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lunedì 17 ottobre 2022

Critica / Per Carlo Michelstaedter: Dalla Morte alla Vita.


Oggi, 17 Ottobre 2022, ricorre l'anniversario della morte di Carlo Michelstaedter.
Lo ricordo con un articolo, scritto nel lontano 2010, che continua a essermi caro
per le suggestioni evocate alla rilettura.
Tutte perfettamente ancora intatte.

Irene Navarra, Cimitero ebraico di Valdirose, La tomba di Carlo Michelstaedter, Fotografia, 2010.

La foto fu fortunosamente scattata alcuni giorni prima della feroce ripulitura cui furono sottoposti la pietra del cippo funebre e gli altri resti sparsi attorno.

Il mio ennesimo ritorno a Carlo Michelstaedter questa volta inizia non dalla casa di nascita, al n.4 di Piazza Grande, non dal fiume Isonzo che conobbe il suo corpo, né da Grado, da Pirano che videro il procedere dei suoi giovani anni e ne portano ancora i segni incancellabili. Questa volta a chiamarmi è la sua tomba sterile, nel cimitero di Valdirose, abbracciata quasi da quella corrosa del fratello Gino. Dalla Morte alla Vita, mi dico mentre pongo due piccoli sassi rituali su un altro più largo e piatto che sembra un altare. Lo sollevo per tentare di capire la sostanza del ricordo. L’erba sotto ancora verde testimonia un omaggio recente. Aggiungo due pratoline, un ranuncolo, un po’ di Occhi della Madonna e rifletto: la forma sferica dei ciottoli, il bianco, il giallo e l’azzurro dei fiori compongono un sincretismo religioso che forse gli sarebbe piaciuto. Piccoli gesti, semplici liturgie che simboleggiano la durata affettiva di quanti, come me, affidano a Carlo Michelstaedter i loro pensieri.

Il  cimitero ebraico di Valdirose è selvaggiamente bello, con un che di celtico  dato dall’erba rigogliosa e incolta, dalle pietre chiazzate di licheni  grigio-ocra, affioranti dal suolo o divelte, frantumate o intatte, svettanti  talvolta in cuspidi. Un frammento di verde tra nastri di strade e guardrail  come una coreografia astratta dove lo sguardo naufraga senza punti di  riferimento. Sculture ambientali con qualche installazione ossidata degna di  David Smith. Il suono dei motori delle macchine - sfreccianti per un secondo e  già lontane - rende aliena la pace schiva del posto. Circondata dal frastuono  di un progresso sbilenco, pare difficile chiudersi nella propria mente per  travalicare barriere di senso e cercare un contatto. La domanda inevitabile è:  può un luogo sacro essere incastonato in materiale vile come la lamiera e  l’asfalto può essere il nucleo di icone che nulla hanno di cultuale e parlano  solo di civiltà retorica? Evidentemente sì. Dalla vegetazione intatta dei Primi  del Novecento al tracollo attuale di ogni riguardo. Scelgo l’inevitabile  adattamento con una punta di malinconia, scacciata subito dalla consapevolezza  dell’attimo senza uguali.
L’ultimo rifugio di Carlo Michelstaedter non è più protetto dai due cipressi di specie  rara piantati il giorno delle esequie, e cresciuti in modo scomposto,  irriverente. Li ha annichiliti un taglio quasi radicale. I tronchi mutili,  apparentemente privi di dignità, mimano dei sedili. Mi guardo bene dal  toccarli. Gli alberi hanno un’anima da rispettare. Capto ancora la loro  energia. Mi siedo a terra, tenendo gli occhi fissi sul muro di cinta proprio  perché limita la vista fisica. Dischiudo quella interiore. Così, d’istinto, e  per balzi percettivi molto naturali. Dal finito all’infinito, insegna Giacomo  Leopardi. Oltre la sua siepe “interminati  spazi […], e sovrumani silenzi, e  profondissima quiete”. Il muro può ben sostituire una siepe. Luoghi e tempi scaturiscono dagli strati  della memoria profonda. Al di là del misero orizzonte si condensano idee,  individuali evocazioni. Il riflesso della luce del sole che mi riverbera alle  spalle e si smorza nelle crepe delle steli solitarie ha la vastità,  l’estensione di un piacere speciale. Nulla di trascendente. Piuttosto  un’impressione di matrice sensista che non chiede assolutezze. Mi riapproprio  del frutto del suo genio: le Poesie, Il  dialogo della salute, acquerelli, disegni, La persuasione e la rettorica, le  lettere, gli appunti, le note. Mi  scorre nella mente un film virtuale che porta significazioni e tratti. Immagini  incalzano: Carlo, Rico (Mreule), Nino (Paternolli) nello splendore della  giovinezza, le loro corse sfrenate lungo gli ampi viali della nostra città, lo  Staatsgymnasium in Via delle Scuole, le gite e i bagni al fiume, le fughe al  San Valentin, le notti sul San Valentin, Carlo a teatro, Carlo al mare, il  nuoto, il tennis, la scherma, Sofocle, Ibsen, Beethoven, Schopenhauer, la  sorella Paula, Firenze, Nadia Baraden, Jolanda De Blasi, Argia Cassini, la  soffitta di Nino, la pistola di Rico. Una ridda di fotogrammi come flash  improvvisi mi si affolta dentro. Dietro ogni nome e oggetto altre fisionomie e  dettagli. Differenti, eppure parte dello stesso tutto. Il volto di Carlo emerge  dall’indistinto, ora radioso ora cupo, in un alternare repentino. È un volto “mezzo tra bello e terribile”, come quello della Natura in dialogo con l’Islandese nell’omonima Operetta morale di Giacomo Leopardi.  Suggestioni, queste, giochi d’abbandono corrivo in cui voglio scivolare.

  Come  sempre quando penso a Carlo Michelstaedter avviene un fatto strano: il tempo  scarta e si riavvolge. A livello di coscienza, per intermittenze non uniformi o  incatenate in un prima e un dopo, ma sciolte come la parabola dell’iride in un  prisma cristallino dalle facce sempre fulgide, se lo vai ruotando. Facce  diverse, un unico cuore vibrante. Il passato ritorna, dunque. Così reale da inalare  odore di ceri e deglutire salso di lacrime, tra singhiozzi e salmodie. Riarrotolo  ancora un poco il filo del recupero, lascio la morte e torno alla vita di  Carlo: la sua voce sillaba gli ultimi versi della lirica del 2 agosto 1910, [Alla sorella Paula]: “Lasciami andare, Paula,  nella notte / a crearmi la luce da me stesso, / lasciami andar oltre il  deserto, al mare / perch’io ti porti il dono luminoso / … molto più che non  credi mi sei cara.”.

  Nel  mio qui e ora niente orizzonti metafisici, solo la pietra del cippo funerario  davanti a me. Liscia dov’è incisa la scritta con il suo nome. Calda.

Irene Navarra, in Speciale Cultura di Voce Isontina del 29 maggio 2010.

(Dall'apparato critico propedeutico allo spettacolo multimediale Omaggio a Carlo Michelstaedter / Di soglia in soglia la Percezione dell'Assoluto,  rappresentato al Teatro Incontrodi Gorizia il 4 giugno 2010, per il centenario della morte.) 


Critica / Carlo Michelstaedter: Un'ipotesi di suicidio.

 

Irene Navarra, VideoPoesia: Carlo Michelstaedter, Il canto delle crisalidi.

Sto leggendo le liriche di un autore giapponese, Shinkichi Takahashi, vissuto tra il 1901 e il 1987. Di lui si sa che, dopo essersi ritirato nel Tempio Shogenji Rinzai a Tokio, ricevette l’illuminazione. Sui quarant’anni, racconta la sua mitologia.
L’ambito è dunque quello della poesia zen, il clima religioso quello buddista.
Una composizione mi seduce più delle altre. Parla di un uomo, Vimalakirti, che viene da Vaisali, una località dell’antica India al confine con il Nepal. Egli è seguace del Buddha e persuasore per eccellenza, si finge addirittura malato per chiamare gli scettici al suo capezzale e convincerli. Le ultime due strofe recitano: “Malattia, un’opinione, / per lui il corpo è zolla, acqua, / movimenti, fuoco, vento. // Vimalakirti, eroe profano, / con una parola trascina galassie / ai piedi del suo letto.” Mi abbandono al loro senso segreto accordando una sequenza intuitiva: malattia / persuasione / illuminazione / salute. Penso di colpo a Carlo Michelstaedter. Lo pongo a fianco di Vimalakirti. Li sistemo vicini questi due paradossali compagni e rifletto. Il malato - non malato Vimalakirti e il non malato - malato Michelstaedter, a confronto.
Bella sfida! realizzo ansiosa di sapere dove mi condurrà.
Recupero d’istinto i numerosi studi condotti sul giovane goriziano. Mi figuro Carlo nello splendore dei suoi vent'anni. Bello dei tanti dubbi, esaltazioni, convincimenti tipici di un carattere focoso. Ripercorro i probabili rovelli che ne suggellarono la decisione estrema del suicidio. Mi scorre un film virtuale nella mente i cui fotogrammi sono pieni di vivide sensazioni più che di morte. Mi soffermo ancora sull’inattendibilità delle due immagini: lontane, di certo surreali, ma perciò più evocative. Pongo un’ipotesi, mentre le parole malattia / persuasione / illuminazione / salute continuano a pulsarmi dentro.
Carlo come Vimalakirti, è capace di trascinare galassie.
Potenti entrambi per l’energia del loro pensiero: Vimalakirti, volontario finto infermo che induce con la sua logica serrata al raccoglimento interiore; Carlo occulto persuasore di se stesso e infermo inconscio, altalenante tra amor di vita e amor di morte. Ambiguo dunque, abitato dalla vita e dalla morte in gioco tra loro con un ritmo cadenzato di trasformazione e retrotrasformazione. Che è poi quello del suo scritto più famoso: Il canto delle crisalidi. Un classico a cui torniamo sempre: “Vita, morte, / la vita nella morte; / morte, vita, / la morte nella vita. // Noi col filo / col filo della vita / nostra sorte / filammo a questa morte. // E più forte / è il sogno della vita -/ se la morte / a vivere ci aita // ma la vita / la vita non è vita / se la morte /la morte è nella vita // e la morte / morte non è finita / se più forte / per lei vive la vita. // Ma se vita / sarà la nostra morte / nella vita / viviam solo la morte // morte, vita, / la morte nella vita; / vita, morte, / la vita nella morte –
Il canto delle crisalidi con il suo lento salmodiare mi ritrascina nel mondo zen e alla dottrina del Buddha. Sembra un Mantra Śānti, il Mantra della pace profonda, esente da morbi, paure, illusioni, difficoltà mondane. Un mantra scandito a rituale di riconoscimento. Una formula magica quasi, per rendere attivi desideri o intenzioni. Sacro pertanto, salutare, non ossessivo.
La ricerca di una via personale all’esistenza è evidente nelle varie tappe del viaggio terreno di Carlo Michelstaedter. Si enuclea piano, si gonfia, esplode. In verità rivelata. Chiare le pagine del Dialogo della salute. Portano la malattia come il vivere sulla soglia tra la vita e la morte. Malattia da puro dolore. Da disadattamento. Dolore chiuso, negativo.
Malattia come un filo con a un capo la vita, all’altro la morte. Che si sovrappongono mentre lo recidi, e rendi la vita morte, e fai di te l’artefice dell’atto supremo, il sommo artista della tua ineffabile opera.
Mi fingo la scena. Sullo sfondo indistinto due donne bellissime e ieratiche, due Dee della Vittoria dalle ali spiegate, dal corpo plasmato di alabastro traslucido la prima, di basalto nero la seconda, dipanano il filo della vita/morte che sparisce nelle loro mani. Al centro si staglia Carlo. Egli lo afferra, lo soppesa e lo taglia di netto, quel filo. Ne rivendica il possesso consistendo nell’attimo. Riversando la sua vita nella morte, intanto che si spegne qualsiasi luce e si concretizza il buio, il suo mistero, il non essere, il non percepire e il non essere percepito.
Non più malattia, dunque.
Quando recidi lo stame della vita, hai scelto.
Non importa se per lucida risolutezza o per disperazione. Importa che tu abbia scelto l’unica forma di libertà di cui puoi godere: la libertà per la morte.
“… morte, vita, / la morte nella vita; / vita, morte, / la vita nella morte. –
Sussurriamocelo anche noi questo mantra che amplifica lo spirito.
Perderemo ogni paura.
  
Irene Navarra / Quaderni di critica / I saggi di Artemisia / Carlo Michelstaedter/
16 ottobre 2013.
Se vuoi saperne di più sulla mia attività di Critica, segui i link Qui e Qui.

sabato 11 giugno 2022

Poesia / Frammento 37: Primavera. La fine - (Da "Minimondi", Luglio Editore - Trieste).


Primavera se ne sta andando.
Ormai persuasa e soddisfatta dei suoi colori, profumi, suoni, brillii, nubi, azzurri trasparenti, notti stellate, albe tenui come petali di rose…, si prepara a sfoggiare modi più maturi.
Si vestirà di rosso e di smeraldo, di giallo paglierino e di cobalto. La vampa dell’Estate salirà i profili avari delle colline. Senza alcun riguardo. E le sere saranno viola e calde, piene di frenesie sonore, di lucciole, di sale sapido della terra riarsa.
Di pensieri come cori antichi.

Frena il suo andare Primavera.
Slaccia la blusa.
Arresa.


Irene Navarra, Primavera. La fine, Fotografia, 11 Giugno 2022.


La lirica è tratta dal libro Minimondi (Luglio Editore), a cura mia per i testi, e dell'artista Silvia Valenti per i disegni e gli acquerelli.
Qui, Qui, Qui e Qui  trovate alcuni link che vi porteranno a scoprire le varie dimensioni poetiche e figurative della pubblicazione. Tradotta in Sloveno dalla grande Letterata Jolka Milič per la sezione dei Frammenti (Il tempo. Le sue orme), percorre sentieri di meditazione profonda con agganci al mondo degli haiku. Liberi, però. All'occidentale. Con la punteggiatura cioè, senza l'abusato trattino e con escursioni al di là dei tre versi di 5 - 7 - 5 more e del kigo, rispettato fino a un certo punto malgrado la partitura in stagioni.

martedì 10 maggio 2022

Poesia / sensi residui (poesie da poco): 18 - oh se.

 

Silvia Valenti, Ballet 737, Fotografia, 2014 (Courtesy dell'artista).

oh se si potesse solamente battere le mani
per allertare fate ed elfi sotto attacco orchesco
e fossero poi armi tese come archi o spade

oh se si potessero magie per trasformare
chi aggredisce in ombra spenta
bandita ai lembi estremi
di un regno maledetto
nel corpo siderale più lontano
che non sa di sole

se solo si potesse
mi spellerei le dita e i palmi
a forza di colpirli con furore
ne farei lance e fionde
fuoco di fiamma
e tossico di cenere

63° giorno della guerra russo - ucraina

 

mercoledì 16 marzo 2022

Prosa / Tra le labbra livide della notte ( Da "Davvero così").

 

Irene Navarra, Rossana, Disegno grafico, 2022.

    Appoggiata rigidamente allo schienale della bergère su cui si era appena seduta, Rossana fissava il cellulare che teneva chiuso tra le mani giunte a conchiglia. Quasi pregasse. In uno stato di forte tensione, attendeva l’accendersi del display. Le note del Bolero di Ravel avrebbero scosso il silenzio e lei avrebbe pigiato il tastino di risposta trasalendo di gioia.
Nel tinello attiguo al salotto la tavola era preparata per la cena. Un allestimento perfetto che Rossana non degnava d’attenzione. Come se non la riguardasse, pur essendone l’autrice. La tovaglia di fiandra verde pallido cadeva compatta fino a terra, le candide porcellane di Limoges e i bicchieri in vetro soffiato Venini scintillavano, due minibouquet d’edera e bucaneve ornavano i tovaglioli riprendendo i motivi floreali del tessuto, le posate d’argento dalla foggia estrosa completavano la raffinata ricercatezza dell’apparato.
    Tutto era pronto anche nella minuscola cucina lucida di smalti, già rassettata con cura maniacale.
    Sul bancone dal ripiano di marmo se ne stavano allineate in bell’ordine le pietanze: il fagiano arrosto, la purea di patate, la salsa al ribes, il radicchio canarino al gratin, la crostata di mele odorosa di vaniglia. Un aromatico Manzoni rosso avrebbe accompagnato la selvaggina, un Ramandolo barricato in rovere bianco, il dolce. Il primo l’aveva scaraffato per l’ossigenazione in un prezioso decanter Lalique della linea Roxane, dono di nozze di una cugina per l’omonimia casuale con il suo nome, Rossana appunto. Il secondo, invece, era nel frigo-cantina affinché mantenesse la temperatura ideale di 14°.
    All’arrivo di Guido, suo marito, le sarebbe bastato pochissimo per riscaldare il cibo: un velo di panna e uno spruzzo di cognac sulla carne, una noce di burro e una lacrima di latte nella purea. Pochissimo…, si ripeteva distratta cincischiando il tubino nero che le aderiva alle curve prosperose, e strusciando sul parquet i piedi sottili calzati di ballerine di vernice.
    Si sentiva bella, pronta per un’occasione importante, ma il cellulare non dava segni di vita.
    Mancava meno di mezz’ora al rientro di Guido e l’apparecchietto sembrava provocarla con un’assoluta immobilità da scarabeo in letargo.
    Marco, l’altro, forse non aveva nessuna intenzione di chiamarla.
    Il panico le chiuse la gola.
    Così decise: ancora dieci secondi e avrebbe disattivato l’aggeggio infernale dimenticando quell’appuntamento che durava da un mese. Tutti i giorni tranne il sabato e la domenica, quando il marito era a casa.
    Quando il marito era a casa, lei aveva la sensazione di sdoppiarsi: la Rossana di Guido soggiaceva, stucchevole e solerte. La Rossana di Marco, acquattata in una piega della mente, soppesava quel suo clone codardo con vibrazioni da cacciatrice, disprezzandolo per i sorrisi, i riti, le ovvietà.
    Sminuzzava metodica nella tana il tempo che la separava dal lunedì.
    Come si sbriciola un pezzo di pane.
    Gli occhi colmi di disagio e nascosti sotto il velo delle palpebre.

    Marco tese d’impulso la mano verso il telefono dal contenitore trasparente, chiaro per la fosforescenza dei circuiti nell’ufficio conquistato dall’ombra della sera. A metà gesto si pentì. E la mossa si alterò scomponendosi in rapide fasi: un elusivo baluginare, un brusco indugio a mezz’aria, l’arretramento, il blocco. La macchia immobile della mano sul ripiano della scrivania sembrava dichiarare il proprio arbitrio. Gli ribadiva il dovere della presa di coscienza con la sua ostentata inerzia.
    Durò un po’ la stasi.
    Poi, repentinamente, le dita incominciarono a battere un loro alfabeto, trasmettendogli un messaggio: Cose da non farsi…, da non farsi…, da non farsi. E le sillabe, frutto senza dubbio di sovreccitazione, si combinavano in echi enigmatici. Lo inondavano di turbamento per la passione accesasi in lui quando, mentre Guido gli presentava Rossana, si era sentito rovistare fino in fondo all’anima dai suoi occhi di giada.
    Ogni sera era la stessa storia.
    All’uscita di Guido dall’azienda in cui entrambi lavoravano le telefonava e, nell’attesa del suo
Finalmente!, centellinava le emozioni, collocandole una per una nella casella giusta, accanto all’immagine giusta, in desideri fiammanti.
    I capelli fulvi di Rossana: una cascata di papaveri sopra il suo petto.
    Le labbra di Rossana: fichi maturi da mordere, succhiando umori speziati.
    La voce di Rossana: un’acqua ribollente sulla pelle.
    Il solo pensare alla sua voce gli dava una sorta di struggimento spossato, la preparazione necessaria all’ebbrezza sensuale che straripava nell’istante in cui lei, dopo tre squilli, gli rispondeva.
    Durante la giornata Marco inseguiva Guido in modo programmato. Gli stava alle costole per cercarvi un’impronta di Rossana, gli si avvicinava per evocarne la fragranza. Si figurava a far l’amore con lei. E stava male.
    Fino all’ora della telefonata.
    Dieci minuti dopo l’uscita di Guido.


    Nell’ufficio buio il telefono brilla a palpiti, annunciando un artificio erotico costruito solo di pulsioni astruse. Ma l’atto fisico dell’attirarsi, allacciarsi, unirsi da amanti insaziabili, può averlo? No. Rossana era stata chiara: non sarebbe riuscita a lasciare il marito e non voleva tradirlo. Marco deve accontentarsi di uno squallido sesso virtuale. Che non gli basta.
    Meglio chiudere!
    Tagliare di netto il legame.
    Cancellarne il tormento protratto ormai da un mese.
    Di giorno e di notte.


    (Uno schiocco e la luminescenza impudica dei circuiti si spegne.)

    Rossana sentì girare la chiave nella toppa.
    A occhi chiusi sentì girare la chiave nella toppa e il marito entrare nel grande atrio rigoglioso di piante, districarsi nella foresta casalinga di ficus, filodendri, orchidee, appoggiare la borsa da lavoro sulla sedia di lato alla porta, togliersi il cappotto e appenderlo nell’armadio dalle ante scorrevoli tappezzate di seta grezza color écru.
    Gesti calibrati ed eleganti.
    Nessun eccesso.
    Gradevole, senza affettazione alcuna.
    Capelli biondi. Di un biondo chiarissimo.
    Alto e slanciato.
    Taciturno.
    L’interesse era nato da un casuale scambio di parole durante una festa di fine inverno. Poi, negli appuntamenti successivi, Rossana lo aveva giudicato: gentile, tenero, rispettoso, molto cavaliere insomma: una persona d’altri tempi. Ne ammirava il candore apprezzando il trasporto con cui le si affidava.
    Iniziò a dire di essersene innamorata. Grazie al suo carattere, e inoltre perché - confessava all’amica più cara - possedeva altri pregi: una stimata famiglia d’origine, una buona cultura e l’atteggiamento sdegnoso di chi ha classe da vendere. Motivi, questi, sufficienti per un matrimonio, riteneva Rossana imbevuta di futilità convenzionali.
    E lo sposò.
    In quattro e quattr’otto.
    Con l’appoggio della madre e del padre bendisposti verso Guido: il compagno adatto alla loro umoralissima figlia. Ne avrebbe disciplinato la giovinezza focosa a picchi emotivi imprevedibili, assicurandole un decoroso domani nei migliori ambienti della città grazie al suo prestigio sociale e a un patrimonio florido. I giorni le sarebbero fluiti senza le sventatezze e i rimorsi tardivi cancellati dai velocissimi colpi di spugna suoi tipici. Tratti che l’età adulta avrebbe temperato, smussandone le spinosità.
    Questo le avevano prospettato i genitori a garanzia di un vivere secondo criterio. Questo aveva creduto lei fino a quel fatidico pomeriggio, quando, scrutando il collega che il marito le presentava, tese la mano e mormorò Rossana al suo energico Marco. Scossa da brividi come cuspidi elettriche. Perché, in una frazione di secondo e per incanto, si era sentita perdere in quegli sfrontati occhi scuri capaci di esorcizzare il malocchio zuccheroso in cui l’avevano invischiata la madre, il padre, Guido.

    I giorni a seguire furono dissestati da reazioni ambigue. Lei, troppo legata alle banali consuetudini per capire e scegliere, troppo debole per avere la forza di rompere schemi, era vissuta secondo cadenze altrui, lontanissime dalle sue. Negli occhi di Marco si era riconosciuta e ritrovata. L’essenza genuina adesso poteva trionfare, spazzare prepotente la polvere della sua quotidianità. Non era più il robot anestetizzato, drogato di perbenismo e incentivato con regali costosi, viaggi, vita mondana di una ripetitività stomachevole. Non avrebbe ulteriormente sopportato le ipocrisie del matrimonio a cui si era arresa.
    La sua diversità prorompeva.
    Il suo odore, per un processo di maturazione talmente intenso da darle il capogiro, denunciava uno scombussolio radicale. Si stava trasformando in una femmina primitiva, avida e focosa. E lei si inebriava del recente stato, come una lupa del suo calore. Il sangue le turbinava nelle vene con l’impeto di un fiume che non si adegua all’alveo artificiale, si ribella, travolge le dighe progettate ed erette dall’uomo.
    L’aspettava un’esperienza selvaggia.
    Attorno a lei c’era un mondo da esplorare in cui si sarebbe avventurata per intridersi di balsami e veleni.
    E non voleva altro, preda di un violento spasimo che si irradiava dalla bocca dello stomaco a conquistarla tutta.

    Cosa posso fare? si arrovellava Rossana servendo la cena. Un automa sorridente e oliato a dovere, la Rossana di Guido. Un fantasma contratto e smanioso, la Rossana di Marco. E Guido parlava, felice della festa a sorpresa, grato delle cure insperate.
    La lodava, le diceva: Ti amo, ti amo moltissimo, più della mia stessa vita.
    L’amava più della sua stessa vita.
    Parole insopportabili, esca per un effetto esplosivo. Le si ripercossero dentro fino a strapparle ogni percezione comune. E quando Guido si alzò, le si accostò e fece per abbracciarla, Rossana reagì con la ferocia di una belva aggredita. Sentiva il battito del cuore tempestarle contro il petto. La vera natura, sepolta sotto cumuli di scorie, tentava di scavare un varco per guadagnarsi l’aria.
    In un momento il passato fu raschiato via, la Rossana di Guido, rimossa. Al suo posto andava enucleandosi una creatura inesorabile.
    La nuova Rossana respinse Guido, scaraventandolo contro le ampie portefinestre. E mentre lui annaspava esterrefatto tra il vaporoso bisso che le schermava, abbrancò dalla credenza un antico scaldavivande a fornello e glielo gettò contro. Il liquido infiammabile fuoruscì in spruzzi e impregnò la camicia di Guido e i tendaggi.
    Per Rossana fu un segnale.
    Vorticando in una sorta di sabba allucinato, afferrò a una a una le numerose candele accese disseminate per la stanza e le scagliò sul combustibile versato. Intanto, piatti e bicchieri finivano a terra in schegge immonde di cibo.
    Le fiamme si appiccarono voraci. Attizzate da un soffio sovrumano, strisciarono con artigli blu-arancio sui muri intonacati a calce, sugli infissi di legno, sui mobili. Se ne impadronirono con un boato ruggente. Davanti a lei, stravolta dall’eccitazione, il fuoco esultò stringendo Guido in una trappola mortale.

    Rossana è oltre la sua stessa materia, in una galassia parallela dove tutto si può commettere senza restarne contaminati.
    Le finestre della casa sono occhi vermigli dalle ciglia dense d’ombra, le vampe sono capelli che ondeggiano in riccioli catramosi. E lei, in trance davanti allo spettacolo, va cantilenando ritornelli propiziatori mai osati. Si riscuote solo al tocco delle lingue ardenti che le leccano le ballerine di vernice, quasi a raccomandarle di andarsene dalla stanza in cui i mazzi di rose secche crepitano e gli ironici animali nelle incisioni acquerellate di William Beard si contorcono, sfarinandosi in cenere.
    Cenere: la sostanza giusta per il passato da ripudiare. Paradossale cenere fluida, in marea montante a coprire il nauseabondo odore di buono cesellatole addosso. A cancellare l’amore di un uomo che l’ama più della sua stessa vita e che ora, nell’occhio di una spirale scarlatta, si dibatte, incapace di salvarsi per il suo stesso stordimento.

    Si riscosse, dunque, e si precipitò in giardino.
    Planò sull’erba scricchiolante di gelo, si voltò a guardare il nucleo del barbaro olocausto – solo per una frazione di secondo –, ruotò su se stessa e incominciò a correre.
    L’itinerario del destino si snodava tortuoso.
    E lei lo seguiva.
    Tenebra al fondo della strada.
    L’ansimare del seno nella corsa e una pulsazione oscena che la penetrava invadendola tutta. Parossistica come un orgasmo.
    Una lingua vibrante le avrebbe dischiuso il futuro.
    Tra le labbra livide della notte.


lunedì 7 marzo 2022

Poesia / Cronaca: il Caso e la Storia.

 

Eugenio Bernes, L'essenza delle battaglie, C.A.G.E. ART, 2013 (Courtesy dell'artista).


Se il Caso fosse più invasivo
saprebbe giocare la sua mossa.
Così, come gioca il Caso.
E me lo immagino, questo Signor Caso,
mentre sfida a scacchi un qualche Dio
e in apertura si consolida.
con un gambetto.
Forse di donna.

Però è il Caso.
E quanto piace a me non gli interessa
perché Lui sposta i pezzi
con innocente indifferenza.
Non c'è una regola.
Nessuna applicazione.
Vincere? Perdere?
Che differenza fa.
Lui è il Caso
che non redige mai capitoli di Storia
e mentre Lei avviene
la lascia titolare dagli umani
come fosse una novella immaginata
nel chiuso di una torre
mentre fuori infuriano i contagi
e si preparano testate nucleari.

Dentro la suo limbesca tana
osserva con distacco naturale
visioni apocalittiche
di questa nostra Terra.
Siamo il suo film
in costante proiezione.
E Lui lo guarda.
Nemmeno in noia.
Finché non interviene imperturbabile.
Con aria assente.
Talvolta noi pensiamo di irretirlo
a un determinismo spicciolo
e dichiariamo di aver fatto patta.
Ma Lui già volge gli occhi altrove.
Davvero indisponente.

Se vuoi saperne di più sulla C.A.G.E. Art di Eugenio Bernes clicca QUI.
QUI  puoi leggere meglio la documentazione critica relativa.

mercoledì 23 febbraio 2022

Prosa / Il Bambinello delle Arpie (da "Davvero così").

 

Andrea del Sarto, La Madonna delle Arpie, 1517, Uffizi - Firenze.

    

    La cassetta della posta straripava. Alcune buste erano cadute a terra e portavano l'impronta sporca di varie scarpe. Nessuno dei coinquilini le aveva raccolte. Anzi! Chiara riusciva senza sforzo a immaginarne le facce schifate. Si vedeva la signora Cusmani biascicare tra sé e sé: Lettere per terra? Saranno senz'altro della pazza dell'attico. Uhm..., insozziamole per benino.
    Fanculo! mugugnò Chiara.
    Raccattò carte imbrattate e carte immacolate, le ficcò nella borsa e incominciò a salire le scale, rimuginando sui motivi di quell’atteggiamento. Eh sì, doveva ammetterlo: non ritirava la posta con regolarità. Se ne dimenticava per giorni. Dipendeva dagli impegni, dalle storie in cui era coinvolta. Il rapporto con Matteo l’aveva assorbita molto.
    Ma faceva del male forse?
    Rari rientri a tarda notte, un paio di piroette per sgranchirsi le gambe dopo ore e ore di lavoro a tavolino o al cavalletto, quattro cene tra amici…, doveva respirare, insomma! Se volevano la guerra, gliel’avrebbe dichiarata ben volentieri a quei rompicoglioni!   Figuriamoci se avessero dovuto sorbirsi qualcuna delle sue scapigliate mattane! Allora sì, che avrebbero avuto ragione di lagnarsi.
    Là, comunque, non era mai capitato.
    Eppure ci abitava da un po’.
    Erano in verità già passati sette mesi da quando il padre l’aveva trascinata a quell’appartamento in vendita in Via degli Olmi. Sapeva del desiderio di Chiara di vivere da sola e l’aveva accettato. Sembrava proprio la casa giusta per lei: un locale mansardato pieno di luce per due ampi lucernari e grandi vetrate sul parco della neoclassica Villa Ritter. Uno studio d’artista, non un alloggio tradizionale. Adatto a lei. Questo si comunicarono con un’occhiata eloquente al termine della visita.
    Poco dopo Chiara si era trasferita in Via degli Olmi con l’ingombrante bagaglio da pittrice e il minimo indispensabile di elementi d’arredo.
    Delimitata la zona notte con paraventi in midollino e bacchette di sambuco, srotolati sul pavimento dei tatami di paglia di riso e un futon, aveva affrescato il soffitto spiovente in diverse nuance di azzurro. A linee curve, come di flutti in corsa verso un sottile orizzonte turchese.
    Quel mare astratto era il fantastico spazio in cui rifugiarsi nei momenti di disagio o di stanchezza.
    Lasciando filtrare tra le ciglia il suo speciale cielo-mare, si librava leggera.


    Chiara entrò in casa davvero stizzita. Si sbarazzò subito delle scarpe e della borsa con un lancio alla cieca e si coricò sul futon – le lettere, le fatture, gli inviti sparsi a terra –. Intrecciò le mani sotto la testa, socchiuse gli occhi, si fece di cielo e di mare.

    Cielo e mare sopra di lei.
    Onde mutevoli sfumano in giochi languidi.
    Chiara segue il loro snodarsi.

    Nella caverna buia del sonno si accendono delle parvenze. A tratti spessi di sostanza alabastrina. Sono occhi quei baleni, sono guizzi di mani e di piedi minuscoli. Lampeggiano e spariscono. Finché la sensazione di dita sul viso la trae a forza dall’incoscienza, le guance calde per un’inspiegabile emozione.


    Aveva sognato un bimbo.
    Era il bimbo visto agli Uffizi neanche un mese prima. Da allora si sentiva diversa.
    Rammentava di essersi incantata davanti alla Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto.        Le era parso singolare quel titolo inciso sulla targhetta d’ottone accanto al dipinto, che non era un ricordo di Liceo o di Accademia. Ne era sicura. Da quando la faccia del Cristo infante in braccio alla Madre aveva polarizzato la sua attenzione, in lei si era guastato qualcosa. Le si era inceppato l’ingranaggio della serenità. E i dettagli ritornavano con precisione millimetrica. La veste policroma di Maria, il corpo seminudo del figlio, l’oscurità smaltata della nicchia, i Santi e gli Angeli sullo sfondo, i volti, il concentrarsi dei gesti in fulcri prospettici, ogni particolare le riappariva.
    E il bambino la perseguitava con lo splendore sovrumano degli occhi e il candido incarnato.
    La perseguitava notte dopo notte.
    Adesso però sapeva!
    Era il Bambinello delle Arpie, l’esserino del sogno. Poteva cercare di capirne il senso, decise Chiara passandosi una mano sul volto. Volle alzarsi ma la stanza le vorticò attorno.     Ricadde e chiuse gli occhi sul mondo oscillante.
    Un sopore greve la invase.


    Al risveglio, nello sfolgorio del tardo mattino, Chiara balzò subito in piedi e si mise al lavoro, tentando di ignorare una persistente nausea. Esaminò i bozzetti di una serie di acquerelli paesaggistici commissionati dalla Galleria Corsini, li giudicò buoni e decise che era giunto il momento di iniziarne la realizzazione sui grandi fogli di carta di seta preparati per accoglierli.
    Questo nelle intenzioni.
    In realtà, invece, prese il blocco degli schizzi e iniziò a tracciarvi disegni astrusi con la matita sanguigna. Non di cespugli, fiori, rovine, laghetti tra ortensie e azalee, muri scrostati ed edere, finestre spalancate su cascate di petunie, ma di mani gracili e adunche, braccia ossute, schiene distorte, costati scheletrici, spallucce aguzze, guance smunte, occhiaie enormi.
    Occhiaie come voragini che la inghiottivano.
    Lasciò cadere la matita.
    Cosa significava quell’impotenza?
    Aveva già organizzato tutto.
    Sul tavolo aspettavano i bicchieri per l’acqua, le vaschette di ceramica, i pennelli vecchi e nuovi, i godet selezionati per tinte. Il progetto era sotto i suoi occhi. In bella vista su un leggio antico, dono della madre.
    1° acquerello: Villa Ritter e il parco.
    Colori da usare: rosso indiano, garanza rosa d’alizarina, garanza bruna d’alizarina, terra di Siena naturale e bruciata, verde vescica, blu cobalto, grigio di Payne, ocra gialla, giallo di cadmio.
    Un sistema pedante ma collaudato. Se l’era imposto per darsi un ordine. Salvo poi derogarvi sul filo di un estro fulmineo. Perché l’arte, spiegava Chiara, nasce se con un sussulto, travalica i confini di una pignoleria smodata. Sta nel sollievo dell’ispirazione che si libera.
    La commissione firmata da Corsini: … dodici acquerelli a soggetto paesaggistico…, era da qualche parte sotto scatole e oggetti disparati, rassicurante e vera. L’occasione della vita, non se la sarebbe sciupata. Il grande gallerista, non la vorrà una seconda volta. Lo conosceva: o ci sei lì per lì, o ti trovi escluso.
    E allora, cosa le capitava? Come mai era capace di creare solo mostruose alterazioni del Bambinello celeste? Dove si era eclissata la sua spensieratezza? E l’energia che l’aveva salvata dallo sconforto nelle situazioni più critiche?
    Si chiude la testa tra le mani e incomincia a piangere. Un dolore acuto le migra dal petto verso il ventre, vi si annida. Pulsazioni intense la fanno piegare su se stessa. Le gambe non la reggono. Crolla sulle ginocchia e si raggomitola, le mani incuneate nel ventre, a scavarlo.
    Poi scivola nel nulla.


    Il ritorno alla coscienza è nel livore al neon di una camera d’ospedale. Accanto a lei, il padre. Lo interroga con un cenno. Hai avuto un aborto spontaneo, le racconta piano. Ti ho trovata stamattina, verso le undici. Per un presentimento mi ero precipitato a casa tua. Ho bussato e ribussato alla porta senza ricevere risposta. Dieci minuti di panico. Dovevi esserci, me l’avevi assicurato, non saresti uscita. Eri carica di lavoro. Spaventato dal silenzio, ho pregato il custode di aprire con la sua chiave. Siamo arrivati appena in tempo. I medici hanno bloccato l’emorragia. Riposa adesso, tesoro.
    Chiara ha l’impressione di contrarsi in un nodo. Infetto. Sotto la sferza della disperazione mugola e lo colpisce, quel nodo nel grembo sfiorito.
    E l’intelligenza di quanto è stato si fa delirio. Suo figlio aveva reclamato la vita e lei gliel’aveva rifiutata. Matteo era fuggito. Inseguiva le sue, di chimere, lui. Oltreoceano, con numeri e cifre, master in economia e stage in prestigiose aziende.
    Traguardi magnifici!
    Ma non per lei.
Lei voleva una famiglia, dei figli, amare ed essere amata. Confessandolo a Matteo, aveva compreso subito l’errore. Terreo, indurito nella voce, le aveva detto di non molestarlo. Lui aveva altro per la testa. Cose molto importanti. Il futuro. Senza di lei.
    Lo afferrava?
    Senza di te! aveva urlato.


    L’ultimo colloquio con Matteo.
    Circa un mese e mezzo fa, realizza Chiara.
    Lo aveva terrorizzato.
    E costretto a scappare.
    Quanto male si era fatta nei giorni successivi passati a macerarsi! Tanto da uccidere suo figlio. Da negargli la vita appena abbozzata.
    Chiusa in stupide banalità, non si accorgeva di essere al centro di un prodigio. E suo figlio, un tenero germoglio sano, era morto di ottusa indifferenza.
    Di ottusa indifferenza.
    Impossibile ricorrere al riparo ormai inospitale del cuore. Pareva pompare acido al posto del sangue.
    Che senso aveva respirare ancora?
    Doveva morire.
    Di una morte in dedica alla creatura che l’aveva chiamata da distanze incommensurabili.
    Forte di quella scelta, si volge al padre.
    E vede la pena degli occhi un tempo cerulei, sbiancati laghi di ghiacciaio adesso. Considera la sua tristezza dalla scomparsa della mamma, ma contenuta per non turbare lei, Chiara, unico affetto rimastogli. In lui parla l’Amore. Malgrado le ferite. Mai un’espressione indocile. Solo le mani, spesso premute giù nelle tasche o chiuse a pugno dietro la schiena, denunciano un’inquietudine rodente.
    Può ignorarlo come ha ignorato suo figlio?
    Tocca a lei sciogliere il cappio di quel patire.


    Così, si legò alla speranza del padre, la inalò per cercarne il profumo, se la fece rotolare dentro con i colori della sua tavolozza, diede forma a un sorriso e disse:
    Non avere paura, papà, continuerò a vivere.

martedì 15 febbraio 2022

Poesia / Tanka: Lungo il tratturo.


Estate 2015. Grado.
Nel guardare questa foto resto col fiato sospeso.
Ritrovo la luce splendente di quel giorno di gioia pura.
Ho accanto il mio Golden Retriever Pablo.
La meta, la immagino con trepidazione.
Mi pare di cogliere un luccichio di laguna
tra i cespugli all'orizzonte.
Tra poco mi riempirò gli occhi di acque verdi-rosa-azzurre,
di sabbie cangianti, legni levigati ed erbe aride.
Profumo di salso nell'aria.
Una nota più forte di granchi morti e alghe.
Si affoltano in me le sensazioni.
Sono di nuovo là.
Allora.

Irene Navarra, Lungo il tratturo / Grado, Fotografia Estate 2015, Grafica 15 Febbraio 2022 .

Lungo il tratturo
un passo dopo l’altro
afa pesante
nel sole che mi abbaglia.
Dopo i cespugli, il mare.

Grado, 2015

lunedì 14 febbraio 2022

Prosa / Il ritorno (da "Davvero così").


Fotografia di kissearth (Pixabay).


    Premessa
    Un uomo cammina adagio lungo la strada maestra per il paese di R****, sorto in epoche lontane attorno a un modesto castelliere di passo ed estesosi poi, tra erosi massi bianchi, fino ai prati dell’altipiano omonimo.
    Sta per arrivare.
    Là, dopo la curva dai cigli a roveti, c’è la dimora di nascita, in cui ha trascorso una scanzonata fanciullezza da figlio unico, futuro erede di un nome illustre e di un’imponente fortuna, e dove, per uno scarto del destino, è rovinato in un’incrinatura insondabile.
    Qualche centinaio di passi ancora ed entrerà nel parco secolare.
    In sprazzi di lucidità crescente lo ricorda misto di essenze arboree autoctone come le querce, i faggi, i carpini; e piantate dall’uomo con cura irrispettosa dell’habitat originale come i cedri del Libano, gli olivi, le palme.
    Entrerà e prenderà il sentiero di sinistra dopo il cancello, taglierà per la boscaglia di ruschi, e si fermerà davanti alla grotta chiusa dall’inferriata ad arzigogoli pomposi rivista, da quando se n’è andato, solo nei sogni frenetici in cui talvolta scivola malgrado la scelta irremovibile di veglia. Appena la sfinitezza gli appesantisce le palpebre, essa appare in infinite varianti: accesa dal riverbero del tramonto, baluginante nell’argento soffuso di una notte di luna, umida per le piogge autunnali, brinata di gelo, infuocata alla calura di agosto, ingentilita dai teneri tralci di viti ed edere in primavera.
    Si materializza sospesa in coordinate fantastiche. Il prodigioso varco verso un mondo buono e gradevole. Consolante.
     

    Da che luogo viene?
    Da una subdimensione chiamata con una parola semplice e assieme minacciosa, quanto il supplizio che evoca.
    Manicomio.
    Questa è la parola.
    Melodiosa alla pronuncia, con una sola durezza al centro: “c”. Un carattere dalla foggia grafica di cerchio interrotto. Ossia cerchio imperfetto.
    Un microcosmo ostile, in cui la voragine delle allucinazioni ha la consistenza azzurra del volto di una donna dal profilo di nuvola.
    O verde come la campagna vietata oltre le sbarre delle finestre.
    O nera come la mano di chi scava e scava per ritrovare la figlia custodita nel cuore della terra.
    Ha il raro sorriso dell’infermiera e l’espressione tronfia del medico piegato su di te a sperimentare l’efficacia terapeutica di oblii artificiali.
    Bramoso di capire.
    Capire…, cosa capire?
    Che tu sei là per uno schianto del tuo passato.
    Che tutto vorresti fuorché trovarti là, oppure che tutto vuoi fuorché non essere là.
    Che ci sei arrivato con le dita insanguinate per lo spasmodico aggrapparti. Con le palpebre cucite per poter vedere solo le tue visioni. Con le labbra sigillate per parlare solo ai tuoi fantasmi così veri da farci l’amore. Notte dopo notte, tra estasi e ribrezzo. E gridare, poi, e ridere, e piangere esausto nel tuo letto solitario.
    Il Manicomio è la Grande Casa traboccante di occhi dilatati sulle tue nudità.
    È Terra promessa e sepolcro.
    Finché…, finché non decidono per te.
    Magari dopo una vita.
    Dimenticata vita di cui ha buttato via la chiave chi doveva amarti.
    Decidono per te e ti dichiarano dimesso.
    Non guarito dalle tue vertigini funeste, ma dimesso perché abbastanza calmo, socievole, non più turbato da parvenze femminili, grotte, cancellate di metallo, sorgenti dalle acque millenarie.
    Pressoché disciplinato, pare.
    Manicomio: un bagliore su lembi di verità e un volo a precipizio nel buio di abissi personali.
    Te lo porti dentro, con la sua “c” mediana dalla coda acuminata infissa nell’anima.

    L’uomo della storia, Stefano, viene da un posto come quello.


    La storia

    Stefano sta per arrivare al fondo della strada.
    Percorre l’ultimo tratto frenando l’impazienza.
    Non manca molto, alla meta.
    Centellinando i particolari, se la figura con l’aspetto di un tempo. Visualizza il costone roccioso affacciato sul pianoro, la grotta scavata nel suo fianco dallo stillare dell’acqua in milioni di anni, l’ampollosa cancellata a chiusura.
    Il ritorno deve essere una liturgia solenne.
    Ripassa dunque, tra sé e sé, la serie dei gesti da compiere con ordine meticoloso: insinuare le mani nell’intrico di tralci d’edera e vite, appoggiarle sul ferro scalfito dal tempo, seguirne i contorni, indugiare sulle volute, sulle sagome stilizzate delle rose ornamentali per esporne le ferite e annullarvi le proprie.
    Niente può fermarlo.
    Niente e nessuno.
    L’esorcismo della lontananza si è sgretolato giorno dopo giorno scalando il Calvario dell’alienazione, un fiato alla volta verso l’ineluttabile in attesa laggiù, alla fine dell’itinerario già tracciato. Ha pagato il suo debito con l’orrore di polsi e fianchi inchiodati a un letto, lottando contro angeli blasfemi che gli accarezzavano il sesso.
    Il bagno di purificazione da colpe e rimorsi è avvenuto nel Padrenostro ostile della Grande Casa.
    Amen.

    Diletta si muove diafana nell’universo opaco della grotta, dove i ricordi si sovrappongono alle fantasie.
    Sono rimasta com’ero e forse lui non mi vorrà, mormora incredula del sussulto avvertito in sé alla notizia del suo ritorno. Gliel’ha annunciato la fonte perenne al centro della grotta. Con voce squillante le ha descritto il peregrinare di Stefano: i viottoli affrontati palmo a palmo, le soste sotto alberi frondosi o in ricoveri precari, le marce forzate e l’ultima tappa nel paese vicino. Parlava, parlava la fonte, a scrosci, a zampilli; poi taceva, acquietandosi nel lago improvvisamente fermo del suo specchio, riflettendo la luce degli occhi eterni della fanciulla. E lei splendeva, sorpresa della magia.
    Tra poco entrerà, sussurra Diletta ravviandosi i capelli con le mani d’avorio. Tra poco entrerà e io potrò alleviargli le pene, sospira vibrando di battiti traslucidi come ali di libellula in volo.


    Stefano procede incurante della temperatura torrida, pronto a indagare ogni dettaglio del paesaggio circostante per carpirne i messaggi.
    Sempre che la memoria non lo inganni, la strada gli sembra uguale, con le stesse buche polverose e gli stessi gelsi a indicare l’accesso alla villa, trascurata da molto per la morte di chi se l’era comperata dai suoi genitori in fuga sia dalla nevrosi del figlio (oh, se sconveniente! troppo inelegante!), sia dalle battaglie affettive da sostenere. Con un cospicuo lascito e un tutore di provata onestà avevano assicurato il futuro materiale di Stefano, dileguandosi verso un altrove insignificante per lui che rifiutava caparbio il cosiddetto normale. L’antica casa di nascita era ormai preda solo delle bizze stagionali. Nel congedo gliel’avevano rivelato medici e infermieri – raccomandando di non ritornarvi, per evitare ricadute – e Stefano ne aveva tratto un conforto tale da sentirsi felice.
    E felice lo è anche adesso alla vista del fossato in cui spariva per la caccia alle lucertole durante la stagione arida o navigava da prode Capitan Achab dopo le piogge di settembre. Tanto felice da voler protrarre quell’osservazione minuziosa. Così, indugia sulle crepe del muretto di cinta e sulle colonnine di mattoni calcinati dal bollore estivo per poi rivolgere lo sguardo alle curve avare delle colline stagliate contro il colossale scenario dei monti.
    Le colline. Un tempo credeva di poterle toccare se solo avesse steso una mano.
    Tutto come allora…, considera Stefano, ritrovando intatto in sé l’itinerario da seguire fino alla grotta: difilato tra i bossi piuttosto radi ai lati dell’entrata principale, a sinistra giù per il viottolo degli allori, dopo la macchia estesa dei noccioli, delle querce, oltre il rusco spinoso, al di là del primo avvallamento verso il limite occidentale della proprietà costellato di poderosi macigni alluvionali in caotica coreografia. Resti di un gioco a dadi di giganti. Avanza veloce Stefano, ed eccola, la grotta! Le è davanti mentre il cielo sbiadisce per l’afa e i pampini delle edere e delle viti, in intricato viluppo, fibrillano un saluto. Spinge le dita nella coltre spessa e allarga un’apertura sull’interno. Gli arabeschi rugginosi della cancellata intarsiano l’aria cupa come lettere di un racconto gotico. La D di D’Arcois (il suo casato), riemerge dal groviglio di rami e foglie. Può fungere da passaggio, abbastanza larga e comoda com’è, cedevole senz’altro per la corrosione.
    Stefano, però, vuole riportarla completamente alla luce, la cancellata.
    Nell’ultimo periodo di degenza al Manicomio, colmo di una nuova pacatezza, ha osato immaginare il momento e si è preparato.
    Depone a terra lo zaino, lo apre e ne leva a uno a uno dei sacchetti di velluto bianco, scelti con il rigore di un’ossessione salvifica tra gli oggetti prodotti da mani compagne nei laboratori della Grande Casa: alcuni piccoli, altri medi, uno grande. Ne slaccia i nodi, ne estrae degli utensili che dispone sul suolo secco: seghetti, cesoie e una scure. Semplici arnesi comperati durante il pellegrinaggio a ritroso e votati alla religione ingenua dei loro contenitori.
    Il lavoro può iniziare.
    Stefano recide e strappa, colpisce con l’accetta i tronchi dell’edera, delle viti. Libera a poco a poco l’inferriata, ignaro ancora dei simulacri nascosti dietro i suoi ghirigori barocchi.
    Al blando calare della sera l’accesso è praticamente sgombro. È ora di riposare sotto l’enorme luna color crema di latte elargita dal cielo. Una cena frugale di pane e frutta, lo zaino per cuscino, si rannicchia ai piedi di una quercia centenaria tra le radici affioranti dal terreno a forma di culla.
    Per la prima volta da quando ha lasciato quei luoghi e le loro larve, dorme un sonno placido.


    Diletta attende trepida che lui la raggiunga. Lo attende dall’ultimo gioco di ombre cinesi.
    Quanti anni aveva?
    Dodici?
    Sì, dodici teneri anni.
    E da quanti non vede Stefano?
    Oh, questo non lo sa, ma non ha importanza, conta il ritrovarlo e fargli capire di essere tornato nel luogo giusto. Finito il viaggio, sei a casa, bisbiglia preavvertendo lo scalpiccio dei suoi passi al di qua della soglia.


    È l’alba.
    Stefano si è svegliato al suo incedere rosa e ha finito di ripulire l’inferriata dall’esuberanza vegetale. Regolato il disordine, può disserrare lo scrigno dove, forse, si trova la risposta della sua ricerca. Tra un attimo ne violerà il segreto. Uno strattone alla catena agganciata alle grandi lettere dei cancelli e sarà dentro la grotta, sceso in se stesso e nel sogno a cui Diletta l’ha chiamato dal cuore di un vortice di acque insondabili, la mano tesa in un invito.


    Ecco il glicine e il giallo dell’aurora, la grotta è un caleidoscopio di colori. Diletta danza attorno a Stefano che entra.
    Come sei cambiato! si stupisce fasciandolo nella nube della chioma, toccandogli fugacemente il volto pallido e incavato, i capelli incanutiti, gli occhi tetri più degli angoli inaccessibili della grotta.
    Qui invece è tutto identico, gli dice in un soffio.
    Per te ho continuato a fantasticare sulla nostra storia e ti chiamavo. Ti ho chiamato da subito, triste perché non eri con me e non capivo. Io ricordavo solo il tuo nome e il nostro stare insieme.
    Diletta ha un fremito, abbassa il capo smarrita in una visione angosciosa. È un istante. Si riscuote e riprende a parlare: Ma il filo dell’amore che ci univa non si è mai spezzato. Ora tu sei qui e mi vedrai. In questo tempo dell’attesa ho intrecciato i nostri destini, simili a sottili ma tenaci tele di ragno. Tenaci
oltre la morte. E tu lo sai, Stefano. Fra poco rivivremo come ombre cinesi.

    Stefano è nella grotta. Sente una voce dagli accenti familiari. Le sensazioni si accumulano. La ragione vacilla. Si snodano sulle rocce frammenti dell’acerba adolescenza.
    Vede quanto ha rifiutato per anni di correlare al suo vissuto: una ragazza dai capelli nerissimi, un ragazzo esuberante, le corse al nascere del sole estivo balzando in tumulto dai propri letti, gettandosi a perdifiato fuori di casa per essere, all’apparire dei primi raggi, già nella grotta e inscenarvi il gioco delle ombre cinesi.
    Vede lei saltare sollevando con le braccia la mantellina di garza trapuntata di fiordalisi, agitarla in controluce a mo’ di graziosissima farfalla, atterrare sui sassi viscidi al bordo della polla, sdrucciolare, battere la testa, rimanere supina nell’acqua.
    Nell’acqua rossa di sangue.
    Lei, Diletta, involarsi per sempre.
    Lui, Stefano, assistere impotente.
    E quel dolore…, che lo subissa a ondate, che lo invade stravolgendolo ancora.

    Il dramma si è compiuto per la seconda volta.
    In un regresso inevitabile il cerchio si è serrato.
    Il pianto di Stefano si mescola al mormorio dell’acqua. I suoi singulti sono cuspidi di consapevolezza nel riaffiorare pieno della coscienza. Esili sembianti scaturiscono dai recessi delle rocce. Non definiti ma liquidi. Baluginano simulando alterazioni prodigiose. Creatura eterea in armonia con il miracolo dell’amore oltre la morte, lei rinasce.
    Stefano, al centro della grotta, respira veloce, quasi a per inalarne l’essenza dall’aria satura di particelle dorate. Non scorrono più lacrime sulle sue guance.
    Sorride.
    Adesso sa: quel viaggio convulso aveva lo scopo di ricongiungerlo a Diletta in un vertice di perfezione.
    Stefano abbassa gli occhi sulla fonte e la vede.
    Diletta si muove verso di lui.
    Le sue labbra compitano un messaggio che gli si propaga nel cuore come un’eco.
    Lo invita a guardarsi attorno.
    E Stefano guarda.
    La grotta sfolgora di miraggi che si fanno concretezza: la villa con la loggia al primo piano carica di rose rampicanti, gli allori, la macchia di noccioli e querce, il sentiero ben segnato, le palme, i prati, le rocce dei Giganti, i monti cinerini, la cancellata, le edere e le viti potate di fresco, la grotta. E proprio davanti alla grotta due ragazzi si incontrano, si abbracciano, posano la testa l’uno sulla spalla dell’altro, stanno per un po’ abbandonati al senso ritrovato dei loro corpi, si prendono per mano e ne varcano la soglia.


    Epilogo

    Dicono gli alberi, stormendo complici, che la fonte tacque e un silenzio sovrumano invase la grotta.
    Mentre il sole conquistava le vette del cielo, le sue pareti rimpietrarono assieme alla storia.
    Ormai non c’era più nulla da narrare.
    Stefano era entrato nel sogno.
    E aggiungono gli alberi, piegando rami e scrollando fronde di quel tanto sufficiente a parlottare in gran riserbo, aggiungono che qualsiasi risveglio gli sarà dolce.
    Finalmente dolce.

venerdì 22 ottobre 2021

Poesia / Frammento 35: Autunno recita.


Irene Navarra. Lagerstroemie in fiamme, Fotografia, 22 ottobre 2021.


Autunno recita preghiere
per la vita che si sfa.
Preghiere rosse e così squillanti!
 
Come vegetali fuochi d'artificio
invadono le nubi
e intonano richiami dalla buona voce.
(Sorrisi dentro il grigio.
Una scintilla in me.)


venerdì 28 maggio 2021

Poesia / Tanka: Ancora ieri.

Qui si parla di un momento ritrovato intatto in una fotografia.
Con me c'era Pablo Golden Retriever che ho amato con tutto il cuore e che mi manca insopportabilmente.
Sempre.
Respiro dopo respiro.
In due tanka spontanei lo celebro, quel tempo, irraggiungibile se non nel desiderio.

Si era d’inverno.
Il cielo casto e viola
su filari aspri,
il Sole già calato,
sorriso quieto intorno.

Io ti guardavo,
Stella mia cadente.
E lo sapevo
il tuo destino breve,
il Nulla oscuro poi.

Irene Navarra, Nella mia campagna / Ricordare, Fotografia 2020, Grafica 2021.


Poesia / Frammento 32: Lungo i binari.

 Quando perdi una creatura molto amata, il dolore ti sommerge.
A tal punto che pensi di non poter più respirare.
Poi un segno.

TrenoLuce #compo1.

Cuore di ragnatela dentro il petto
trafitto dal Distacco acerbo.
Di vetro sì. Ma senza luce.

All'improvviso lo sfolgorio di un treno
il suo rapido argento
e il ritmo di metallo nel silenzio.

domenica 25 aprile 2021

Poesia / Haiku: Anima.


Apparizioni fugaci del giorno in cui ho salutato mia madre per l'ultima volta.

Batteva un ramo di melograno alla finestra del luogo in cui ci trovavamo.
Lei ormai senza respiro.
Io appesa al filo labile del ricordo.
Batteva il ramo con il suo frutto rosso al vetro smerigliato.
Un'anima in saluto.

Entro breve sarebbero apparsi gli Angeli.

Anima tersa
in corpo vegetale –
Di luce e vetro


Irene Navarra, Anima, Disegno grafico, 2014.


domenica 11 aprile 2021

Poesia / Percezioni: L'anima rossa del gelo (Meditazione cromatica in Quarzo).

Preservazione criogenica del fiore, l'ho chiamata così la tecnica usata per salvare dalle gelate in primavera le piante da frutto. Ignoro se la definizione possa essere giusta, ma mi piace. Credo che illustri bene il fenomeno fisico. In termini scientifici la procedura si definisce Irrigazione sopra chioma e spiega la modalità di esecuzione. Il sistema viene dall'Austria, si pratica in Trentino e anche nella mia regione, che è il Friuli Venezia Giulia.

Qualche giorno fa ho avuto la gioia di visitare il Regno del ghiaccio che tutela gli alberi da frutto. Mi sono addentrata nel mondo diafano dei meli, dei ciliegi e dei susini in protezione dal gelo assassino con il gelo buono.
Tutto scricchiolava dolcemente mentre il sole illuminava i cuori rossi dei brillanti naturali sparsi sugli alberi ibernati in file ordinate.
Morte e Vita assieme.
Mi ci sono seduta, in quel giardino algido, accomodandomi con circospezione su una sedia lasciata là a godersi quella gloria. Pareva un trono regale da cui contemplare la meraviglia delle creature arboree - Sacerdotesse del Tempo sotto sospese spoglie - agghindate per un rituale arcano.
E mi ci sono persa in quelle creature, al punto da sperimentare l'identificazione nei Quarzi che le ornavano. Pietre preziose sparse a piene mani.
Ho inspirato materia traslucida ed espirato calore in eccesso. Più volte.
Niente più squilibri. Niente alterazioni da furori compressi.
Il corpo manteneva l’opportuno tepore.
La mente un'equa discrezione.
Lo spirito si espandeva affrancato da ogni legame.

Irene Navarra, L'anima rossa del gelo, Fotografia, 8 Aprile 2021.

Didattica minimale per la Meditazione cromatica in Quarzo di gelo.
(Il Quarzo del gelo è la metafora adatta alla Meditazione cromatica avulsa da riferimenti materiali.)

Resa d'incanto fiore di melo
nella corazza di difesa ghiaccia
come canora scatola lucente,
sono scintilla e gelo.
L’anima rossa
blandita dal cristallo
che si scioglie al Sole
- piano cantando melodie -
tende a distendere i suoi lembi
per poi librarsi in volo.
Fatta vapore iridescente.


                         

Le fotografie sono state scattate nell'Azienda agricola e vitivinicola di Alide Mancin e Maurizio Marega in Località Mainizza di Gorizia.