulle tue nudità.
    È Terra promessa e sepolcro.
    Finché…, finché non decidono per te.
    Magari dopo una vita.
    Dimenticata vita di cui ha buttato via la chiave chi doveva amarti.
    Decidono per te e ti dichiarano dimesso.
    Non guarito dalle tue vertigini funeste, ma dimesso perché abbastanza calmo, socievole, non più turbato da parvenze femminili, grotte, cancellate di metallo, sorgenti dalle acque millenarie.
    Pressoché disciplinato, pare.
    Manicomio: un bagliore su lembi di verità e un volo a precipizio nel buio di abissi personali.
    Te lo porti dentro, con la sua “c” mediana dalla coda acuminata infissa nell’anima.

    L’uomo della storia, Stefano, viene da un posto come quello.


    La storia

    Stefano sta per arrivare al fondo della strada.
    Percorre l’ultimo tratto frenando l’impazienza.
    Non manca molto, alla meta.
    Centellinando i particolari, se la figura con l’aspetto di un tempo. Visualizza il costone roccioso affacciato sul pianoro, la grotta scavata nel suo fianco dallo stillare dell’acqua in milioni di anni, l’ampollosa cancellata a chiusura.
    Il ritorno deve essere una liturgia solenne.
    Ripassa dunque, tra sé e sé, la serie dei gesti da compiere con ordine meticoloso: insinuare le mani nell’intrico di tralci d’edera e vite, appoggiarle sul ferro scalfito dal tempo, seguirne i contorni, indugiare sulle volute, sulle sagome stilizzate delle rose ornamentali per esporne le ferite e annullarvi le proprie.
    Niente può fermarlo.
    Niente e nessuno.
    L’esorcismo della lontananza si è sgretolato giorno dopo giorno scalando il Calvario dell’alienazione, un fiato alla volta verso l’ineluttabile in attesa laggiù, alla fine dell’itinerario già tracciato. Ha pagato il suo debito con l’orrore di polsi e fianchi inchiodati a un letto, lottando contro angeli blasfemi che gli accarezzavano il sesso.
    Il bagno di purificazione da colpe e rimorsi è avvenuto nel Padrenostro ostile della Grande Casa.
    Amen.

    Diletta si muove diafana nell’universo opaco della grotta, dove i ricordi si sovrappongono alle fantasie.
    Sono rimasta com’ero e forse lui non mi vorrà, mormora incredula del sussulto avvertito in sé alla notizia del suo ritorno. Gliel’ha annunciato la fonte perenne al centro della grotta. Con voce squillante le ha descritto il peregrinare di Stefano: i viottoli affrontati palmo a palmo, le soste sotto alberi frondosi o in ricoveri precari, le marce forzate e l’ultima tappa nel paese vicino. Parlava, parlava la fonte, a scrosci, a zampilli; poi taceva, acquietandosi nel lago improvvisamente fermo del suo specchio, riflettendo la luce degli occhi eterni della fanciulla. E lei splendeva, sorpresa della magia.
    Tra poco entrerà, sussurra Diletta ravviandosi i capelli con le mani d’avorio. Tra poco entrerà e io potrò alleviargli le pene, sospira vibrando di battiti traslucidi come ali di libellula in volo.


    Stefano procede incurante della temperatura torrida, pronto a indagare ogni dettaglio del paesaggio circostante per carpirne i messaggi.
    Sempre che la memoria non lo inganni, la strada gli sembra uguale, con le stesse buche polverose e gli stessi gelsi a indicare l’accesso alla villa, trascurata da molto per la morte di chi se l’era comperata dai suoi genitori in fuga sia dalla nevrosi del figlio (oh, se sconveniente! troppo inelegante!), sia dalle battaglie affettive da sostenere. Con un cospicuo lascito e un tutore di provata onestà avevano assicurato il futuro materiale di Stefano, dileguandosi verso un altrove insignificante per lui che rifiutava caparbio il cosiddetto normale. L’antica casa di nascita era ormai preda solo delle bizze stagionali. Nel congedo gliel’avevano rivelato medici e infermieri – raccomandando di non ritornarvi, per evitare ricadute – e Stefano ne aveva tratto un conforto tale da sentirsi felice.
    E felice lo è anche adesso alla vista del fossato in cui spariva per la caccia alle lucertole durante la stagione arida o navigava da prode Capitan Achab dopo le piogge di settembre. Tanto felice da voler protrarre quell’osservazione minuziosa. Così, indugia sulle crepe del muretto di cinta e sulle colonnine di mattoni calcinati dal bollore estivo per poi rivolgere lo sguardo alle curve avare delle colline stagliate contro il colossale scenario dei monti.
    Le colline. Un tempo credeva di poterle toccare se solo avesse steso una mano.
    Tutto come allora…, considera Stefano, ritrovando intatto in sé l’itinerario da seguire fino alla grotta: difilato tra i bossi piuttosto radi ai lati dell’entrata principale, a sinistra giù per il viottolo degli allori, dopo la macchia estesa dei noccioli, delle querce, oltre il rusco spinoso, al di là del primo avvallamento verso il limite occidentale della proprietà costellato di poderosi macigni alluvionali in caotica coreografia. Resti di un gioco a dadi di giganti. Avanza veloce Stefano, ed eccola, la grotta! Le è davanti mentre il cielo sbiadisce per l’afa e i pampini delle edere e delle viti, in intricato viluppo, fibrillano un saluto. Spinge le dita nella coltre spessa e allarga un’apertura sull’interno. Gli arabeschi rugginosi della cancellata intarsiano l’aria cupa come lettere di un racconto gotico. La D di D’Arcois (il suo casato), riemerge dal groviglio di rami e foglie. Può fungere da passaggio, abbastanza larga e comoda com’è, cedevole senz’altro per la corrosione.
    Stefano, però, vuole riportarla completamente alla luce, la cancellata.
    Nell’ultimo periodo di degenza al Manicomio, colmo di una nuova pacatezza, ha osato immaginare il momento e si è preparato.
    Depone a terra lo zaino, lo apre e ne leva a uno a uno dei sacchetti di velluto bianco, scelti con il rigore di un’ossessione salvifica tra gli oggetti prodotti da mani compagne nei laboratori della Grande Casa: alcuni piccoli, altri medi, uno grande. Ne slaccia i nodi, ne estrae degli utensili che dispone sul suolo secco: seghetti, cesoie e una scure. Semplici arnesi comperati durante il pellegrinaggio a ritroso e votati alla religione ingenua dei loro contenitori.
    Il lavoro può iniziare.
    Stefano recide e strappa, colpisce con l’accetta i tronchi dell’edera, delle viti. Libera a poco a poco l’inferriata, ignaro ancora dei simulacri nascosti dietro i suoi ghirigori barocchi.
    Al blando calare della sera l’accesso è praticamente sgombro. È ora di riposare sotto l’enorme luna color crema di latte elargita dal cielo. Una cena frugale di pane e frutta, lo zaino per cuscino, si rannicchia ai piedi di una quercia centenaria tra le radici affioranti dal terreno a forma di culla.
    Per la prima volta da quando ha lasciato quei luoghi e le loro larve, dorme un sonno placido.


    Diletta attende trepida che lui la raggiunga. Lo attende dall’ultimo gioco di ombre cinesi.
    Quanti anni aveva?
    Dodici?
    Sì, dodici teneri anni.
    E da quanti non vede Stefano?
    Oh, questo non lo sa, ma non ha importanza, conta il ritrovarlo e fargli capire di essere tornato nel luogo giusto. Finito il viaggio, sei a casa, bisbiglia preavvertendo lo scalpiccio dei suoi passi al di qua della soglia.


    È l’alba.
    Stefano si è svegliato al suo incedere rosa e ha finito di ripulire l’inferriata dall’esuberanza vegetale. Regolato il disordine, può disserrare lo scrigno dove, forse, si trova la risposta della sua ricerca. Tra un attimo ne violerà il segreto. Uno strattone alla catena agganciata alle grandi lettere dei cancelli e sarà dentro la grotta, sceso in se stesso e nel sogno a cui Diletta l’ha chiamato dal cuore di un vortice di acque insondabili, la mano tesa in un invito.


    Ecco il glicine e il giallo dell’aurora, la grotta è un caleidoscopio di colori. Diletta danza attorno a Stefano che entra.
    Come sei cambiato! si stupisce fasciandolo nella nube della chioma, toccandogli fugacemente il volto pallido e incavato, i capelli incanutiti, gli occhi tetri più degli angoli inaccessibili della grotta.
    Qui invece è tutto identico, gli dice in un soffio.
    Per te ho continuato a fantasticare sulla nostra storia e ti chiamavo. Ti ho chiamato da subito, triste perché non eri con me e non capivo. Io ricordavo solo il tuo nome e il nostro stare insieme.
    Diletta ha un fremito, abbassa il capo smarrita in una visione angosciosa. È un istante. Si riscuote e riprende a parlare: Ma il filo dell’amore che ci univa non si è mai spezzato. Ora tu sei qui e mi vedrai. In questo tempo dell’attesa ho intrecciato i nostri destini, simili a sottili ma tenaci tele di ragno. Tenaci
oltre la morte. E tu lo sai, Stefano. Fra poco rivivremo come ombre cinesi.

    Stefano è nella grotta. Sente una voce dagli accenti familiari. Le sensazioni si accumulano. La ragione vacilla. Si snodano sulle rocce frammenti dell’acerba adolescenza.
    Vede quanto ha rifiutato per anni di correlare al suo vissuto: una ragazza dai capelli nerissimi, un ragazzo esuberante, le corse al nascere del sole estivo balzando in tumulto dai propri letti, gettandosi a perdifiato fuori di casa per essere, all’apparire dei primi raggi, già nella grotta e inscenarvi il gioco delle ombre cinesi.
    Vede lei saltare sollevando con le braccia la mantellina di garza trapuntata di fiordalisi, agitarla in controluce a mo’ di graziosissima farfalla, atterrare sui sassi viscidi al bordo della polla, sdrucciolare, battere la testa, rimanere supina nell’acqua.
    Nell’acqua rossa di sangue.
    Lei, Diletta, involarsi per sempre.
    Lui, Stefano, assistere impotente.
    E quel dolore…, che lo subissa a ondate, che lo invade stravolgendolo ancora.

    Il dramma si è compiuto per la seconda volta.
    In un regresso inevitabile il cerchio si è serrato.
    Il pianto di Stefano si mescola al mormorio dell’acqua. I suoi singulti sono cuspidi di consapevolezza nel riaffiorare pieno della coscienza. Esili sembianti scaturiscono dai recessi delle rocce. Non definiti ma liquidi. Baluginano simulando alterazioni prodigiose. Creatura eterea in armonia con il miracolo dell’amore oltre la morte, lei rinasce.
    Stefano, al centro della grotta, respira veloce, quasi a per inalarne l’essenza dall’aria satura di particelle dorate. Non scorrono più lacrime sulle sue guance.
    Sorride.
    Adesso sa: quel viaggio convulso aveva lo scopo di ricongiungerlo a Diletta in un vertice di perfezione.
    Stefano abbassa gli occhi sulla fonte e la vede.
    Diletta si muove verso di lui.
    Le sue labbra compitano un messaggio che gli si propaga nel cuore come un’eco.
    Lo invita a guardarsi attorno.
    E Stefano guarda.
    La grotta sfolgora di miraggi che si fanno concretezza: la villa con la loggia al primo piano carica di rose rampicanti, gli allori, la macchia di noccioli e querce, il sentiero ben segnato, le palme, i prati, le rocce dei Giganti, i monti cinerini, la cancellata, le edere e le viti potate di fresco, la grotta. E proprio davanti alla grotta due ragazzi si incontrano, si abbracciano, posano la testa l’uno sulla spalla dell’altro, stanno per un po’ abbandonati al senso ritrovato dei loro corpi, si prendono per mano e ne varcano la soglia.


    Epilogo

    Dicono gli alberi, stormendo complici, che la fonte tacque e un silenzio sovrumano invase la grotta.
    Mentre il sole conquistava le vette del cielo, le sue pareti rimpietrarono assieme alla storia.
    Ormai non c’era più nulla da narrare.
    Stefano era entrato nel sogno.
    E aggiungono gli alberi, piegando rami e scrollando fronde di quel tanto sufficiente a parlottare in gran riserbo, aggiungono che qualsiasi risveglio gli sarà dolce.
    Finalmente dolce.

lunedì 7 febbraio 2022

Prosa: Le rose rosse (da "Davvero così").


Fotografia di akirEVarga (Pixabay).

    Caterina uscì di casa nello splendore purissimo del pomeriggio. Ottobre sfoggiava una giornata ancora mite, così lei aveva deciso di approfittarne. Come di consueto, se la luminosità oltre i vetri era quasi sfrontata per l’aria tersa in cui si rivelavano netti i profili delle cose. Tale e quale il suo carattere, affermava chi la conosceva in modo generico giudicandola estroversa, passionale; dall’impronta energica e travolgente insomma. Chi invece – e non molti in verità – lo aveva colto appieno, sapeva quanto più vicino fosse al bello misurato dell’autunno che agli eccessi dell’estate. Caterina amava la luce, ben consapevole comunque delle seduzioni dell’ombra, e attenta alle insidie rischiose in cui poteva incappare nel caso si abbandonasse impulsiva al suo richiamo. Non la ignorava, l’ombra, la teneva in disparte, relegata in una zona marginale della mente, per limitarne le incursioni ai casi seri della vita: malattie, morte delle persone care…, quelli erano eventi tipici dell’ombra. Il resto, lo registrava sotto l’etichetta delle quisquilie, degli imprevisti senza peso, ininfluenti per un cielo d’ottobre graffito dai fiori di panna delle nubi e dai fili elettrici con sopra gli storni in ordinate schiere.
    Caterina uscì di casa come un refolo di bora, presa da un’incontenibile smania di fare shopping in centro. Avrebbe intaccato i suoi scarsi risparmi per comperarsi qualcosa da abbinare con la gonna nera in crêpe de chine donatale di recente dalla mamma.
    Era a pieghe e mini.
    Lei adorava lo stile mini.
    Il corto, d’altronde, si addiceva alle sue lunghe gambe da puledra. Glielo ripetevano di continuo gli ammiratori che la assediavano a frotte.
   Con passo sostenuto, a testa alta, indifferente all’attrazione che provocava, si diresse verso la boutique di Lisa, un’amica d’infanzia. Durante il tragitto si lasciò affascinare dalle costruzioni storiche della città, di stile neoclassico ed eclettico: entità affabili, geni domestici a custodia di ampi viali ombreggiati da frondosi platani. Ogni tanto si ravviava i capelli con le mani. Le dita passavano veloci tra le ciocche scure, irrequiete come i pensieri che correvano alle prove da tenersi al Conservatorio per il concerto dell’indomani, e alla cena nel minuscolo appartamento di Giulio, il suo ragazzo.
    Giulio: accanto a lei da tre anni.
    Le guance le si imporporarono, sorrise, lo pronunciò, quel nome, sommessamente, e affrettò il passo sospinta dall’eco del cuore. Era bellissimo scandirne le sillabe. Tra le braccia protettive di Giulio si sarebbe rilassata, dimenticando le contrarietà. Compreso l’improrogabile rientro a casa, sebbene tardissimo, per non angustiare la madre, gufo all’erta finché non sentiva la chiave girare nella toppa. Meno apprensiva però, da quando Giulio le si era presentato con l’usuale espressione accattivante e delle gardenie in mano. Un drin alla porta ed eccolo là, per nulla imbarazzato davanti a lei di colpo in lacrime perché sbalzata in un altro tempo, restituita a un uomo generoso di fiori e coccole andato via per sempre. La spontaneità del gesto aveva fatto nascere tra la mamma e Giulio un’intesa. Perciò, sapendo dove finivano le giornate di Caterina, lei smise di protestare. Contenti voi! esclamava, forse gelosa; e aggiungeva petulante: Perché non vi sposate? Bella domanda! battibeccava in disappunto Caterina. Siamo troppo giovani.
    Frenando l’irruenza, entrò nel negozio dalle pareti a specchi e dal soffitto madreperlaceo: un caleidoscopio di venature cangianti. Il sole si posava sui mobili di plexiglas in punti iridati. Abbagliata da quel luccicore non si accorse dell’apparire dell’amica dal suo ufficio sul retro. Lisa le si accostò di sorpresa salutandola con effusione. Baci, qualche chiacchiera, e il tuffo nel minimalismo dei capi d’abbigliamento – o grigi o neri – sparsi per l’ambiente e alternati a fasci di rose rosse in grandi vasi trasparenti. Una sottolineatura tragica all’essenzialità dell’arredo giostrato sul tema della luce rifratta. Caterina osservò l’intrecciarsi degli steli nell’acqua e l’effetto del contrasto cromatico. Rivolse poi l’attenzione agli indumenti esposti, ne esaminò le rifiniture, il taglio, ne scartò alcuni, altri li portò nella cabina di prova.
    Alla fine la scelta cadde su un tubino in jersey di lana impreziosito da fili di seta.
    Era di sicuro adatto all’atmosfera formale del concerto. E poi le piaceva davvero. La gonna in crêpe de chine le sarebbe andata bene per un'altra occasione.
    Doveva acquistarlo, dunque.
   Azzerando magari l’esiguo capitale su cui poteva contare, frutto di uggiosissime ore di lezioni ad alunni disinteressati. Ore strappate all’intima letizia che la pervadeva quando studiava sul suo Steinway: regalo del padre per il quinto compleanno.
    Lo indossò, quell’abito raffinato, e si pavoneggiò un poco, con civetteria.
    Sei splendida, le disse Lisa. Il nero ti dona, e il modello così fasciante valorizza la tua invidiabile silhouette.
    Mentre si osservava moltiplicata negli specchi, Caterina ebbe una specie di mancamento che la proiettò al di fuori di sé e la rese spettatrice di una scena straordinaria. Molte figure fluide affioravano dalle pareti di vetro, sottraendosi con fatica al materiale viscoso, si piegavano tutte verso il centro della sala, protendevano le mani e le congiungevano sopra un corpo riverso a terra.
    Il corpo a terra era il suo.
    Esanime e ricoperto da una profusione di rose.
    Rose rosse.

Faville fulgide nel cristallo immobile del tempo.
Nel cristallo immobile del tempo
Caterina guarda.
Dolore nelle membra di nuvola.
Un grido nella gola.
La fiaccola fioca del respiro.
La fatica dello strappo.
Caterina è coda di cometa
che fende spazi siderali.

    Fu un attimo. Con un fremito delle folte ciglia si riscosse, schiuse la bocca in un sospiro e il gelo dileguò. Dopo l’intermittenza impercettibile il mondo riprese a brillare e l’episodio inusitato divenne una piega irrisoria nella lucentezza del pomeriggio ammiccante dall’esterno.
    Un tè verde, brevi accenni ai progetti e alle speranze sul suo futuro, e poi via, Caterina fu nel sole, nell’atmosfera maestosa di Viale Michelstaedter che portava alle rive e a Piazza Stringher: un grande anfiteatro aperto sulla marina. La sua preferita tra le numerose della città.
    Lei la paragonava a un salone per le feste dal soffitto di cielo e dalle pareti a vetrate. Squarci indiscreti sull’aria velata di fumo dei caffè dove si respirava ancora una speciale aria mitteleuropea tra fragranze di torte Sacher e cappuccini con la panna.
    Talvolta la percepiva come un’opulenta orchidea dai petali di pietra bianca. Quando vi arrivava in passeggiata con il padre, ammirava le guglie svettanti delle due torri del Municipio di fronte al mare, e il corteggio laterale delle facciate dei palazzi, ricche di grazia scontrosa nel loro intervallare fregi a intaglio e tarsie geometriche di marmi levigati. Il Caffè degli Specchi, poi, l’aveva attirata, da ragazzina curiosa qual era, per la presenza costante di anziane signore, sedute all’aperto nella buona stagione; al chiuso, attorno ai tavolini di ferro dal ripiano di alabastro, con i primi rigori dell’autunno. Ne osservava il vestiario démodé, gli immancabili cappellini, le pettinature a ricci laccati e l’abbondante corredo di gioielli dalla foggia ottocentesca. Persino il loro cicaleccio assordante la deliziava. Si chiedeva divertita come potessero leggere il giornale, parlare in coro e magari anche capirsi in quella baraonda.

    Questi i ricordi di Caterina mentre si avvicinava alla meta, prefigurandosi il magnifico apparato che le si sarebbe offerto.

    Approdò trafelata in Piazza Stringher da una viuzza laterale al Municipio, la attraversò tutta, si fermò, voltò le spalle ai moli imponenti, alla distesa di onde, e ne contemplò la bellezza. Spalancò le braccia a cingerla, e le si sciorinò dentro una musica singolare. Le dita frullavano in arpeggi di vento. Chiuse gli occhi e sentì gli accordi evocati dal suo tocco lieve sulle lesene, sui capitelli, sui frontoni. S’insinuò tra le colonnine delle balconate, nel cuore sontuoso degli edifici, armonicamente rapita in una vertigine sonora.
    Da quella magica astrazione si staccava sempre con affanno. Era difficile abbandonare la pura brezza della melodia interiore, le sue note fantasiose.
    Bisognava però ridursi alla realtà.
    L’aspettavano le prove al Conservatorio.
    Si infilò sotto il portico del Municipio avviandosi verso il vecchio ghetto per strade in cui il sole entrava di rado. I suoi raggi rifulsero fulminei in un addio e furono fagocitati dalla cappa muscosa di quegli anfratti. Accelerò il passo perché si accorse del ritardo. Distolta – come al solito – dai giochi dell’immaginazione, aveva dimenticato l’impegno incombente. Si rammentò di una scorciatoia imboccata spesso con il padre quando, da piccola, lui la accompagnava a lezione e si perdevano nelle finezze architettoniche della città, incuranti dei minuti in galoppo sfrenato. Avrebbe evitato l’interminabile giro del quartiere ebraico e, di conseguenza, i rimproveri del Direttore, ottimo uomo ma brontolone.
    Si avviò di lena, riflettendo sulla morte del padre.
  Visioni penose le si affoltarono nella memoria, ricomposero il commiato e lo strazio sofferto. Ripensò ai giorni estremi, a come lui alzava a stento dal guanciale la testa smagrita, ai bigliettini – preparati con buon anticipo – che dopo aveva scoperto per caso. Bigliettini azzurri, con proverbi, auguri, caricature d’animali. Viatici per il suo ritorno al mondo. Se non altro a quello di un’elementare socializzazione, non certo a quello dei rapporti stretti e, tantomeno, a quello della musica. Aveva infatti evitato gli amici, frequentato saltuariamente la scuola, rinunciato allo studio del pianoforte.
    Perso lui, l’amato papi che le donava una rosa rossa alla fine di ogni esibizione, al diavolo tutto! sbottava triste quando qualcuno cercava di consolarla.
   Aveva poi capito quanto male si facesse e quanto ne facesse a lui, che si trovava in un ipotetico luogo astrale da cui la vedeva. Un luogo non captabile dai sensi, ma vicino, oh se vicino! usava dire. Era così ritornata agli autori dell’anima: Chopin e Schumann. E nel momento stesso in cui, per la prima volta dalla morte del padre, si era seduta sullo sgabello davanti al suo Steinway gran coda, assumendo con devozione la corretta postura della schiena, nel preciso momento in cui aveva riappoggiato le dita sui tasti d’ebano e d’avorio, se l’era rivisto a fianco. Un angelo custode bonario e accondiscendente.

    Con questa ridda di ricordi addosso in risacca impetuosa, entrò nel vicolo e ne affrontò i primi metri tra case cieche.
    Non un fruscio interrompeva il denso silenzio.
    Neanche i passi risuonavano sullo scabro selciato.
   Ebbe un’esitazione, si bloccò confusa, ma riprese subito ad avanzare trattenendo il respiro. Una forza inconsueta tuttavia risucchiava indietro qualsiasi slancio, e più tentava di procedere, più gli arti si impacciavano. L’alito delle concrezioni di muffa le invase narici e bocca intorpidendole la lingua.
    Si fermò.
    Le gambe non le obbedivano.
    Allora, priva di qualsiasi autocontrollo, si sentì arretrare, sollevare negli ultimi metri, come se una mano vigorosa la volesse salva dalla dimensione d’ombra in cui si era immersa. Si arrese alla strana foga che la trascinava, fino a trovarsi fuori da quel buco stretto, nel sole ancora radioso.
    Due episodi inspiegabili in un giorno, considerò tra sé e sé. Agitò la chioma bruna socchiudendo gli occhi, e proseguì.

    La mattina dopo, a colazione, sulla prima pagina del quotidiano locale lesse la notizia di una giovane donna straziata a coltellate nel Vicolo del Cormòr.
    ( Il Vicolo del Cormòr? Il “suo” Vicolo! )
    Il sangue era schizzato copioso dalle ferite e si era rappreso sopra e intorno al corpo in orribili fiori di morte.
    Caterina legge la notizia. Lo sguardo le si fa vitreo, le membra fredde. Sensibili però a presenze evanescenti che le sfiorano il volto, i capelli, l’incavo del collo e scendono fino al seno, al ventre.
    Premono il seno e il ventre con dita di rugiada.
    La accarezzano tessendo un bozzolo di trame inconsistenti e tenaci.
    Caterina ansima, in gola un groppo amaro e nelle orecchie il battito rullante del suo cuore vivo.
    Un frutto spaccato, il suo cuore vivo, una melagrana che rovescia rubini dalla ferita.
    Incapsulata nel pulsare dentro il petto, Caterina brancica senza meta per un territorio misterioso.
    Né cielo né terra né orizzonti attorno a lei.
    Solo sporca bruma.
    D’un tratto, però, il buio inizia a disgregarsi, si scuote, sussulta, e lei raccoglie un ticchettare..., ma non d’orologio.
    No...
    È il crepitio volubile di una vibrazione che nasce da fulgori in graduale progresso.
    È l’alba che tripudia sul nero della notte.

Mentre nell’aria dilaga
un’intensa fragranza di rose.
Di rose rosse.

lunedì 5 aprile 2021

Prosa / Adela e lo specchio (da "Davvero così").


Irene Navarra, La finzione e il suo riflesso, Disegno grafico, 2017.

    Nella camera da letto, davanti allo specchio appeso al muro sopra il tavolino da toeletta, Adela si accinse ad allestire la sua recita. Le azioni, programmate con scrupolo, le serbava scritte in testa, sulle pagine di una sorta di sceneggiatura virtuale che sfogliava al risveglio. Dalle 6 alle 7 di ogni sacrosanta mattina, in tête à tête con se stessa, le interpretava da abile attrice, replicandole esatta. Quasi ne dipendesse il filo di equilibrio logoro su cui si reggeva la sua vita.
    Si sedette dunque, guardando alternativamente il viso che lo specchio le rimandava, e le mani che giacevano inerti sul ripiano della toeletta tra gli scarsi oggetti usati per la cura personale. Sul volto sostava pochissimo. Non altrettanto sulle mani. Le mani avevano per lei un fascino tale da costringerla a venerarle. Erano – si raccontava – delle sacerdotesse: le vestali addette alla particolare liturgia che la riconciliava al quotidiano.
   Così, dopo un’impercettibile esitazione, il cerimoniale ebbe inizio. Adela appoggiò gli indici sullo specchio e incominciò a farli scorrere in movimenti simultanei e paralleli lungo la sua effigie riflessa. Con tenerezza sfiorò la fronte alta e liscia, scivolò sulle sopracciglia, sulle palpebre, sulla linea degli occhi, scese, ma a scatti in avanti e ritrazioni, sulle guance. Guance sovrabbondanti. Due tasche mostruose di criceto. Le solcò in uno scarto verso la curva del naso, rallentò, si avvicinò alle labbra, conquistò veloce il mento aguzzo e si arrestò.
    Poi tornò indietro: mento, labbra, naso, guance.
    Poi di nuovo avanti: guance, naso, labbra, mento.
    Obbligata a prendere coscienza delle sue fattezze in quell’esplicita proiezione di sé, cercava di scomporle con malie da illusionista. Le zone incriminate, però, sembravano gonfiarsi, crescere, minacciare l’integrità dei dettagli gradevoli. Su di esse Adela agì, imponendo alle dita un drammatico carosello. Prese a strofinarne i contorni, grattò, tentò di scavare la fredda materia, di eliminare le raccapriccianti escrescenze del suo doppio indecoroso, finché, mentre la mano sinistra le ricadeva in grembo e si risollevava subito in supporto al mento, la destra si aprì a mostrare la linea affusolata, il palmo si allentò e le dita si allargarono a ventaglio per coprire la metà inferiore del volto.
    Allora, lo specchio le restituì una visione davvero incantatrice.
    Il volto, seminascosto ad arte, divenne attraente: gli occhi scintillavano; il naso, diritto e dalle narici lievemente marcate, si armonizzava con gli zigomi enfatizzati dal velo di vene azzurrognole della mano.
    Dietro il riparo mento e guance scomparivano mentre, al ritmo ora estenuato ora frenetico del cuore, i sensi sovvertiti liberavano la chimera rintanata in lei fingendo un tempo, un luogo, una storia:

Notte ed effluvi di gelsomini.
Notte di luna assenzio.
Intatta luna sbocciata con le stelle
nel cuore vasto di un cielo blu pavone.
Seta sottile sul corpo di sirena
splendente nel fascio perla
pura della luna amica.
Luce preziosa e chiara.
Soave l’attesa dell’amante.

      Nella fantasia bugiarda Adela si affrancava dall’aspetto reale e pulsava di una vita altra.  L’apparente diversità le dava ali sublimi con cui sfidare ogni evidenza razionale. Un dio caritatevole avrebbe dovuto renderla di marmo in quella posa: seduta davanti allo specchio, leggermente piegata in avanti, i gomiti puntati sulla toeletta, le braccia verso l’alto, la mano sinistra chiusa a pugno in appoggio al mento, la destra sulla metà aborrita. Al culmine della messinscena, nella penombra della stanza, con il lume che la rischiarava dal busto in su, un riverbero fulvo tra i capelli, lei si nutriva di chiaroscuri, diluendo l’odiata consistenza. Stregata dall’inganno, indugiava nella fiaba surreale persino quando incominciava a far scendere la mano destra, e a scostarla. Un millimetro alla volta. Persuasa del durare di quel portento. Un millimetro alla volta il viso sarebbe apparso rimodellato con guance dalle curve dolci e il mento tondo, segnato da una fossetta. Ricollocati i difetti nel limbo prenatale delle cose superflue, Adela rinasceva e splendeva di bellezza.

    L’abbaglio – dilatato dall’intensità dell’attesa – l’accecava donandole un ineguagliabile ottimismo. Che le faceva scorrere nella mente una pellicola impressa non da sortilegi esotici, ma da storie comuni: un uomo al suo fianco, una casa, dei figli.
    La realtà tuttavia, malignamente in agguato dietro il pietoso schermo, la risucchiava nella sua propria sostanza. Ancora una volta Adela aveva goduto di un artificio raro, necessario come l’acqua nel deserto, ma infido come la sponda di un fiume gelido le cui acque possono ucciderti, se corri l’avventura di scivolarci.
    Da quell’illusione torpida la riscuotevano i lamenti della madre. Nella stanza accanto, incalzante e ossessiva, con versi dissennati lei reclamava attenzione. I gemiti le perforavano il cervello, la permeavano di un fluido attaccaticcio che le usurpava le guance e il mento, rideformandole.
    Era l’Adela di sempre quella che si staccava dalla fragile visione, era l’Adela dalle guance‑tasche mostruose di criceto quella che raggiungeva il letto della madre. La schiena ingobbita, l’espressione vacua, tornava a quel corpo consumato dagli anni e dalla malattia.

    Adela reagì al richiamo ed entrò nel luogo in cui si esaurivano i suoi slanci. Si avvicinò al groviglio di lenzuola e coperte gettate di lato, le scoprì imbrattate e guardò malevola la madre.
    Albina si era insudiciata un’altra volta.
    Non l’avrebbe pulita. Basta con i pannoloni, le piaghe slabbrate e purulente sulla pelle della schiena.
    Non sopportava di averla davanti.
    E se abbassava gli occhi su di lei, un urto le comprimeva lo stomaco.
    Riconosceva se stessa!
    Il mento: un cuneo sporgente e storto.
    Le guance: smodatamente espanse e flaccide.
    Carni e ossa inutili.
    Quante volte da bambina aveva immaginato di cadere e di romperselo, l’odioso mento aguzzo. Lo vedeva scoppiare in minute schegge rossastre e si sentiva libera, per quanto mutilata sotto la bocca dischiusa finalmente al sorriso. Quante volte, durante le veglie di un’adolescenza affogata nelle lacrime, aveva fantasticato di rubare il rasoio del padre e di tagliare con un colpo netto i bubboni grotteschi delle guance. La gravità del gesto li avrebbe costretti, i genitori, a farle ritoccare il viso da un chirurgo plastico. Invece non aveva mai avuto il coraggio di concretizzare il proposito. Non per sé, ma per lei: la madre portatrice dell’archetipo trasmessole con i simboli di una condanna ereditaria.
 
    Quel giorno non riusciva a resistere.
    La puzza delle feci, i rantoli, le mani in moto furibondo, la faccia repellente (il suo disgustoso specchio di carne!) la sconvolsero. Il desiderio di ucciderla la invase, dilatandosi cellula dopo cellula. La stava appestando una schiuma corrosiva, letale per la volontà.
    Si smarrì.
    Si smarrì e protese le mani: avrebbe ghermito il collo della donna chiusa in un’irrimediabile demenza. La detestava con forza inaudita. Lei, Albina (un maledetto specchio di carne purtroppo vitale!), le smaccava in faccia matrimonio e maternità. Malgrado la fisionomia costruita pressoché a scherno, aveva comunque amato e concepito e partorito una sua copia innocente. Non le perdonava i trascorsi normali, non tollerava che vivesse il presente da orribile parassita, accovacciata nel suo pensiero.
    Se l’avesse uccisa, avrebbe avuto l’unica occasione possibile.
    Una volta frantumati gli specchi di casa.
    Senza riflessi si sarebbe accettata.
    Perciò l’avrebbe fatto.
    Sì, l’avrebbe uccisa.
 
    Adela mosse le mani verso il collo della madre, sedotta dal pensiero della stretta imminente. Doveva guarire da quell’esistenza meschina con un atto drastico. Poi avrebbe contemplato il manichino-floscio-Albina.
    Appagata.
    Come un pittore, un quadro appena ultimato.
    Continuò ad allungare le mani verso la madre. Sentiva l’aria rapprendersi attorno alle dita. Le inserì nella matassa di capelli grigi che si disfaceva sul cuscino, serrando la morsa.
    Piano.
    Un canto la penetrava in ictus parossistici, che si espandevano ravvivando il colore stantio delle pareti. Entro breve, fuori da quella stanza, avrebbe goduto appieno, rigenerata dall’elisir della sua storia segreta.
 
Petali di gelsomino, corolle di magnolia
sul volto fragrante di trasfigurazione.
Zaffiri e ambra attorno al collo,
un giglio tra i capelli. La luna.
Splendore nel cielo blu pavone.
 
    Al felice ritmo incalzante la metamorfosi si sarebbe compiuta.
    L’io parallelo stava per incarnarsi in lei.
    I profili coincidevano.
    L’Adela-obbrobrio da fiera cedeva al clone perfetto.
 
    Di colpo, con un vibrìo di mantide che distende le elitre per conquistare l’aria, gorgogliando mugugni metallici, Albina si girò verso la figlia e annaspò dal suo torpore. Quasi all’automa fosse stata data una carica diversa, forse per un riassetto del meccanismo o per un motivo enigmatico di scambi avulso alla comprensione umana. Le sorrise con le labbra tese sulle gengive ceree, intercettò le mani vicinissime al suo collo, le baciò, mosse il mento spingendo oltre la grata della clausura fisica parole estratte da residui di memoria:
«Adela, angelo mio, ho sete. Dammi da bere!».
 
    Adela trasalì, ritrasse le braccia e le lasciò ricadere. La voce della madre le assediò il cervello, vi si insinuò con il lezzo di cui era zuppo l’ambiente. Angelo…, angelo…, angelo…, echeggiava la voce familiare, a cerchi concentrici, come quelli originati da un sasso scagliato in uno stagno. Cerchi famelici, cannibali di altri cerchi. Morgane svanenti al bordo della sua ebbrezza allucinata. Angelo…, ansimava la voce stringendola in solidissime catene. Chiuse gli occhi e si consegnò alla massa di odori e suoni, mentre il coagulo assassino che le aveva intorbidato il cuore si volatilizzava in una caligine scialba.
    E gravitò nella sua coscienza.
    Sopraffatta da un rimorso di calce viva.
 
    Quando le cose risorsero dalla loro morte effimera e furono sagome ordinarie, arredi del carcere domestico, Adela versò dell’acqua nel bicchiere sul comodino, sollevò la testa di Albina e la aiutò a bere.
    Senza guardarla.
    O meglio: senza vederla.
    Rimuovendo il germe del clone perfetto ci sarebbe riuscita.
    A non vederla.
    Niente copioni, apparati scenici, imbrogli delle belle statuine, labirinti onirici, simulazioni, voli.
    Niente di niente.
    Si sarebbe disintossicata da quelle suggestioni. Estraendo l’antidoto dal loro stesso veleno e assumendolo respiro a respiro, pelle a pelle.
 
    Tutto ritornava a posto. Le radici del mondo si assestavano nei loro alvei, e lei, zittito il demone interiore, ripercorreva con le pupille bianche di rassegnazione il limitato perimetro del giorno dopo giorno.
    Battuta per sempre. E reclusa senza appello.
    Tra i mefitici miasmi della tana di Albina.