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sabato 17 febbraio 2024

Prosa / Racconto breve: Riccardo e il papavero.

 
P_Irene Navarra, Riccardo e il papavero, AIArt e GraphicArt, 18 Maggio 2023.




    Riccardo fermò di colpo la macchina sul ciglio del viottolo quasi sommerso da campi con erba alta e minuscoli fiori bianchi e gialli. Appoggiò le braccia sul volante, la testa sulle braccia e pianse. Singhiozzando convulsamente.
    Poi si riprese.
    Raddrizzò il busto, abbandonò le mani in grembo e, piano piano, si ritrovò a respirare a fondo. Trattenendo l'aria a lungo. Il suo Maestro di meditazione gliel'aveva insegnata bene, quella forma di rilassamento.
    Riccardo inalava boccate d'aria con voracità. Come se fossero garanzia di salvezza.
    Inspirare ed espirare erano le uniche azioni che riuscisse a sostenere in quel momento.
    Lo fece finché sentì che il cuore si calmava e capì che doveva muoversi, dare ossigeno verde al corpo, camminare.
    Così scese dalla macchina e iniziò ad avanzare nel mare d'erbe di un campo in leggera discesa verso le sponde del fiume la cui voce s'insinuava nel frusciare del vento sulla rustica natura di quel luogo.
    Riccardo alzò gli occhi al cielo privo di nubi, li rivolse poi all'orizzonte di cespugli d'acacia e riuscì a non avere pensieri. Lina e la loro storia di anni non c'erano più. Il dolore provato all'annuncio che lei aveva un altro amore, che la sua vita era finalmente diventata elettrica (così aveva detto: elettrica), la ferita che gli si era aperta nel cuore alle sue parole, tutto, proprio tutto dileguava nel fascino 
semplice del paesaggio che lo accoglieva rassicurante.
    Lo conosceva bene quel posto.
    Ci veniva fin da cucciolo. Era l'angolo di mondo adatto a lui. Solitario di carattere, alquanto schivo, amava leggere al riparo dei salici che là, sulle rive impervie del fiume, crescevano rigogliosi. Ce n'era uno, in particolare, che lui chiamava Furio per i rami flessibili, sibilanti a ogni brezza come fruste, tra le cui forti braccia stava sempre da re. Ci passava le ore inseguendo sogni d'artista. Di pittura e poesia. Probabilmente in un'ansa del tronco tormentato c'era ancora la scatolina di latta con dentro il disegno su carta pergamena di una ragazza in bicicletta, capelli bruni al vento e vestito leggero rosso a fiori azzurri.
    Ragazza che lui credeva sarebbe arrivata magicamente per farlo innamorare.
    Doveva recuperarlo, quel disegno.
    Il tempo poteva averlo sbiadito ma non distrutto.
    Gli appariva chiaro nel ricordo. Rappresentava la sua anima e le sue speranze.
    Si avviò. Deciso a riconquistare quei sogni che Lina gli aveva negato, preda com'era del desiderio di vivere una vita concreta, ricca di cose, cose, cose. Ritenute irrinunciabili emblemi di successo sociale.
    Con quel disegno si sarebbe riappropriato della sua vera essenza.
    A passi rapidi, dunque, Riccardo iniziò a scendere verso il fiume. Finito il campo d'erbe, si avventurò tra pietre e rovi fino ai salici. E Furio lo riaccolse come se non si fossero mai lasciati. I rami a mimare un saluto mentre lui accarezzava il tronco solido e incominciava a sondarne le pieghe.
    La trovò, la scatolina. Era ancora là, rabbrunita dalle intemperie, tuttavia ben chiusa sul prezioso contenuto. La aprì, forzando deciso, e ne estrasse il disegno che ripulì, spianò, lisciò. E guardò sospeso.
    Lei era bellissima.
    E con lei ritornò il tempo dei sogni.
    La ammirò ancora e ancora. Rapito da tanta grazia.
    La portò alle labbra per riappropriarsene, e se la mise nel taschino dei jeans, mentre il cuore gli batteva impazzito.
    Un ultimo sguardo a Furio, e prese la via del ritorno, arrampicandosi veloce sulla sponda.
    Fu nel campo d'erbe, tra i minuscoli fiori bianchi e gialli che sfiorava con le mani aperte, procedendo lentamente. Finché non vide una macchia rossa, unica e speciale, alta sulle altre piante.
    Era un papavero che doveva essersi aperto da poco, pensò quasi incredulo.
    Era sbocciato alle sue spalle.
    Sfacciato, allegro, solitario papavero. Anche arrogante in quel suo svettare da re sulla platea di umili sudditi bianchi e gialli.
    Un segno, decise Riccardo.
    E cercò con gli occhi, d'istinto, la strada dove, in quel preciso attimo, stava passando una ragazza in bicicletta. Capelli bruni al vento e vestito leggero azzurro a fiori rossi.

18 Maggio 2023

Irene Navarra 

giovedì 1 giugno 2023

Prosa / Racconto: Sogni incrociati (da "Davvero così").

 
Lo dico sempre:
l' importante nella vita è saper cogliere i segni.

Irene Navarra, Emma, AI e Grafica, 1 Giugno 2023.

    Sono proprio pagliuzze d’oro quelle che rilucono negli occhi ambrati di fronte a me.
    Seduta a terra sotto il portico di casa, accarezzo il muso della mia Emma. Ci guardiamo con amore. Il gioco del naso contro naso si ripete sereno, e poi: un bacio sulla testa dove il pelo biondo si incurva in un’onda spessa, le corse sul prato, la passeggiata fino al fiume, il bagno in un’ansa riparata, il riposo all’ombra del vecchio salice con il suo docile corpo tra le braccia.    

    Il tempo di Emma mi gratifica di una tranquillità mai goduta prima, in balia com’ero stata sempre di una schiera di parenti pretenziosi e del lavoro, ladro di sonno e salute.

    Da quando era morto mio padre non avevo conosciuto altro all’infuori della fatica. Lottavo nello studio d’avvocato di proprietà della famiglia da centocinquant’anni, tramandato di padre in figlio, o di padre in figlia come nel mio caso avendo mio fratello preferito la professione di chirurgo.
    Mi ci avevano trascinata per i capelli nei tribunali.
    Amavo la campagna. Desideravo vivere in una fattoria con una cavallina dal mantello ramato. Una stupenda cavallina che sin dall’infanzia continuavo a sognare ogni notte e che, la mattina, svaniva nel volare dei minuti e tra le panie dei codici.
    Cos’era, dunque, la mia vita?
    Destreggiarsi tra beghe continue cercando di placare i clienti e due figli capricciosi, accontentare un marito lavativo e impudente.
    Ecco cos’era la mia vita.
    Meglio di così non ti potrebbe andare, mi dicevano. Io assentivo, vittima dei miei aguzzini. E del dovere: un senso sviluppatissimo in me. Frutto degli insegnamenti di chi – la buon’anima di papà – mi aveva educata nel rigore severo e nel rispetto del prossimo. Se invece azzardavo un bilancio esistenziale, intuivo che gli altri mi si erano installati dentro.
    Abitandomi comodi.
    Pasciuti e satolli di me.
    Vuoi la luna? mi replicava mia madre, indaffarata in organizzazioni di balli per beneficenza e partite a canasta, appena la coinvolgevo nelle mie paranoie.
    Non volevo di certo la luna, ma la poesia delle cose! Le illusioni della giovinezza, affondate in un opprimente trantran.
    Volevo me stessa.
    Avevo tuttavia una fifa mostruosa di ritrovarmi a tu per tu con la scelta di un futuro diverso.
    Ero una falena abbacinata e sbattevo contro lampadine roventi, bruciandomi le ali.

    Per molto continuai a strascicarmi nella beffa degli incontri scanditi dai sintetici promemoria di Gabriella, la mia segretaria. Mi rotolavo nel fango colloso delle cause da studiare, dei cavilli da scovare, infastidita e imbelle. Quando, però, mi capitava di soffermarmi sulle derisioni spavalde di quanti mi succhiavano le forze, ero sopraffatta da un’incresciosa impressione: se avessi cercato di avvicinarmi per strattonarli e farli smettere, avrei toccato solo la parete di una cella trasparente montata apposta per me.
    Vedere gli altri vivere la vita e non riuscire a vivere la mia mi lacerava.
    Potevo forse cambiare quella situazione?
    Ciascuno incalzava con i conti da pagare, con la tempesta delle pretese. A nulla valevano i segni di logorio sulla mia persona in febbrile declino. Nessuno raccoglieva le note roche nella mia voce considerata ormai un ronzio d’ambiente.
    Farsi ciechi e sordi al disagio altrui è la norma per chi si è autoeletto al rango di sole attorno a cui devono orbitare i pianeti-sudditi. Io avevo accettato da tempo la mia condizione subordinata, di soli però ne avevo troppi.
    La mia galassia eccedeva di soli.
    In conflitto tra loro, eppure, all’occorrenza, alleati fedelissimi contro di me.
    Da ciò mi salvò mio marito con la sua energica prodigalità bighellona e irresponsabile.

    Un tardo pomeriggio primaverile funestato da un malessere improvviso, il rientro anticipato dal lavoro, il letto di casa mia – della mia bellissima casa arredata con mobili Liberty –, il mio annoiato marito, la mia migliore amica, la scena d’adulterio intravista dietro la preziosa vetrata Tiffany autentico.
    Ovvia, squallida storia con fuga finale, alla cieca via dalla città.
    Infuriata e irragionevolmente leggera.
    Un’eroina da commedia nostrana al volante della sua macchina sui tornanti delle colline e a piedi verso il fiume per sentieri di polvere bianca, sassi, sterpi, rovi sotto un cielo squarciato da un fiore di cobalto tra nubi corrucciate.
    Un fiore che mi fece fermare, i tacchi a spillo piantati nel terreno, il naso all’insù.
    Polarizzava la mia attenzione con un’incredibile luce attraversata da bagliori. Le nubi si inarcavano, si contorcevano ma il fiore restava incolume, orlato da sbuffi violacei.
    Restava per me: bonario e sornione.
    Mi stesi a terra ipnotizzata da tanta bellezza.
    Scivolai insensibilmente nel sonno.
    Sotto l’immenso, umido sguardo del cielo.
    Di quella notte ricordo con evidenza il sogno.
    All’inizio lo stesso di sempre: la rustica casa bianca sul fiume, i prati rigogliosi, il recinto, la cavallina ramata dai fianchi robusti, il suo dolcissimo sguardo, una sensazione di casto godimento.

La cavallina dai fianchi robusti
piega il collo possente,
abbassa il muso e nitrisce.
La chiamo.
E la voce trascorre la folta criniera.
Io sono la voce, un brivido sul giovane muso,
lungo la groppa, i garretti nervosi.
E sono il salso del suo sudore.
Il galoppo, il galoppo battente.
Lo slancio.
Al fiore cobalto del cielo.

    Il sogno di sempre. Con qualcosa di aggiunto, comunque: segmenti a incastro con altri segmenti.
    Purezza e marciume. Compenetrati in modo tale da non poterli scindere. Un incubo intriso di tremori incontenibili.

Io sono terrore.
Ferite sul collo.
E lance di fuoco nei fianchi.
Dolore nell’occhio del cielo.

    Mi svegliai che il catrame della notte cominciava a sbiadire. Una pioggia fine cadeva in brusio smorzato. Quando tentai di muovermi, mi accorsi di avere la spalla destra bloccata. Qualcosa m’incombeva addosso. Girai cauta la testa e d’istinto lo toccai, quello strano qualcosa. Tenero al tatto, sembrava il corpo di un animale. Orecchie cascanti e inzaccherate, gola stretta da un collare metallico, fianchi tutt’ossa incrostati di fango. Spostai delicatamente la sfortunata creatura e mi sollevai. Al barlume dell’alba la ripulii alla buona strofinandola con i palmi inumiditi nell’erba. A poco a poco percepii il miele e il crema del manto. Era un cane. Un esemplare malconcio di golden retriever.
    I suoi occhi si dischiusero inquieti.
    Lo palpai per capirne il sesso. Femmina. Mi ridistesi al suo fianco, lei allungò le zampe e me le posò sul seno. Restammo immobili. Le sue zampe sul mio seno, le mie dita sulla sua pancia tiepida, sul petto color della luna.
    Il tempo? Non so quanto fu.
    Quando ci alzammo e ci avviammo affiancate verso la vettura, niente sguardi tra di noi. Non erano necessari. Insieme saremmo state invincibili.
    Come un massaggio salutare la speranza di un avvenire migliore scioglieva tensioni. Per noi la vita sarebbe cambiata. Dal rifiuto di una schiavitù imposta e dall’arcano incrociarsi di due sogni stava nascendo un’inattesa realtà.

    La mia spettacolare Jaguar XJ Autobiography ci accolse lussossa di cuoio, radica e acciaio. Adagiai l’infelice amica sul sedile posteriore, la liberai dalla catena, mi rannicchiai accanto a lei e coprii entrambe con il soprabito là dimenticato. Dormimmo finché il sole, dardeggiando sui cristalli dell’automobile, ci invitò alla sua festa.
    In lontananza la città si era accesa di guizzi nei campanili ricoperti da lamine di bronzo, nei tetti di cotto fulvo. Il nastro del fiume serpeggiava a dividere spazi. Azzurra, l’acqua. Argento, la terra ancora madida di guazza.
    Un nuovo orizzonte ci si dispiegava davanti.
    Noi respirammo a fondo per impossessarci di un’aria finalmente nostra.
    Ti chiamerò Emma, le dissi.
    Lei approvò premendomi il muso sulla coscia.

(Una figura umana dall’andatura sbilenca
e una animale dalla coda allegra
uniformavano i passi.
Il patto era stato saldato
con il sentimento dell’analogia.)

    Epilogo

    I miei figli potranno raggiungermi.
    Ma non subito.
    Non è ancora il caso.
    Voglio semmai naufragare negli occhi di Emma per accettare i relitti del passato, mescolandoli ai suoi. Solo allora, ritemprata da sorsate di semplicità, offrirò a Sara e David l’occasione di imparare il succedersi lieto dei giorni nella mia casa presso il fiume, in compagnia di una cavallina dal mantello di rame fulgente. E con Emma.

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